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La maestra bugiarda
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E-book369 pagine5 ore

La maestra bugiarda

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Info su questo ebook

«Il classico libro che ti fa venire voglia di tenere la luce accesa di notte.»

Pippa ha superato i trent’anni e nonostante il suo matrimonio sia naufragato, sente di meritare una seconda occasione. La sua vita però è in stallo: il lavoro di insegnante non le regala più alcuna soddisfazione, il suo primo libro è stato un totale insuccesso e non trova l’ispirazione per iniziare un nuovo romanzo. Finché non bussa alla sua porta Ryan Marks. È un venditore porta a porta, e lei rimane subito folgorata dai suoi occhi azzurri, così decide di lasciarlo entrare. Anche Ryan è un uomo in fuga dal suo passato, ma giura di essere cambiato. Potrebbe essere la chiave per l’inizio della nuova vita che Pippa desiderava? Dopotutto, è sempre stata brava a riconoscere una bugia. Se la sua vita fosse in pericolo, se ne accorgerebbe di sicuro… oppure no?

Bestseller in Inghilterra

L’ha invitato lei a entrare ma adesso non riesce più a farlo andare via

«Un thriller psicologico che mette i brividi. Eccezionale.»

«Scioccante, provocatorio. Il classico libro che ti fa venire voglia di tenere la luce accesa di notte.»

«Geniale, pazzesco, magnifico! Questo libro vi spiazzerà completamente. Vedrete.»
S.E. Lynes
ha lavorato alla BBC come produttrice, insegnante di scrittura creativa e tutor. Nel corso della sua vita ha vissuto in Francia, Spagna, Scozia e Italia, prima di stabilirsi nel Middlesex con il marito, i tre figli e la cagnolina Lola. È autrice di quattro romanzi di successo.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2019
ISBN9788822734099
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    Anteprima del libro

    La maestra bugiarda - S.E. Lynes

    Capitolo uno

    Diario di Pippa Gates

    La prima cosa che dovresti sapere, caro lettore, è che sono morta.

    Naturalmente non ora che scrivo, qui alla fattoria. Ma se stai leggendo queste parole, il motivo più plausibile è che il mio diario è stato pubblicato postumo. E se così è, significa che quanto è accaduto a Cairn Farm è balzato agli onori della cronaca. Probabilmente alcuni stralci di questo diario saranno finiti su vari giornalacci e testate nazionali, oppure saranno stati letti con foga da qualche telecronista concitato. Presumo che parte della storia che sto per raccontarti sarà stata presentata in toni più sobri e rispettosi, come prova di un’inchiesta giudiziaria.

    Quindi, se hai seguito la vicenda in

    TV

    e sulla stampa e ora stai leggendo questo racconto privato, immagino che tu sia a caccia di informazioni scottanti su quelli che saranno stati battezzati gli omicidi del Wiltshire. Vuoi la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, quindi eccotela servita.

    I lettori – anzi, direi le fan dei miei libri – sapranno che sono la scrittrice di romanzi rosa Pippa Gates. Se per curiosità sei andato a sfogliarti alcune interviste che avrò rilasciato o mi hai sentita per caso alla radio, avrai scoperto che insegnavo inglese in una scuola e che prima di trasferirmi qui a Cairn Farm, nel Wiltshire, abitavo nella periferia sud di Londra. Magari, dopo tutti gli articoli che hai letto, penserai di sapere qualcosina di me.

    Ma te lo dico subito, amico mio: non sai quasi nulla.

    Tanto ormai non ha alcuna importanza. Né la versione degli eventi diventata di pubblico dominio, né i post sui miei profili social ai quali al momento non posso accedere per motivi che spiegherò in seguito, e neppure il mio ultimo romanzo, che ovviamente potrei non finire mai. L’unica cosa che conta è il diario che ho appena iniziato a scrivere alla scrivania, questa cronistoria privata che diventerà pubblica: anzi, che lo è già, se la stai leggendo. In un mondo di storie alternative e fake news, questo diario è l’unico e il solo documento a raccontare la verità.

