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La verità sul caso Ashlyn Bryant
La verità sul caso Ashlyn Bryant
La verità sul caso Ashlyn Bryant
E-book484 pagine6 ore

La verità sul caso Ashlyn Bryant

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Info su questo ebook

«Ti strega... Da leggere assolutamente.» Mary Kubica

La giornalista Mercer Hennessey ha messo tra parentesi una carriera promettente per fare la mamma a tempo pieno. Nulla avrebbe potuto prepararla alla tragedia imminente: un incidente d’auto le ha portato via il marito e la figlia, distruggendo la sua vita. Il dolore l’ha condannata alla solitudine e l’ha intrappolata nei ricordi che le fanno rivivere costantemente la disgrazia. Ma l’editore di Mercer, Katherine Craft, vuole che torni al lavoro e cerca con insistenza di convincerla a impegnarsi in un nuovo caso. Mercer ha risposto sempre no, ma la storia di Ashlyn Bryant è diversa da tutte le altre. La donna è accusata di avere ucciso la sua bambina. E così Mercer accetta di seguire il processo, con l’impegno di pubblicare un libro a due settimane dal verdetto: una storia in grado di diventare un bestseller. L’opinione pubblica è già schierata a favore di un giudizio di colpevolezza, e a Mercer non resta che iniziare la sua personale ricerca della verità. Ma può davvero fidarsi del proprio istinto?

Di ogni storia esistono tre versioni: la tua, la mia e quella vera

«Ipnotico! Hank Phillippi Ryan ha superato sé stessa in questo thriller indimenticabile.»
Lisa Gardner, autrice del bestseller Sangue cattivo

«La tensione aumenta in un crescendo man mano che l’autrice dà vita a una storia potentissima e inquietante. Da leggere.» 
Mary Kubica autrice del bestseller Una brava ragazza

«Scioccante.»
Booklist

«Questo libro riesce a ipnotizzare il lettore con una storia di improbabili alleanze e un letale gioco del gatto e del topo.»
The Guardian

Hank Phillippi Ryan
è una giornalista investigativa che ha ricevuto numerosi riconoscimenti sia come giornalista che come autrice di romanzi. Il «Library Journal» ha selezionato i suoi libri per tre anni consecutivi come i migliori dell’anno.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ott 2019
ISBN9788822738073
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    Anteprima del libro

    La verità sul caso Ashlyn Bryant - Hank Phillippi Ryan

    PARTE PRIMA

    Scrivo sullo specchio del bagno con un dito, tracciando linee nella condensa lasciata dal vapore della doccia. Oggi è il giorno numero 442.

    Quattrocentoquarantadue giorni dall’incidente d’auto che ha distrutto la mia famiglia. Lo schianto che mi ha portato via Dex e Sophie. I numeri si dissolvono nel momento stesso in cui li scrivo. Si sciolgono, scorrono come lacrime e poi scompaiono.

    Darei qualsiasi cosa. Qualsiasi. Farei qualsiasi cosa. La mancanza esplode all’improvviso, non voluta, e mi colpisce duramente mentre osservo il mio riflesso. Ci facciamo questo tipo di promesse ogni giorno, per riempire i nostri vuoti personali. Se farai accadere questo, prometto che smetterò di bere. O di guidare veloce. O chissà che altro. Se mi darai quello che ti chiedo, sarò una figlia migliore. Un marito più affidabile. Una moglie più devota.

    Fa’ che il mio desiderio si avveri e farò… qualsiasi cosa.

    Contrattiamo. Negoziamo. Stipuliamo accordi con l’universo. Ed è certo, è inevitabile che alla fine otterremo ciò che vogliamo.

    Ma poi l’universo si mette a ridere. E noi rimaniamo a contrattare con noi stessi.

    Capitolo 1

    Chi l’ha vista?. Ovviamente avevo notato quei manifesti, gli annunci, gli identikit a colori diffusi su ogni giornale e in televisione – come tutti, del resto, a Boston, o sul pianeta Terra. «Quella povera bambina, così piccola», dicevano tutti. «Chi è? Qualcuno deve sentire la sua mancanza». E coloro che avevano la fortuna di avere ancora le proprie figlie le tenevano più vicino, sussurrando raccomandazioni o appoggiando una mano protettiva sul carrello, mentre erano a fare la spesa.

    «Mercer, te ne puoi occupare?». La voce di Katherine, al telefono, è carica di preoccupazione. «Hai bisogno di tornare al lavoro».

    Me ne ero rimasta in silenzio a pensare alla Bambina di Boston più a lungo del dovuto.

    «Tutto bene?», continuò.

    «Sì, è tutto a posto». Dunque, Kath vuole che scriva nel dettaglio la storia di questo crimine efferato. Mi lascio andare sulla sedia, nel mio studio. Posso occuparmene? A essere sincera, non ne sono sicura.

    «Il librò diventerà un best-seller all’istante, bimba. E tornerai in sella», insiste Katherine, cercando di persuadermi. «Bambina uccisa e gettata nelle acque del porto di Boston? E la madre è accusata dell’omicidio? Scusami, sono imperdonabile. So perfettamente che il preavviso è davvero poco. Ma sei l’unica scrittrice che può rendere giustizia a questo caso. Posso dirgli di sì?».

