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I segreti della villa di famiglia
I segreti della villa di famiglia
I segreti della villa di famiglia
E-book491 pagine6 ore

I segreti della villa di famiglia

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Info su questo ebook

Il suo cuore nasconde un’antica ferita

Elly Kramer, un tempo una famosa attrice, trascorre la vecchiaia nella villa di famiglia. Quando viene informata che la nipote, Alea, sta progettando di celebrare il novantesimo anniversario del cinema Odeon – fondato dal padre di Elly – con un libro commemorativo, la donna, elegante e riservata rappresentante di un’epoca sparita, decide inizialmente di tenersi in disparte. Alea, tuttavia, ha già chiesto aiuto a una giovane esperta per mettere insieme fotografie, lettere e testimonianze che ricostruiscano la straordinaria storia dell’Odeon. Ma Elly non vorrebbe scatenare i fantasmi che per tutta la vita ha cercato di tenere a bada, né riportare alla luce segreti, drammi e sensi di colpa taciuti per decenni. L’Odeon, infatti, è indissolubilmente legato a un rapporto profondo ed esclusivo che ha segnato tutta la sua esistenza: la grande amicizia con Tonja, sullo sfondo di una Germania in crisi che si apprestava a diventare nazista. Era il 1923 quando Tonja arrivò nella classe di Elizabeth. Ma nessuno, in quei giorni, poteva immaginare quale tragedia le avrebbe un giorno coinvolte…

Un'amicizia profonda.
Una tragedia inaspettata.
Un segreto nascosto per troppi anni.

«Un romanzo dalla scrittura delicata, da leggere tutto d’un fiato.»

«La storia di una straordinaria amicizia tra due donne: commovente, incantevole, indimenticabile.»

«Affascinante sin dalla prima riga. Una lettura da consigliare.»

«Presente e passato si alternano in una storia ricca di chiaroscuri. Entusiasmante.»

«Un commovente viaggio nel passato e nei ricordi di un legame molto forte.»

Rebecca Martin
è nata nel 1990 a Berlino da una famiglia austro-britannica. Ha iniziato a lavorare giovanissima nel mondo del cinema e della scrittura, per poi trasferirsi ad Amburgo nel 2011, per proseguire gli studi. Nel 2013 è tornata a Berlino, dove frequenta la Filmhochschule. Il suo primo romanzo risale al 2008 e, come quelli scritti in seguito, ha avuto un grande successo. La Newton Compton ha pubblicato I segreti della villa di famiglia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2020
ISBN9788822744586
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    Anteprima del libro

    I segreti della villa di famiglia - Rebecca Martin

    Prologo

    Berlino, 1934

    Dalla grande sala la luce filtrava nel corridoio scuro. Quindi Tonja doveva essere già lì. Elly rimase al buio, esitando ad avanzare. Nella tasca della gonna chiara che le arrivava al polpaccio, frusciava la lettera. All’improvviso, dopo cena, l’aveva vista sulla sua scrivania, dopo l’orario di consegna della posta. Chi era stato a portarla? Che fosse stata Tonja stessa? Non aveva indagato oltre, voleva evitare che qualcuno facesse domande scomode. Quella cosa riguardava soltanto loro due.

    Elly deglutì.

    Rimase ferma un istante, poi spinse la pesante porta a vento ed entrò nel corridoio che costeggiava la grande sala. Erano passati tre mesi da quando lei e Tonja si erano viste per l’ultima volta.

    Elly, ventidue anni, fece qualche passo e poi si fermò di nuovo per lisciarsi nervosamente la gonna. Si era forse vestita in maniera troppo stravagante? Avrebbe forse dovuto optare per qualcosa di più semplice? A un tratto, la giovane si portò la mano al raffinato colletto arricciato della camicia che le sottolineava mento e collo molto elegantemente. Avrebbe forse dato l’impressione di voler sfruttare le apparenze per distogliere l’attenzione da qualcosa? No. Scacciò via quel pensiero. Avrebbe soltanto dimostrato che tutto era come sempre. Fece un respiro profondo.

    Tonja stava aspettando. Elly origliò: silenzio. Si sentivano solo i rumori familiari dell’edificio, del luogo che un tempo aveva significato così tanto per entrambe.

    Elly ascoltò i suoi stessi respiri. Uno spiffero? Arrivava forse da una porta aperta? Magari lo stava solo immaginando. Rabbrividì e, senza poter fare nulla per evitarlo, d’un tratto prese a tremare e per un attimo fu come se avesse perso il controllo del suo corpo. Ripensò alle parole che aveva preparato e che adesso erano svanite. Il senso di colpa ricomparve, le colpì lo stomaco come un pugno e le serrò la gola.