    Non avrei mai potuto pubblicare a nome mio il genere di materiale che intendo inserire qui, sai, perché io scrivo storie d’amore, romanzi con messaggi positivi che devono dare belle emozioni, non turbare o far star male il lettore per giorni. Nei miei libri non ci sono parolacce, violenza o inquietanti presenze nel cuore della notte. Sono ottimistici. Regalano gioia. Finché morte non li separi, quello a cui sto lavorando adesso, non farà eccezione. Altrimenti sentirei di tradire le mie lettrici.

    Questa storia invece, be’, questa è diversa.

    Temo che qui un bel lieto fine non sarà possibile. Come ho detto, se stai leggendo questo diario molto probabilmente la mia triste storia si è conclusa con la mia dipartita. Se ti piacciono i giochi di parole, si potrebbe dire che sono andata incontro al massimo fattore.

    Che gran finale. Gli incipit sono un altro paio di maniche. Finché morte non li separi inizia con l’arrivo dell’ottantenne Daisy Philips nella casa di riposo Grange, dove si ricongiunge casualmente all’amore della sua giovinezza: Bing. La loro storia era finita in malo modo e non si vedevano da cinquant’anni…

    Ora che ci penso, la mia storia vera, una vicenda decisamente più lugubre, per non dire letale, inizia invece con il più classico degli espedienti narrativi: con qualcuno che bussa alla porta.

    Era un giovedì e mancava poco alla fine della scuola. Giugno, quando insegnavo ancora all’istituto comprensivo St Matthew e odiavo ogni minuto che ci passavo. Nella giornata estenuante del giovedì, subito dopo la pausa pranzo avevo lezione con quegli scalmanati della sezione

    J

    di seconda superiore, il tragico finale di una settimana particolarmente drammatica. Come se non bastasse, la sera prima ero uscita con uno conosciuto su Tinder, eravamo finiti in un locale notturno a Tottenham Court Road, e ricordavo vagamente il momento in cui il tizio dal labbro umidiccio di cui ora mi sfugge il nome mi aveva infilata in un Uber, presumo dopo avermi estorto in qualche modo l’indirizzo di casa. In quel periodo non interessava a nessuno dove abitavo. In quel periodo non temevo per la mia vita. A dirla tutta, in quel periodo, della mia vita mi interessava ben poco. In effetti, per usare un francesismo, avevo una vita di merda, e l’unica via d’uscita – parecchio imbarazzante – che riuscivo a intravedere era scrivere un best seller.

    Esatto. Il piano era questo. Tipo vincere la lotteria, trovare un cavaliere con l’armatura splendente o un tesoro sepolto in giardino.

    Dire che quel fatidico giovedì ero al limite è un eufemismo. A peggiorare le cose, diciamo che il mio geniale piano

    A

    – hai presente quello in cui scrivo un best seller? – non stava esattamente procedendo benissimo. A dire la verità, non aveva proprio preso il via. Lo so, lo so. E hai pure ragione. Perché cavolo non mi ero data una mossa? Uno penserebbe che, avendo riposto tutte le mie speranze per fuggire a quella grigia esistenza nel seguito del mio primo romanzo clamorosamente fallimentare, mi sarei rimboccata le maniche e, chissà, magari stavolta avrei almeno provato a scrivere uno straccio di roba decente, no? E invece no, ahimè, no. Mi ero ridotta alla vigilia della terza scadenza posticipata. L’idea nuova era di inchiodarmi alla scrivania per inviare il primo capitolo all’editor entro l’indomani mattina, altrimenti il contratto sarebbe stato annullato. E ci stava. Jackie, la mia editor, aveva avuto molta pazienza, specie considerando il fiasco colossale del mio primo libro. Ma io non avevo ancora nulla. Nada. Zero di zero.

    Quindi, sì, per la testa a dir poco annebbiata che avevo mi frullavano tutti questi pensieri, quando un alunno della seconda

    J

    si accese una canna in classe. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, e io sbroccai (scusa la battutaccia).