    Fortunatamente non può vedere l’espressione sul mio volto. Il fatto che il tragico omicidio di una bambina fosse la cosa migliore che la vita mi avesse offerto negli ultimi tempi, probabilmente non era ben accetto dalla società. Da quando le persone avevano finalmente cominciato a lasciarmi in pace, la mia socialità era ormai fuori esercizio. La mia vecchia editor non si faceva viva da mesi. Almeno da quando avevo smesso di richiamarla. E adesso questo. Un’offerta di lavoro.

    Tutto quello che avrei dovuto fare, a cominciare dal giorno dopo, mi spiegò Katherine Craft, era seguire le testimonianze attraverso le stesse fonti video da cui attingevano le emittenti televisive, e poi scrivere un instant book sul processo per l’omicidio della Bambina di Boston. «Ovviamente puoi guardarlo in televisione», disse. «Ma c’è sempre la possibilità che un produttore idiota decida di fare dei tagli, perché ritiene noioso il programma, o perché nel frattempo è uscita una notizia più succulenta. Non possiamo fidarci delle loro scelte su cosa mandare in onda. Per questo è necessario che tu veda i video completi. Ho provato a riservare un posto in aula per te, ma era troppo tardi».

    Meglio così, ma non l’ho detto. Affrontare tutte quelle persone? Kath mi offre quindicimila dollari di anticipo, e altri quindicimila dopo il verdetto del pubblico, quando il libro sarà sul mercato. E royalties sostanziose. Ho davvero bisogno di quei soldi.

    «A meno che non venga dichiarata innocente», continua Katherine, con un tono eccessivamente sbrigativo. «Ma non credo proprio che accadrà. E quando Ashlyn Bryant entrerà in carcere tu sarai già diventata Mercer Hennessey, l’autrice di best-seller. Te lo prometto».

    Non male. Ma soprattutto, anche se non lo avrei mai ammesso con Kath, il libro mi avrebbe dato una buona ragione per alzarmi al mattino.

    «Non è mai la madre, vero?». Continua a farmi pressione e sottintende che sa qualcosa in più. «Il fidanzato, forse. O il padre. Ma la madre? Pura follia».

    Perfetto. Non è mai colpa della madre. Tranne quando lo è davvero.

    E, in questo caso, lo è. E sì, è pura follia. Kath è nel suo ufficio presso Back Bay; io sono nel mio piccolo studio di periferia, ma posso immaginare l’espressione della mia vecchia editor. Lo stesso volto perplesso che vedo nei talk show televisivi e quando faccio la fila al caffè. La gente si chiede: che razza di mostro è capace di uccidere la propria figlia di due anni?

    «È…». Cerco una parola che sia abbastanza raccapricciante. La madre è sicuramente colpevole questa volta. Ho già divorato ogni articolo di quotidiano e rivista, e ascoltato ogni telegiornale e ogni servizio che rivelasse i più disgustosi e terribili dettagli sulla bambina scomparsa e poi ritrovata, perfino i servizi online delle emittenti locali dell’Ohio. All’inizio non riuscivo a smettere di piangere per quella povera bambina morta. E le lacrime sono aumentate perché condividevo l’angoscia della madre. È facile riempire la mente con il dolore di qualcun altro, sperando che sostituisca il mio. Non ci sono riuscita del tutto, ma molto meglio questo che il vuoto.

    Quando Tasha Nicole è stata finalmente identificata, ho davvero pensato di chiamare Ashlyn, con la ridicola idea di poterle offrire conforto, condividendo un sentimento materno con lei, perché entrambe siamo afflitte dalla perdita delle nostre amate piccole figlie. Ma ora mi si rivolta lo stomaco a pensarci. Come mi ha ingannato. E come ha ingannato tutti. Dopo la notizia dell’arresto, sarei stata capace di ucciderla con le mie mani.

    E nessun tribunale mi avrebbe condannato.

    «Merce, sei ancora lì?». La voce di Kath si è alzata di tono, come se lavorassimo ancora insieme, come se parlassimo ancora ogni giorno. «Accetta, tesoro. Dimmi di sì. È passato anche troppo tempo. Devi tornare al lavoro. Devi fare qualcosa».

    Fare qualcosa? Fare? Le ho quasi urlato contro. Ma le sue intenzioni sono buone, mi è rimasta accanto nei giorni in cui il sole si è spento e le ombre si sono chiuse sopra di me. Kath capisce la situazione, come del resto chiunque altro. Non è giusto che io sfoghi il mio dolore su di lei. Ha ragione? C’è davvero qualcosa che posso fare?

    Forse… per Sophie? E per Dex. Forse per venire a patti con tutto quello che è successo. Per accettare che sono io quella che è rimasta viva. Non sto cercando di ingannare me stessa; non posso riuscirci davvero. Ma in questo momento sento la voce di Dex che mi spinge a farlo. A usare le mie parole per riparare un torto enorme. A lottare per la giustizia, come ha sempre fatto lui. E poi, mi sussurra, in questo modo potresti almeno onorare la memoria di Sophie.