    Non voleva più sentirsi in colpa. Voleva parlare, doveva spiegarsi una volta per tutte. Fece un altro respiro profondo, poi si diresse decisa verso la luce.

    Quando dal buio entrò nella luce, dovette stringere gli occhi. Si guardò intorno, ma non vide Tonja da nessuna parte. Eppure era certa che lei fosse lì. Semplicemente, lo sentiva. Quel legame tra loro due esisteva ancora.

    Amiche.

    «Tonja?»

    «Elly».

    La risposta di Tonja giunse con lieve ritardo. Elly cercò di non attribuire alla cosa nessun significato. Si guardò di nuovo intorno mentre i suoi occhi si abituavano alla luce. Tonja era di fronte, proprio davanti allo schermo, una donna alta e snella con i capelli da paggio, pantaloni lunghi e neri e una camicia bianca da uomo. Fece un lungo tiro dalla sigaretta ed Elly si rese conto che aveva già percepito l’odore del tabacco, ma non era stata in grado di catalogarlo.

    Cercò le parole.

    «Ti trovo bene», disse poi. Ma così non sembrava. «Ti ricordi di quando…», proseguì titubante, lasciando il resto della frase appeso in aria. Anche Tonja si sarebbe ricordata dei vecchi tempi. Doveva farlo.

    «Prima eravamo felici».

    Tonja continuava a non rispondere, allora Elly prese il coraggio a due mani. Avrebbe parlato di ciò che le aveva divise, dei bei momenti e delle esperienze fatte insieme che le avevano unite, la fiducia che c’era stata fra di loro: era impossibile che tutto fosse andato perduto.

    «Ricordi quando ci siamo incontrate per la prima volta in questa sala? Tu ti sei nascosta e io…».

    «È stato tanto tempo fa», la interruppe bruscamente Tonja. «Le cose sono cambiate».

    Le cose sono cambiate, si ripeté Elly. Ma cosa era cambiato? Lei non voleva che qualcosa cambiasse, perlomeno non tra di loro. Tutto doveva rimanere come era sempre stato.

    Cercò le parole giuste. Da qualche parte qualcosa scricchiolò. Che in sala ci fosse qualcuno oltre a loro? No, escluso. Era l’edificio che viveva: le travi, i tubi e le condutture, qui un cigolio, lì un ronzio… quasi fosse un organismo vivente. Non si era mosso qualcosa? Elly girò la testa.

    Niente.

    Vedo i fantasmi, si disse, e tornò a voltarsi verso Tonja. Eppure, mentre cercava di tenere testa allo sguardo provocatorio di Tonja, all’improvviso lui fu lì. Per un attimo le sembrò di vederlo scendere dal corridoio centrale: i movimenti familiari, il modo in cui chinava leggermente la testa di traverso, il suo sorriso accattivante… Deglutì.

    «Tonja, io… Io darei qualsiasi cosa per…».

    «Per cosa?». Le labbra di Tonja si atteggiarono a un sorrisetto di scherno. Incurante gettò la cenere della sigaretta sul pavimento. Elly era perplessa.

    «Non lo so».

    Sì, invece, lo sapeva. Avrebbe dato qualsiasi cosa per cambiare quello che era successo. Perché quella decisione non fosse stata mai presa. Perché tutto fosse ancora come era prima.

    «Tonja, io…».

    Un altro cigolio.

    «È tutto qui? Non hai altro da dire?»

    «Tonja, ti prego…».

    Doveva dominarsi. Per quale motivo si trovavano tutte e due lì? Del resto, era stata Tonja a convocarla. Rimase a fissare la pesante tenda di velluto rosso che nascondeva lo schermo, come se potesse aprirsi da un momento all’altro, anche se il primo spettacolo era previsto solo più tardi. Come in mezzo a una fitta nebbia, udì suonare l’orchestra che ormai mancava da anni. Rivide due ragazzine appena undicenni che con la bocca piena di dolcetti al caramello sprofondavano nelle poltrone con lo sguardo trasognato, fisso davanti a sé. Quella sala era stata una specie di casa, ma adesso le cose non stavano più così.

    «Qual è stato il primo film che abbiamo visto insieme?»

    «Il ladro di Baghdad. Con Douglas Fairbanks».

    Elly si meravigliò che Tonja se lo ricordasse ancora. Apparentemente, dei ricordi comuni lei non aveva serbato nulla.

    «Sì, con Douglas Fairbanks. Rammenti di come il fumo saliva in alto dalla pipa formando la frase… Bisogna guadagnarsi la propria felicità, o qualcosa del genere?».

    «Perché sei qui, Elly?»

    «Perché tu mi hai scritto quella lettera».

    «Sul serio?».

    Tonja incrociò le braccia. Nei suoi occhi adesso riluceva un sorriso malinconico ed Elly credette di riconoscervi qualcosa della Tonja di un tempo. Il cuore cominciò a batterle forte.