    Sicuramente potrai comprendere come mai, arrivata a casa, mi serviva un goccetto. Una pessima giornata al lavoro, i postumi da sbornia, il ricordo confuso di un appuntamento con l’ennesimo tipo carino che non mi aveva colpito manco di striscio. Insomma, fortuna che mi ero fatta un drink, onestamente, perché esattamente come avevo previsto pur cercando di autoconvincermi che non sarebbe successo, alle 16:45 iniziò a vibrarmi il cellulare. Lessi il nome che sapevo sarebbe spuntato a chiare lettere sullo schermo: Jackie West. Vidi il viso della mia editor che mi sorrideva, una foto scattata a un pranzo parecchi mesi prima, quando pensava davvero che avrei rispettato la scadenza. Sì, nonostante avessi previsto la chiamata, per qualche motivo mi colse alla sprovvista. Cosa? Non fare quella faccia. È capitato a tutti, no? E qual è il luogo migliore per confessarlo se non il privato del proprio diario segreto?

    A ogni modo, un sorriso in faccia e il petto in fuori, premetti il tasto

    RISPONDI

    .

    «Jackie», dissi, pronunciando il nome con un entusiasmo da organizzatore della lotteria nazionale durante l’estrazione del biglietto vincente.

    «Ciao, Pippa. Come va?». Leggasi tra le righe: Per cortesia, non costringermi a licenziarti.

    «Bene, molto bene, anzi». Dopo qualche peregrinazione mi trovavo china sullo specchio nell’atrio, l’attenzione per un attimo catturata da una lieve ombra sopra il labbro superiore. Baffetti?, mi chiesi. Oddio. Come cavolo era possibile? Avevo solo trentaquattro anni.

    «Pippa?»

    «Ci sono, scusa. Mi hai sorpresa alla scrivania». Tornai in soggiorno, dove il mio portatile giaceva sul tavolino, aperto come un’ostrica in attesa di qualche perla. Mi versai l’ultimo goccio rimasto nella bottiglia. «Stavo proprio finendo di buttare giù la sinossi».

    «Ottimo, ottimo. Se non sbaglio eravamo rimaste per domani, quindi ottimo… ottimo così».

    Malgrado l’oppressione che sentivo al petto, non dissi nulla.

    «Allora», continuò lei. «Senti, quando…».

    «Domani mattina», la interruppi. «Ho già scritto metà del primo capitolo. Devo solo limarlo un po’, darci un’ultima occhiata e poi…». Mi obbligai a fermarmi.

    «Okay, perfetto. Fantastico. Allora, senti, tra poco vado a casa, quindi mandamelo stasera quando vuoi. Va bene pure a mezzanotte in punto, tanto lo leggo domattina, d’accordo?»

    «Certo», risposi, pensando che mezzanotte in punto era decisamente ottimistico. Più probabile alle tre del mattino. Diciamocelo: l’ipotesi più plausibile era mai. «Te lo mando entro sera, sicuro».

    Sicuro.

    È sempre difficile individuare l’elemento che innesca una cosiddetta reazione a catena, ma ripensandoci era andata così: brutto appuntamento, brutta sbronza, brutta giornata, bicchierone di vino, telefonata dell’editor, io che blateravo una promessa assurda, io che sfioravo l’esaurimento nervoso al pensiero del mio sogno che stava per andare in fumo e io che aprivo la porta.

    E da lì è iniziata la storia surreale.

    Alle sette di sera fissavo da un’ora la pagina vuota sul

    PC

    . Avevo provato a chiamare la mia migliore amica Marlena, ma alle solite era troppo indaffarata coi figli e con quel pesaculo del marito. Mi ero fatta un altro bicchiere di vino, avevo mangiato un sacchetto di patatine (uno dei cinque che mi sbafavo ogni giorno) e mi ero fatta una lunga doccia. Avevo letto su Google qualsiasi infimo gossip sui

    VIP

    nella speranza di trovare una storia d’amore burrascosa da cui attingere oro drammatico. Avevo passato in rassegna tutto il corpo docente della St Matthew alla ricerca di qualcuno che si prestasse a diventare il protagonista di una storia romantica: Kevin di scienze non era malaccio, bastava allungargli i pantaloni e cambiargli le scarpe; Jean-Pierre di francese aveva begli occhi e un nome adatto, ma da quando lo avevo visto ballare a una festa di Natale non riuscivo a togliermi quell’immagine dalla testa; e Dave di geografia era… insomma, lui no… proprio no. Avevo rovistato nel mio archivio personale: tutti i ragazzi con cui ero uscita negli ultimi due anni, conosciuti su Tinder, su Meetic, su qualsiasi sito di incontri; ero addirittura risalita a quelli conosciuti prima di Bill. Ma niente.