    Sì, Dex ha ragione. Lo farò. Per vendicare la Bambina di Boston. E dedicherò in segreto questo libro a Sophie. A ogni bambina strappata brutalmente al mondo. Più ci penso e più sento che devo farlo. Desidero farlo. Fisicamente, mentalmente ed emotivamente.

    E poi, scrivere un libro è la migliore tra le opzioni che avevo contemplato in precedenza.

    «Forse brucerò la casa». L’ho pronunciato davvero a voce alta solo pochi giorni prima della chiamata di Kath. Anche se non c’era nessuno ad ascoltarmi.

    E ho anche immaginato le fiamme. Gli arredi della cameretta, i boccioli di rosa e i delicati volant anneriti dalle fiamme. L’abito elegante che indossava Dex in aula, il pigiama a margherite di Sophie, i suoi animaletti di pezza, le foto del matrimonio e gli spazzolini da denti e… ci sono così tanti nostri oggetti. Come mi sarei sentita, mentre i pompieri di Linsdale tentavano di spegnere le fiamme infernali e placare il fumo soffocante, cercando – senza riuscirci – di salvare qualche traccia dell’esistenza della famiglia Hennessey? Non sarei sopravvissuta e non l’avrei mai scoperto.

    Era quello il punto.

    «Merce?», mi sprona Katherine.

    Inserendo il vivavoce, mi alzo dalla sedia e riallaccio le stringhe dei pantaloni della tuta, stringendole più forte. I pantaloni, neri e morbidi, sono grottescamente troppo grandi per me, taglia xl. Non sono miei, ma di Dex. Non gli servono più. Non importa quanti giorni siano passati, non riuscirò mai ad abituarmi.

    «Be’, forse». Faccio due passi verso la libreria e poi torno alla scrivania. Cercando di capire se sono io la pazza.

    «Forza, Merce. La giuria è stata scelta e tutta la parte noiosa è terminata. Trasmetteranno tutto. Devi solo tirare fuori i dettagli sulla madre pazza». La voce di Katherine mi segue, assumendo nuovamente il tono e la velocità da redattrice indaffarata che ha sempre usato con me e con tutti i suoi dipendenti, quando lavoravamo per la rivista «City». Quest’anno ha cominciato a occuparsi di acquisti per la Arbor Inc., una grossa società che possiede «City» e un mucchio di altre pubblicazioni, compresa una casa editrice specializzata in gialli.

    «Lo so, pensi che si tratti soltanto di un altro corpo nel porto di Boston», continua. «Ma questa storia è differente. Non si tratta di un informatore punito da una gang o di una povera adolescente eroinomane seviziata, non è una guerra tra bande criminali. L’assassina è la bellissima mamma della porta accanto. Ashlyn. Perfino il suo nome è perfetto. Non puoi accendere la tv senza vedere il filmato di Ashlyn che viene portata in carcere, stizzosa e imbronciata. Devi portare alla luce, ma non c’è bisogno che te lo dica, il tormento segreto di quella che all’apparenza è solo una tipica famiglia di periferia. Deve essere molto realistico».

    Realistico. Sono una scrittrice. So raccontare storie. Prendo i fatti e li trasformo in qualcosa che abbia fascino. E questa storia non ha bisogno di molto altro, francamente.

    «Come in A sangue freddo», continua Katherine, come se avessi già detto sì. «Un saggio narrativo. Un reportage. Truman Capote si è semplicemente immaginato metà del libro, come i dialoghi, per esempio. Come avrebbe potuto scriverlo, altrimenti? Ma puoi farlo, Merce, so che ce la puoi fare».

    «Ok… va bene», dico. «Affare fatto». Pensa di avermi convinto. Glielo lascio credere.

    «Fantastico. Ti spedisco tutti i documenti per posta elettronica. Non c’è nessuno migliore di te per questo lavoro. Farai una strage», dice Katherine. «Oh, scusami, tesoro. Ma sai quello che voglio dire. Tutto a posto?»

    «Certo». Non immagina come stanno le cose. «Sentiamoci presto».

    Chiudo la chiamata, guardo fuori dalla finestra del mio studio, il nostro – anzi, il mio – lastricato davanti a casa, e il nostro – anzi, il mio – quartiere tranquillo, ancora placidamente verde nella mattina di settembre, come se nulla fosse cambiato. Come se la mia Sophie fosse ancora viva, e anche Dex. Curioso quanta forza possa darti avere un obiettivo.

    «Che tu possa marcire all’inferno, Ashlyn Bryant», dico. E poi: «Questo è per voi, miei adorati».

    Ma, ovviamente, non sono qui per ringraziarmi.

    Capitolo 2

    «È lei Mercer Hennessey?». Un ragazzo con una giacca a vento blu consulta una cartellina mentre apro la porta. «Ho qui il materiale video del tribunale, signora. Dove vuole che lo scarichi?».

    Katherine doveva essere piuttosto sicura che avrei detto sì. Alle 7:15 del mattino di lunedì, con la tazza di caffè in mano avevo già firmato per otto scatoloni di materiale video, cercando di non intralciare una squadra di ragazzi in maglia di flanella che depositavano tutto nel mio studio. Dalle scatole hanno tirato fuori uno schermo argentato, un mouse argentato, due altoparlanti in alluminio e due router video; srotolato cavi arancioni, cavi elettrici bianchi, e collegato tutto. Questo è lo stesso modo in cui le emittenti televisive ricevono le trasmissioni direttamente dal tribunale. Ora il mio studio è un nido di serpenti colorati e prese multiple. Ho un posto in prima fila al processo per la Bambina di Boston.

    «C’è un modo per registrare il processo, con tutto questo equipaggiamento, e non guardarlo solamente?», chiedo a uno dei tecnici.

    «Certo, un modo c’è», dice, mentre scrive un messaggio a qualcuno. «Ma non le è permesso».

    Bene, lo registrerò con il mio iPad. Un metodo rudimentale, ma il tablet andrà benissimo per controllare le citazioni o per rivedere qualche passaggio. Il processo comincia tra novanta minuti.

    Dopo che i ragazzi se ne sono andati, raccolgo il cellophane protettivo e il polistirolo che hanno lasciato in giro e trascino tutto prima in sala da pranzo e poi nel seminterrato. Mi hanno consigliato di non gettare le scatole e gli imballaggi, per quando il processo sarà terminato.

    «Perché non si sono ripresi tutto?», mormoro mentre spingo il materiale giù per le scale buie e polverose. «Non posso credere di dover scendere laggiù».

    Il seminterrato è il cimitero della mia vita precedente. Quando non posso più sopportare di guardare qualcosa, ma non ho il coraggio di gettarla via, è là che la porto. La prima culla di Sophie, quella di vimini bianca, la stessa che aveva usato Dex. Sua madre ce la regalò con le lacrime agli occhi. La accettammo con entusiasmo, tenendo Sophie in braccio. Quando lei se ne andò, Dex portò la trappola mortale, pericolosissima in caso di incendio, chiosando che è compito di un padre proteggere la famiglia. Il regalo di mia madre fu un servizio di porcellane cinesi con il bordino dorato, appartenute alla nonna. C’è l’album del nostro matrimonio, laggiù, il giorno più bello della mia vita, mi disse una zia, sbagliando. Era un ottobre battuto dal vento a Nantucket, e stavamo tutti tremando, quando raggiungemmo la spiaggia di Sconset paralizzati dal freddo, e, gettate vie le coperte che fino a quel momento ci avevano protetto, posammo per una meravigliosa foto al chiaro di luna, dove, a piedi nudi e vestita di tulle bianco, ridevo tra le braccia di Dex. Non fu il giorno più bello, perché ogni giorno successivo fu ancora meglio, fino a quando non nacque Sophie, un altro giorno più bello.

    E poi tutto si fermò. Non ci furono più giorni belli.

    Getto le scatole in fondo alle scale e tiro la cordicella che spegne la luce nel seminterrato e anche su quella parte della mia vita. Risalgo le scale al buio, attraversando la sala da pranzo e la cucina.

    La Bambina di Boston.

    Non ho bisogno di un testo di psicologia di base per spiegare il transfert. Ma adesso Ashlyn Bryant non è più una distrazione emotiva, problematica o potenzialmente dannosa. È il mio lavoro.

    Infilo qualche fetta di pane nel tostapane, preparo il caffè, poi aspetto, perché il tostapane è lento, infine porto tutto alla mia scrivania. Ci sono. Sarò di nuovo me stessa.

    Nello studio come una volta, seduta alla scrivania. Muovo il mouse argentato e alzo il volume. Il monitor rimane opaco. Silenzioso. Vuoto.

    Come la mia vita? No. Ho di nuovo uno scopo. La piccola bambina il cui cadavere è stato trovato sulla spiaggia a Castle Island.

    La Bambina di Boston.

    E il processo per omicidio alla madre. Quella donna era rimasta chiusa in una cella per un anno, com’era giusto. E ci sarebbe rimasta ancora per molti anni, se le cose fossero andate per il verso giusto. Aveva ucciso sua figlia e, per almeno un mese, aveva mentito a tutti. Fingendo che Tasha fosse da un’altra parte. Secondo la polizia nessun altro, oltre a lei, aveva un movente, i mezzi e l’opportunità per farlo. Sono fortunata come scrittrice, perché l’avvocato difensore di Ashlyn Bryant è una vecchia collega di Dex. Fortunata. Proprio così. Dex è stato ucciso. E io ho una fonte di informazioni.

    Ma, al di là degli scherzi, il caso che si sta aprendo sembra più che coperto, in modo perfino eccessivo, dai giornali, dalla radio, dalle televisioni e da Internet. Perfino gli sconosciuti in ascensore, immagino, fraternizzano sulla base dell’odio nei confronti di Ashlyn Bryant. Quando quel mostro andrà in prigione per il resto dei suoi giorni, metterò finalmente la parola fine su questa tragedia di periferia.

    «Colpevole!», dico, sottolineando la parola con un dito. Ma non c’è nessuno ad ascoltarmi.

    processo della bambina di boston – primo giorno, scrivo all’inizio di un file, nel mio laptop.