    Perché non cerchi spunti nei fatti di cronaca?, ti sento urlare. Abbondano di storie, no? Ecco, il punto è questo. Non sono proprio una da attualità. Non sono una grande fan dell’informazione tout court. I fatti di cronaca sono per definizione tremendi, e non c’è niente che io possa fare relativamente alla guerra di qualcun altro, all’ultima sparatoria in ordine di tempo, o chissà quale cibo che mi sono pappata allegramente per trentaquattro anni e ora è risultato cancerogeno. Ma ero talmente disperata che alla fine mi decisi a leggere le notizie di cronaca. E mi ricordai perché non lo facevo mai.

    Troppo realismo. Grazie ma anche no.

    Le mie speranze risicate stavano per esaurirsi come il calice di Pinot nero – i fondi di bianco avevano da un pezzo preso la via del rosso – e mi stavo mangiando il secondo sacchetto di patatine quando, come da copione, qualcuno bussò alla porta.

    Non lo dico per creare suspense: qualche giorno prima mi era davvero morto il campanello e non avevo idea di come sostituire la batteria. Ma supponiamo che l’abbia escogitato io.

    Lettore: qualcuno bussò alla porta.

    Chi cavolo sarà?, chiesi tra me, fiondandomi nell’atrio. Non so perché mi precipitai con tanta fretta: alle sette di sera poteva solo essere un politico in campagna elettorale, il volontario di un ente di beneficenza alla ricerca di un bonifico mensile o un venditore porta a porta.

    Com’era prevedibile, quando aprii la porta mi trovai davanti un uomo cadaverico con un pomo d’Adamo spropositato, i capelli unti e brizzolati leccati all’indietro, la fronte solcata da rughe profonde e le grinze svuotate delle guance un tempo piene a incorniciargli le labbra sottili. Sembrava sulla cinquantina. Dalle spalle strette ricadeva un vecchio parka militare (in giugno), le gambe gli navigavano in un paio di jeans slavati e le scarpe da ginnastica, in un’altra vita bianche, erano sinceramente indescrivibili. Reggeva davanti a sé la vaschetta di ordinanza piena di prodotti casalinghi. Mi sforzai con tutta me stessa di non dare a vedere quanto avrei voluto fingere di non trovarmi in casa.

    «Buonasera», mi disse con l’allegria forzata di un poveraccio. «Scusi il disturbo, mi chiamo Ryan Marks. Sto cercando di risalire la china dopo la prigione e mi chiedevo se magari potessero interessarle dei prodotti per la casa».

    Post del blog PippaGatesAutrice

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    Questa sera a Cairn Farm la signora Danvers prepara uno stufato di pollo, perfetto per una fredda serata d’inverno. Dopo un autunno straordinariamente caldo – la terra soffice e i batteri che proliferavano nell’aria mite – finalmente la mattinata ha portato sulle siepi del Wiltshire i tanto attesi fiocchi di neve e le ortiche ai margini dei campi sono ammantate di brina luccicante. Quale momento migliore per incominciare un blog se non all’alba di una nuova stagione, inaugurata – con un certo stile, devo dire – dalla bellezza invernale del ghiaccio! Il ghiaccio ha il potere di trasformare le cose, non è vero? Prendete per esempio le banali ortiche: sono urticanti, sì, ma basta una spolverata di magica brina e quelle erbacce diventano zucchero e miele. Eh sì, a me basta la mano del vecchio signor Inverno per evocare aroma di vin brûlé e caminetti accesi, visioni di maglioni scozzesi e calzettoni di lana, per sentirmi pervadere da un calore pruriginoso.