    Nei notiziari non la chiamano più così, da quando gli stessi poliziotti che le hanno dato quel nome hanno stabilito che si chiamava Tasha Nicole Bryant.

    Due mesi dopo hanno arrestato la madre di Tasha. Kath ha ragione, ho guardato incessantemente quel breve filmato da giustizia medievale. La ex bellissima Ashlyn Bryant in manette, che piange, con la maglietta nera spiegazzata e sporca. Umiliata. Giudicata. Sconfitta. Portata via per scontare la pena per aver ucciso sua figlia. Quante volte mi ero chiesta, seduta da sola, come si sentisse?

    Ashlyn Bryant. La donna più odiata del Massachusetts. Dell’intero Paese, probabilmente.

    Immaginando lo sciame di reporter e fotografi con un solo pensiero in testa che sarebbe calato su Boston, il giudice Franklin Weems Green ha imposto che le quattro telecamere del tribunale – compresa quella indicata come «Ashlyn-cam», fissa sul volto dell’accusata – non potessero muoversi. Ognuna di esse mostra solamente una piccola porzione dell’aula 306 della Corte superiore di Suffolk. Nessun volto dei giurati. E nessuna istantanea degli spettatori.

    Tutti si sarebbero fatti la stessa domanda che mi facevo anche io.

    Perché lo ha fatto?

    Sophie ripeteva quella parola all’infinito. Perché? Non proprio all’infinito, ovviamente. Ma sembrava davvero così, in quei momenti. Perché?

    Pensavamo che fosse così dolce, così divertente e intelligente, nonostante avesse soltanto tre anni. I suoi riccioli fulvi e i suoi profondi occhi marroni. Quelle ciglia. Io e Dex eravamo soliti sussurrarci l’uno all’altra la parola Perché? prima di dormire, una sorta di rituale matrimoniale. Ridevamo per la nostra fortuna, per la nostra gioia e per il nostro futuro. Quattro anni fa, soprattutto per Sophie, scovammo uno stravagante ranch a un piano, a Linsdale, e decidemmo con serenità di trasferirci in periferia. Voltai le spalle con gioia alla mia carriera. Lasciai un ottimo lavoro come scrittrice per la rivista «City»per diventare una moglie a tempo pieno, una mamma a tempo pieno. Per avere una famiglia a tempo pieno.

    Non avevo idea che quel tempo pieno sarebbe stato così breve.

    Fisso lo schermo ancora nero. Tutto ha una fine. Ma sono sempre il come e il quando che ci colgono di sorpresa.

    «Un minuto da adesso». La voce senza corpo proveniente dagli altoparlanti metallici sulla mia scrivania, riporta la mia mente alla realtà.

    «Sono pronta», rispondo, come se la voce potesse udirmi. Ho rimosso dalla scrivania tutti gli scarabocchi di Sophie incorniciati e tutte le foto di Dex, perfino quelle che sua madre scattò alla cerimonia della sua laurea in legge. Ho tolto anche il frammento di torba che Dex si era portato a casa dalla Scozia, e la candela profumata al pompelmo che mi aveva comprato da Harrods. Lascio solo un ricordo, un ciottolo levigato delle dimensioni di un pugno, una forma tondeggiante resa liscia dal mar Egeo.

    Ricaccio indietro le lacrime. Non riceverò più regali da lui.

    «Trenta secondi», annuncia la voce. Mi immagino un assistente alla regia con maglia di lana, occhiali, forse di tartaruga, e capelli ribelli, seduto davanti a una console tremolante dentro lo studio per le trasmissioni mobili, un furgone bianco senza insegne parcheggiato nell’area dietro al tribunale.

    È davvero un furgone bianco? E il banco di regia è davvero tremolante? Seduta alla mia scrivania, inizio a immaginare la vecchia aula in granito e pietra, la battaglia costante per il parcheggio sull’asfalto sbriciolato, dall’odore acre e appiccicoso, nel settembre ridicolmente insopportabile di Boston. I reporter, con le loro borse, i cellulari e i blocchi a spirale. Ho visto queste cose tante volte, che differenza potrebbe esserci ora?

    Ma forse il furgone è blu. Forse tutto è diverso. O, almeno, lo è per me.

    «Attenzione, stazioni», dice la voce. «Tenetevi pronti. Stiamo per ascoltare la dichiarazione di apertura del procuratore distrettuale Royal Spofford».

    Capitolo 3

    «Hanno trovato i resti decomposti di quella bella bambina in un sacco dell’immondizia», ha detto il procuratore distrettuale alla giuria. Le foto a colori della scena del crimine – grottesche e crude – brillavano sullo schermo del proiettore dell’aula.

    Chiudo gli occhi di fronte a quelle immagini, e ascolto il procuratore. Fino a quando non ne posso più. Adesso, appoggiando una mano alla porcellana del water, ancora con gli occhi chiusi, scanso una ciocca di capelli bagnati dalla mia faccia. Non riesco a respirare. A pensare. A vedere.

    La mia immaginazione mi tiene in ostaggio.

    Le immagini che il procuratore ha mostrato erano reali come se io stessa mi fossi trovata su quella spiaggia di Castle Island. Come se avessi visto le spire soffocanti delle alghe attorcigliate attorno a quelle piccole gambe rosee. Come se fossi stata lì, quando il labrador nero l’ha individuata. Gonfia. Assassinata. Morta. Dentro un sacco dell’immondizia.

    Il mio stomaco si rivolta di nuovo, al ricordo. Quella donna, che si libera del corpo della figlia. Sua figlia! Una bambina non è qualcosa da gettare via.

    Le ginocchia mi fanno male, anche se il tappetino del bagno è spesso e morbido. Sto bene adesso. Sto bene. Con un ultimo, laborioso respiro, mi rialzo.

    In piedi, quasi disorientata, la mia vista si offusca e la schiena mi fa male. Sento che il cuore è in affanno, i pensieri non riescono a mettersi a fuoco. Ho un sapore disgustoso in bocca.

    Royal Spofford ha assicurato alla giuria, e a tutti quelli che stanno seguendo il processo nei bar, negli uffici e nei soggiorni, che dimostrerà che soltanto una persona è responsabile per quel povero piccolo corpo.

    «Solo Ashlyn», ha detto il procuratore, «aveva il movente, l’opportunità e il potere di togliere la vita a quel piccolo angelo chiamato Tasha Nicole. Ascolterete come Ashlyn Bryant abbia deciso che la figlia a cui ha dato la vita fosse una minaccia per la sua vita notturna. Ascolterete come Ashlyn Bryant, con malvagia premeditazione, abbia spento la vita di quella bambina innocente con il cloroformio e con il nastro adesivo telato. E di come poi, pensando soltanto a se stessa, abbia tentato di coprire il suo inimmaginabile crimine».

    «Solo Ashlyn». Ne stava facendo un mantra, mentre scuoteva la testa. «Solo Ashlyn».

    Mi asciugo le lacrime dagli occhi, richiudo il water e tiro lo sciacquone, con il corpo umido e appiccicoso, la maglietta attaccata alla pelle della schiena. Immagino la mia dolce Sophie, tutti noi, su quella spiaggia. Il vento nei suoi riccioli, e il sole che inonda il porto. Io e Dex, mano nella mano, la convinzione che saremmo vissuti per sempre.

    «Ti amo ogni giorno», sussurro. «Mi dispiace così tanto».

    L’unica cosa che potrebbe rendere tutto più sopportabile – e mi scuso mentalmente con l’altrimenti stimata Quinn McMorran – sono le stronzate che sto per ascoltare dall’amica di Dex, l’avvocato difensore. Il mio tablet ha filmato la sua dichiarazione iniziale, mentre correvo al bagno.

    Non vedo l’ora di ascoltare quella montagna di fatti alternativi. Il mio caro Dex disapproverebbe il mio disprezzo, ma mi chiedo ancora come possa fare Quinn McMorran a difendere una simile feccia. Dovrei parlarle al telefono «possibilmente mercoledì». Mi ha chiarito che lo sta facendo solo come «favore» in nome del rispetto per Dex. Le ho strappato dieci minuti. Può andare bene.

    Mi tolgo la maglietta e ne infilo una pulita, mi faccio del tè, torno a sedermi alla scrivania. È tardi, sono passate le quattro e il processo è in pausa fino a domani. Sto bene. Davvero.

    «Sentiamo quello che hai da dire, Quinn», dico allo schermo. «Spero che la giuria rida a ogni tua parola».

    Tocco per scaramanzia la pesante pietra dell’Egeo, quella di Dex, faccio un respiro e premo play.

    Nel video Quinn McMorran, in abito blu, è in piedi. Tra i suoi capelli ramati, tagliati corti, il tocco di grigio è come un simbolo della sua esperienza nel campo di battaglia legale, un’esperienza maturata caso per caso, tanto quanto il procuratore. Appoggia una mano sulla spalla di Ashlyn Bryant. Ashlyn ha circa la metà dei suoi anni, ventiquattro. I giornali dicono che sono come «madre e figlia». Ma Ashlyn la guarda come una vittima guarda il suo salvatore.

    «Dacci un taglio», dico. Sono inchiodata allo schermo.

    «Sarò breve», promette l’avvocato difensore alla giuria. «Non c’è bisogno di ricordare che, in base alla nostra Costituzione, una persona è innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia dimostrata. Il nostro sistema legale affida al procuratore il compito di provare – oltre ogni ragionevole dubbio – che l’accusato è colpevole. Questo significa che ogni elemento a sostegno del crimine deve essere verificato oltre ogni ragionevole dubbio. Sarà necessario dimostrare che l’accusata ha ucciso la vittima senza una giustificazione e che si tratta di un atto premeditato. Che voleva farlo. Con premeditazione. Con atrocità e crudeltà. E, alla fine, si dovrà dimostrare come e quando Tasha Nicole sia stata uccisa. E in che modo solo Ashlyn possa averlo fatto».