    Adoro l’inverno.

    Siccome stamattina c’era una bella arietta frizzante, io e la signora D siamo andate al campo sulla collinetta per visitare il cairn commemorativo, la piccola piramide di pietra in onore della quale abbiamo ribattezzato questo fatiscente mucchio di mattoni che chiamiamo casa. Potete vederne una foto sul post che ho pubblicato prima su Instagram. Non si vede quant’è grande – sembra un vecchio cumulo di sassi come un altro – ma direi che è alta quanto una sedia o un cane di grossa taglia, e che le pietre sono grosse più o meno quanto una mano. Insomma, dopo colazione abbiamo fatto due passi fin lì per sgranchirci le gambe prima che io mi mettessi alla scrivania. Che è quello che devo fare adesso!

    L’obiettivo del giorno è scrivere tremila parole.

    Vi aggiorno, lettori!

    Capitolo due

    Diario di Pippa Gates

    Sto scoprendo che la solitudine regala a uno scrittore un sacco di libertà. Nel mio ufficio qui a Cairn Farm, con i fiocchi di neve che scendono fuori dalla finestra, l’unica cosa che mi permette di esporre tutto in un modo di cui non mi sarei mai creduta capace è il pensiero che nessuno leggerà mai queste parole. Ammetto che non si tratta esattamente di un diario, perché in un certo senso scrivo per qualcuno: ossia per te. Perciò si potrebbe dire che non è un diario segreto, non proprio. Ma il punto è che, pur essendo vero che in un certo qual senso sto parlando con te, mentre scrivo al computer sono anche consapevole che non mi puoi sentire… Almeno, non fin quando quello che ho da dire non potrà più mettermi in imbarazzo, inchiodarmi o condannarmi. Non sono giudicabile. Sono nell’oltretomba. Ed è da questo luogo ipotetico che devo continuare la mia storia: sulla porta di casa mia c’era Ryan, il pregiudicato, giusto? Coi suoi vestiti orrendi e la sua vaschetta di cianfrusaglie, mi chiedeva se volevo comprare qualcosa, confidando sul fatto che il mio senso di colpa buonista mi spingesse a rientrare in casa per andare a prendere il portafogli, ad appianare le disuguaglianze mondiali sventolando una banconota da dieci.

    Dopo un secondo Ryan tirò su col naso, poi distolse lo sguardo, la mascella una

    L

    precipitata sotto la pelle ingrigita. Dopo aver tirato ancora su col naso, tornò a guardarmi. Sulla punta del mento con la fossetta c’era il rado ripensamento di una barba aggrappata alla vita.

    «Se vuole le illustro tutti i prodotti». Una traccia di accento cockney, le vocali che quasi non si sentivano. Ryan aveva piccoli occhi azzurri che fissavano quasi con aria di sfida.

    «Aspetti, vado a prendere il portafoglio».

    Chiusi adagio la porta – tengo a farti sapere che almeno questo l’ho fatto, anche se so che non ti impedirà di giudicarmi comunque – e andai a prendere i soldi. Mi sentii ribollire di fastidio, come spesso capita quando qualcuno ti interrompe mentre stai facendo una cosa difficile. Come si permette questa persona di impedirmi di procrastinare? Il succo era questo. Sul serio, preferisco dare a questi tizi dieci sterline e dirgli di tenersi la loro robaccia. Ma devo ammettere che, come capita spesso nella vita, bisogna far buon viso a cattivo gioco: Ryan era un venditore e io una cliente che pagava profumatamente prodotti di qualità recapitati a domicilio. Lo facciamo ogni santo giorno, no? Come sta? Bene, grazie *conficca le unghie nel palmo*. Come va il pranzo? Benissimo, è delizioso *spinge il petto di pollo rinsecchito sotto una foglia di lattuga moscia*. Le piace il taglio di capelli? Lo adoro! *paga, torna a casa, ficca la testa sotto il lavandino, scoppia a piangere e si chiede se non starebbe meglio con un sacchetto di carta con due buchi per gli occhi*.

    Ora, magari la memoria mi gioca brutti scherzi, o forse sto soltanto cercando un alibi per giustificare come mai la serata prese la piega che prese, ma sono sicura che quando riaprii la porta la prima cosa che vidi furono gli occhi azzurro scuro di Ryan Marks. Un colore, pensai, simile a inchiostro caduto in acqua. A fare pena era il resto.

    «Tenga, ho solo due da cinque», dissi. Che bugiarda. Di strada per casa mi ero fermata a prelevare duecento sterline dal bancomat. Era l’unico modo che avevo per tenere sotto controllo le mie finanze, quando mi toccava farlo: le carte di credito contactless sono una tragedia per una come me, avrei dilapidato lo stipendio in una settimana. Ma mica potevo sbandierargli quanti soldi avevo in casa, no?

    «Va benissimo», rispose lui. «Per due belle cocuzze come quelle di sicuro qualcosa la trovo». Mi guardò negli occhi e ridacchiò sotto i baffi.

    Cos’era, una battuta a doppio senso? E quell’accento del malfamato East End che battagliava per affiorare dalle consonanti? Che Ryan cercasse di riscattarsi, di allontanarsi da un sordido passato, da qualcosa di losco e infamante che voleva lasciarsi alle spalle?

    «Mi dia una cosa qualunque», gli dissi.

    «Se vuole posso illustrarle questa bella gamma di prodotti di prima qualità, così sceglie quello che preferisce». Passò con teatralità una mano sopra la vaschetta, le parole e il gesto venati da una certa goliardia, da una fragile malizia complice.

    «Ne ha venduti molti stasera?». Mi sorpresi appoggiata allo stipite della porta, pentita di non essermi tolta gli stivaletti

    UGG

    , il vecchio cardigan e quei maledetti baffetti prima di andare ad aprire la porta.

    Ryan socchiuse le labbra sottili per scoprire i denti storti e marroni. Magari fumava o beveva litri di caffè.

    «Il bello di questi prodotti», mi rispose, «è che si vendono praticamente da soli». Aveva un tono morbido, solo una lieve cadenza. Magari non aveva avuto un percorso in salita ma in discesa… Magari era di buona famiglia, un uomo benestante caduto in disgrazia. Un reato finanziario? Possibile. Truffa? Poteva darsi. Evasione fiscale? «Dovrei mettermi in strada a strombazzare il clacson», continuò con una bella parlantina. «E aspettare che accorrano le folle».

    Scoppiai a ridere, stupita dal suo evidente senso dell’umorismo.

    Si passò una mano sui capelli lisci ingellati… Tre anelli celtici d’argento, uno sul mignolo, uno sul medio e uno sull’indice. Colsi una zaffata di patchouli, di sapone scadente, ma anche qualcosa di virile, di segnato, quasi fungino. Aveva le unghie lunghe e squadrate, le punte di un bianco innaturale.

    «Prenda questo». Estrasse dalla vaschetta quello che allora potei solo definire un oggetto di plastica verde. «Ormai non riesco neanche a immaginare di viverci senza».

    «Neanch’io». Glielo presi di mano. «Che cavolo è?».

    Le labbra sottili sorrisero ancora, un’aria divertita a piegare le sopracciglia incolte. «È un portacellulare che, si regga forte, si appende alle maniglie. Maniglie dei pensili della cucina, del guardaroba o quel che è. Si appende questo gioiellino…». Allungò un braccio e me lo sfilò abilmente di mano. In un secondo lo tolse dalla bustina di cellophane per esibirlo come in una dimostrazione. «Si infila il cellulare qui, vede». Mimò il gesto di inserirlo nell’orrido portacellulare. «Due secondi ed entra. Quando vuole lo tira fuori». Lo sfilò e lo reinserì. «Dentro e fuori. Dentro. Fuori. Ecco qui. E si appende così». Con un sorriso vagamente nevrotico, se lo appese all’indice. «È fatto apposta per avere le mani libere, così può continuare a fare… insomma, qualsiasi cosa voglia fare che richieda due mani».