    Quinn si lascia sfuggire un sospiro. L’aula è talmente immobile che posso sentirlo. Solleva il mento e poi indica Ashlyn, «Seduta qui, davanti a voi, la mia cliente Ashlyn Bryant è innocente. E né io né lei dobbiamo provarlo. È un fatto certo».

    Quinn McMorran prosegue con la difesa per altri diciassette minuti. Nessun testimone, nessuna impronta digitale, nessuna traccia di dna, nessun campione di capelli, nessuna registrazione di telecamere di sorveglianza. Nessuna prova lega Ashlyn Bryant alla morte della sua amata figlia. Sembra che il regista abbia qualche problema a seguire i suoi movimenti affidandosi alle videocamere dell’aula, per cui vedo prima la sua schiena e poi la sua faccia, fuori fuoco per qualche istante.

    Alla fine, si rivolge direttamente alla giuria: «Durante la prossima settimana e oltre, i miei stimati colleghi proveranno a impressionarvi con ricerche informatiche, parole minacciose e qualche controversia familiare. Ma tutte le volte dovrete chiedervi: E quindi? Che cosa prova tutto questo?».

    «Cosa prova un cavolo», dico a voce alta. Spengo il video e continuo a parlare allo schermo nero. «Prova che quel mostro è colpevole fino al midollo».

    Capitolo 4

    Non che io non possa lasciare la casa. Lo faccio quando ne ho bisogno. Guido, perfino. Ma quando lo faccio non posso evitare di vedere il vialetto di ingresso e la nostra strada, e quell’albero. Quattrocentoquarantatré giorni fa hanno portato via la macchina accartocciata. E anche la mia famiglia. Quando sono in pubblico non posso evitare le persone che mi chiedono se sto bene. Non sto bene. Come potrei stare bene?

    Ma adesso, da sola alla mia scrivania e pronta a scrivere, posso concentrarmi su un’altra bambina. Grazie ai servizi continui, ho a disposizione una miniera d’oro di materiale. Interviste, fotografie. Video di notiziari nazionali e locali. Katherine mi ha fatto avere una pila di documenti rivelatori, inclusi i rapporti della polizia di Dayton e i dettagli investigativi che le hanno fornito le sue fonti, per cui divorerò anche questi. Di solito controllo i fatti due volte, se posso. Li rende veri, autentici.

    Invece di utilizzare i discorsi di apertura del processo, inizierò il libro con le informazioni sui genitori di Ashlyn. Le loro opinioni sulla scomparsa della nipotina. Dopo uno o due capitoli dedicati alla costruzione del personaggio, mi concentrerò sul primo giorno del processo.

    È insidioso.

    L’ordine cronologico del libro, dall’inizio alla fine, non seguirà linearmente lo svolgersi del processo, che continuerà con l’ascolto dei testimoni. Due storie si svilupperanno in contemporanea. La mia e quella di Ashlyn.

    Due settimane dopo il verdetto Ashlyn verrà condannata. Quando il giudice la spedirà all’ergastolo, l’editore vuole che il libro sia pronto. Questo significa che le due settimane che passeranno tra il verdetto e la sentenza saranno una maratona di scrittura. E, ovviamente, dovrò inserire il finale

    Finale? Ha ucciso sua figlia! La mia mente urla. Mentre tu seppellivi la tua famiglia.

    Mi aveva quasi confuso, se mai avessi potuto essere più confusa, quattordici mesi fa, la notizia che era stato trovato il corpo di una bambina sulla spiaggia. Un bellissimo giorno di giugno, soleggiato e sadicamente meraviglioso. Ero appena uscita dalla cerimonia funebre per Dex e Sophie. Con tutto quello che era successo, la madre di Dex aveva comunque cercato di tenermi all’oscuro di quella storia, ma non c’era riuscita. Qualcuno al cimitero, non ricordo chi, mi parlò della Bambina di Boston. Ovviamente nessuno sapeva ancora chi fosse.

    Ma Ashlyn lo sapeva.

    Osservo lo schermo del mio laptop quasi vuoto. Cancello, lettera per lettera, la scritta «primo giorno». La sostituisco con qualcosa di diverso, con il titolo che mi era venuto in mente.

    la bambina smarrita

    Dov’era la loro Tasha Nicole?

    Battuta dal sole e asciutta come solo l’Ohio dell’ovest può essere, Dayton era così calda da togliere il fiato, in quel giorno d’estate. Dentro al loro modesto appartamento sulla Laughtry Drive, un condominio beige di due piani inserito in una periferia cementificata, i nonni della bambina, Tom e Georgia Bryant, stavano raccontando una storia che non aveva senso.

    Georgia – rossetto pallido, un velo di ombretto marrone, con indosso un top senza maniche punteggiato di piccole perle rosa – era una casalinga a tempo pieno. Sollecita e disponibile in maniera perfino insistente. Sembrava troppo giovane per essere una nonna. Tom, un perito assicurativo in pensione, ingrigito, sedeva in silenzio dietro di lei, su un rigido divano damascato, pantaloncini e polo, un bicchiere di tè coperto di condensa.