    Non capivo se mi stesse prendendo in giro o cosa. Dalla faccia sembrava serio, ma era un’impresa non cogliere un doppio senso in ogni frase.

    «Non pensavo di averne bisogno», mi limitai a rispondere.

    «Il bisogno è così», disse. «Non sai cosa ti serve finché non la individui, e finché non la trovi non sai cosa ti serve».

    «Mi sa che ha ragione», ribattei, i polpastrelli in sospeso sulle labbra, un tic che mi viene quando sono in imbarazzo.

    Lui invece sembrava tutt’altro che a disagio. Piazzò una lurida scarpa da ginnastica sul gradino davanti alla porta. «Adesso è contenta che sono venuto, eh? Ha bisogno di me nella sua vita e non sa neanche quanto. Come ti chiami, già che ci siamo?»

    «Pippa. E tu… Ah, Ryan, giusto? Scusami, ti sei già presentato». Mi resi conto di aver a malapena guardato il suo documento. Quell’uomo avrebbe potuto essere chiunque, chicchessia. Mi sforzai di guardarlo negli occhi, e lui mi fissò senza battere ciglio.

    «Se posso permettermi», gli dissi, «non rientri proprio nel classico profilo».

    Ryan annuì con fare solenne ma non mi parve offeso. Anzi, si guardò a destra e sinistra con aria giocosa e poi mi fissò dritta in faccia. «Perché gli altri sono delinquenti da due soldi, io invece… sono un assassino». Rimase un attimo impassibile, dopodiché mi puntò e scoppiò in una gutturale risata da fumatore. Nel cupo antro della sua bocca spuntò un dente d’oro luccicante. «Stavo scherzando».

    «L’avevo capito», risposi ridendo a mia volta. Ovvio che l’avevo capito: per chi mi aveva preso, per una deficiente?

    «No, sul serio». Si drizzò, tolse il piede dall’uscio per ripiazzarlo sul vialetto. «Sto solo cercando di rimettermi in sesto come tutti. È bello quando qualcuno ci concede un po’ del suo tempo e ci tratta come esseri umani. Ti fa sentire meglio».

    «Che cosa ti è successo?», gli chiesi. «Scusa, lascia perdere. Non sono affari miei».

    Lui scosse la testa – nessun problema – e per un attimo si fissò i piedi. Le suole delle scarpe ciondolavano dal cuoio come lingue sudicie. «Storia lunga. Ma non è tanto quello che mi è capitato, quanto quello che ho fatto, Pip. È stata colpa mia, me ne assumo ogni responsabilità. Ma mi sono risollevato una volta e lo farò di nuovo. Ho imparato la lezione». Alzò lo sguardo, gli occhi sempre azzurrissimi all’imbrunire. «Ho scontato le mie colpe».

    Le aveva scontate. Le aveva scontate eppure eccolo lì, a scontarle ancora: tra gli sguardi sprezzanti e le porte sbattute in faccia, le opportunità di lavoro senz’altro sfumate per sempre. Mi toccò.

    «E ora che cosa vorresti fare?».

    Lui scrollò le spalle. «Secondo me potevo diventare il primo falegname con una laurea in letteratura inglese, ma eccomi qui. Ringrazia pure sua Maestà per la gentile concessione».

    Aprii un po’ di più la porta. La punta dei miei stivaletti varcò il confine di ottone di casa.

    «Io…».

    «Tu cosa fai?», mi interruppe. «Scusa, ti ho interrotto».

    «No, no. Faccio la… faccio… faccio la scrittrice». Non esattamente. Ero l’insegnante di un istituto comprensivo che non riusciva nemmeno a mantenere l’ordine in classe; ero una seduttrice seriale che era riuscita a scrivere un romanzo penoso andato malissimo. Mi soffermai a chiedermi come mai avessi preferito parlargli dell’attività che, a essere generosi, svolgevo a metà, invece della banale verità? Avevo cercato di fare colpo, ovvio. Adesso l’ho capito. Ma perché? Immagino che, malgrado la repulsione che mi suscitava, la paura silente che mi incuteva Ryan, speravo comunque che mi trovasse interessante.