    Le parole di Georgia uscivano fuori come se non potesse trattenersi dal rivelare, più in fretta possibile, le informazioni misteriose sulla figlia, Ashlyn. Ashlyn Louise, la loro unica figlia. «Comincerò dall’inizio», disse al reporter.

    Fin da quando Ashlyn aveva dato alla luce Tasha Nicole, due anni prima, in agosto, all’Edgewater Hospital, la bambina, con la sua gioia, aveva riempito la vita dei nonni. Ashlyn e la figlia avevano lasciato la casa paterna soltanto l’anno seguente, dopo che Ashlyn aveva insistito di «essere troppo cresciuta per vivere con i genitori».

    «A ventidue anni? Devo ammettere che non aveva tutti i torti», disse Georgia. «Ma Tashie aveva bisogno di noi. Ho insistito per vederla. Ogni giorno».

    E, per la loro gioia, tutte le mattine alle 8:45, Ashlyn lasciava la figlia ai nonni. Tom la prendeva in braccio quando arrivava e lei gongolava deliziata. L’affettuosa coppia leggeva a Tasha Nicole libri illustrati. Ridevano mentre imparava a contare. Una bambina cara e adorabile. Non si stancavano mai di lei.

    Ma una mattina, Tasha e Ashlyn non si erano presentate. Ashlyn chiamò per giustificarsi. E fu così per i successivi sette giorni.

    «Continuavo a chiedere ad Ashlyn, dov’è la nostra Tashie?». Gli occhi preoccupati di Georgia si riempirono di lacrime mentre pronunciava queste parole. «Non è forse vero, caro?».

    Tom annuì, in silenzio.

    «Ashlyn aveva sempre una risposta», continuò Georgia. «Era al nido. Stava giocando. Una volta Ash disse che voleva che Tashie familiarizzasse con il suo nuovo fidanzato. Te lo ricordi, caro? Con quel tono di scherno che usava sempre, Non vi preoccupate, disse».

    Ma Georgia si preoccupò. I giorni passarono. Una settimana. Due. Ashlyn non rispondeva al telefono. «Tasha vi vuole bene», scrisse una volta Ashlyn in un messaggio. «Ci vediamo presto». Passarono tre settimane.

    Georgia guidava fino all’appartamento di Ashlyn a tutte le ore del giorno e della notte. La chiamava. Ma non c’era nessuno. Proprio così, nessuno veniva ad aprire. Nessuno rispondeva al telefono.

    Dove erano?

    Tom sorseggiava il suo tè. Allontanò con un piede uno dei loro spaniel più insistenti. Dopo dieci anni, passati nel ramo assicurativo in Minnesota, sapeva molte cose sui problemi familiari. E quello aveva tutti i segnali di un disastro. Ma lasciò che la moglie parlasse.

    Sì, ammise, lei e Ashlyn non erano andate sempre d’accordo. Ash era testarda. Manipolatrice. Esigente. Ambiziosa. Sì, Georgia ammetteva di essere stata troppo permissiva con la loro unica figlia. Ma Ashlyn voleva sentirsi «libera» da quella famiglia di «perdenti». Aveva lasciato l’università ed era sempre alla ricerca di un nuovo lavoro, di una nuova vita, di un uomo più ricco.

    Georgia prese una piccola foto contenuta in una cornice d’argento. Ashlyn Louise Bryant. Magra, occhi nocciola, rossetto lucido sulle labbra strette in una smorfia e una felpa con generoso scollo a V. Adesso lavorava part-time in qualche posto. Non era mai chiaro dove. Ashlyn non parlava mai del padre di Tasha. Aveva ancora una stanza per lei, comunque, nella casa dove era cresciuta. E anche Tasha ne aveva una.

    «Ashlyn ama Tasha Nicole, so che è così», continua la voce di Georgia. «E Tasha ama lei».

    Georgia aprì un album in pelle con la rilegatura rosa, con la scritta «Tasha Nicole» in rilievo sulla copertina. Si fermò su una pagina con una foto recente, dove la loro nipotina, con gli occhi spalancati, i capelli color miele, i dentini piccoli e con una tutina di Hello Kitty, sedeva su un’altalena, in un giardino, tenendo le catene con le mani paffute. In un’altra foto stringeva una matita viola, un libro da colorare con figure di animali, aperto di fronte a lei. Tasha era troppo piccola per rispettare i contorni.

    Ma adesso… Dov’era?

    «Dove era?», dico a voce alta mentre scrivo, poi mi sporgo in avanti sulla sedia, fisso le mie parole e leggo nuovamente la prima scena. Devo controllare la cronologia, ma mentalmente mi congratulo con me stessa. Non male per una prima stesura. E non sento più l’impulso di vomitare.

    «Ottimo lavoro, Mercer», dico. Ma non c’è nessuno a cui dirlo.

    Sono le due e dieci del mattino. La Corte ha sospeso la seduta ieri alle cinque, e da quel momento ho scritto senza fermarmi. Dovrei dormire, ma sono troppo carica.

    Farò una lista di domande, in modo da non dimenticare niente.

    Il padre di Tasha Nicole? È la prima, sul mio blocco note giallo. Chi è? Dov’è? Per quello che se ne sa, Ashlyn, che non si

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