    Appoggiò un braccio al muro di casa. «Di che genere?»

    «Romanzi». Romanzi al plurale. Che ridicola, che impostora.

    Lui inclinò leggermente la testa, come per adattarsi a un improvviso cambio di luce. «Adoro leggere. Quand’ero dentro leggevo tantissimo. Cormac McCarthy, Ian McEwan. Mi piacciono anche robe vecchie. Dickens. Mi piacciono Iris Murdoch, Daphne du Maurier».

    «Io adoro la du Maurier», risposi. «Soprattutto Rebecca la prima moglie».

    «Eh sì, grande libro. È possibile che abbia sentito parlare dei tuoi romanzi?».

    Scoppiai a ridere per l’imbarazzo, come se mi fossi appena proclamata pittrice e ora, nel sentir nominare Rembrandt e Picasso, mi toccasse spiegare che mi guadagnavo da vivere imbiancando case.

    «Non sono proprio a quel livello», dissi. «Ho scritto un libro intitolato Lotta per amare, ma dubito che… Insomma, forse è destinato più che altro… ma immagino che possano leggerlo pure gli uomini. Parla di un pugile che… Meglio se sto zitta».

    Avrei preferito che Ryan avesse smesso di sorridere dopo quello che avevo detto.

    «Lotta per amare». Fece una specie di inchino. «Appena metto da parte qualcosa me lo compro».

    Alzai un dito. «Aspetta un secondo». Stavolta non chiusi la porta. Dài, dillo. Oh per la miseria, chi fa una cosa del genere? Te lo dico io: io. Io lo faccio. L’ho fatto.

    Corsi in soggiorno, presi una copia dalla pila di brossurati che avevo e tornai subito indietro, per trovare Ryan nell’atrio, la porta chiusa alle sue spalle.

    Non l’avevo sentita chiudersi. E mi sa che fu in quell’istante che avvertii per la prima volta una sensazione bruciante sotto la pelle: uno strato sottile, simile a una reazione allergica, a una spezia, a un veleno.

    «Oh», feci.

    Lui alzò le braccia in aria.

    «Volevo solo evitare che entrasse freddo. Pensavo che se avessi trovato la porta chiusa potessi pensare che me n’ero andato. Scusami, non avrei dovuto entrare così». Aprì la porta e tornò sulla soglia.

    Lo seguii per dargli il libro. Fuori non faceva freddo. Ryan non aveva motivo di entrare in casa, e neanche di chiudere la porta.

    «Prendo il portacellulare», dissi sbrigativamente e gli porsi il libro. «E tu puoi prendere questo».

    «Uno scambio?»

    «No, il coso lo pago».

    Ryan tossì coprendosi la bocca e alzò lo sguardo per fissarmi negli occhi. «Senti, mi dispiace se sono entrato. Non mi sono ancora riabituato alla vita fuori. Sono stato inopportuno. Mi dispiace».

    Abbassò lo sguardo. Mi addolcii.

    «Non importa», risposi. «Ma insisto per pagare. Il libro è… è un regalo. Insomma, non sei obbligato a prenderlo. Cavolo, mi giudicherai una presuntuosa. Probabilmente non avrai neanche voglia di…».

    «Se l’hai scritto tu lo leggo volentieri. Me lo autografi? La penna ce l’ho». Infilò una mano nella tasca interiore del parka trasandato e tirò fuori una stilografica argentata. «Mi farebbe piacere se mi facessi una dedica. Puoi scrivere A Ryan

    «Certo».

    La penna era come lui: fuori luogo. Magari l’aveva rubata. Ma non mi importava. Non avevo mai incontrato un uomo così.

    «Anzi», aggiunse, proprio quando stavo per scrivere il suo nome. «Potresti scrivere: Al mio amato Ryan. Siamo fatti l’uno per l’altra. Con amore, Pippa

    «Cosa?».

    Lui fece una rauca risatina sommessa. «Lo so che suona strano, ma è per prendere per il culo gli altri al dormitorio. Per favore. Su, per fargliele

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