    «Ho avuto molto tempo per riflettere», proseguì Tonja.

    «Questo è un bene».

    «Trovi?»

    «Sì, be’, credo che… nulla dovrebbe essere dimenticato», farfugliò Elly.

    «Mmh», annuì Tonja lentamente. «Perché l’hai fatto?», domandò poi brusca.

    Elly deglutì. «Per quale motivo ho fatto cosa?». La sua voce era esitante.

    Tonja la gelò con lo sguardo.

    «Voglio sapere per quale motivo l’hai ucciso!».

    1

    Francoforte sul Meno, dicembre 1918

    «Allora, scendi?».

    Il ragazzino ai piedi dell’albero le sorrise. Elly, sei anni, sollevò le gambe e si avvinghiò ancora più forte al ramo al quale si teneva, quasi temesse che quel ragazzetto sconosciuto volesse tirarla giù.

    «Tua madre mi ha chiesto di venire a prenderti, vogliamo mangiare la torta. La Schwarzwälder… piace anche a te, no?».

    Elly serrò le labbra. Lei non parlava con gli sconosciuti. A stento parlava con i suoi genitori, i quali per questo l’avevano portata dal medico. Che però non le aveva trovato niente. Le sue orecchie erano perfette, ci sentiva benissimo. E non era neanche tonta. Prima o poi avrebbe iniziato a parlare, aveva detto il dottore.

    Il ragazzino strinse gli occhi nel sollevarli verso la luce. Lo sconosciuto si chiamava Corbin. Era il figlio di uno dei soci di suo padre e aveva già tredici anni.

    Che vuole da me?. Elly vide Corbin incrociare le braccia e la sua espressione farsi cupa.

    «Ti capisco. Anche a me dà fastidio quando mia madre mi chiama. Bisogna fare sempre quello che dicono. Che scemenza!».

    Si allontanò di qualche passo dall’albero ed Elly pensò che finalmente l’avrebbe lasciata in pace, ma poi lui si voltò e si sedette per terra. Elly sospirò aspramente. Era dicembre e il terreno era gelido. Lo guardò: doveva alzarsi o gli sarebbe venuto un colpo. La mamma glielo diceva sempre quando in quel periodo dell’anno se ne andava in giro in giardino o andava a nascondersi da qualche parte.

    Corbin le sorrise con l’aria di quello che la sa lunga.

    «Se ti stai chiedendo se resterò seduto qui… Sì, lo farò. Del resto ho promesso di riportarti dentro. E quello che prometto, io lo faccio… Oppure non torno nemmeno io».

    Elly continuava a tacere. Non voleva che il ragazzo si congelasse. C’era qualcosa, in lui, che le piaceva.

    «Ah, a proposito, ti chiedo scusa. Non mi sono ancora presentato come si deve, davvero scortese da parte mia. Mi chiamo Corbin Harloff».

    Questo lo so, si disse lei.

    Lui accennò una riverenza, che da seduto faceva un po’ ridere. Si stava prendendo gioco di lei? Elly serrò di nuovo le labbra. Corbin si mise a gambe incrociate e si guardò brevemente intorno.

    «Anche a te piace quando l’erba è così ricoperta d’argento?», chiese, cambiando discorso e suscitando in lei un certo stupore. «Deve essere così il giardino di una regina del ghiaccio, no?».

    Elly allentò un po’ la presa sul ramo, stare aggrappata a quel modo iniziava a farle male. E poi sembrava che da quel ragazzino non giungesse alcun pericolo. Inoltre faceva freddo, tanto lassù quanto là sotto.

    «Brrrr…». Corbin si strinse le braccia intorno al corpo, come se in quel momento avesse pensato la stessa cosa. «Certo, non rendi proprio le cose facili. Allora, che ne diresti se adesso andassimo dentro? Io potrei mantenere la mia promessa e ci mangeremmo un po’ di torta insieme. Non è una brutta idea, secondo me».

    Elly aggrottò la fronte. Mi piace, continuò tra sé e sé, mi piace la sua voce. Le piaceva anche come se ne stava seduto a morire di freddo, e solo per questo sarebbe rientrata in casa con lui. Era una cosa strana, ma pensò che le sarebbe piaciuto averlo come amico.

    Allora sarei meno sola.

    Elly ci pensò su ancora per un istante e poi lasciò penzolare le gambe di sotto. Senza esitazione si girò sulla pancia e cominciò a scendere. Quando toccò il terreno, Corbin era già accanto a lei.

    «Sei brava ad arrampicarti».

    Elly scrutò a fondo gli occhi scuri di Corbin, poi gli porse la piccola mano. E lui la prese immediatamente.

    Dalla finestra, Alice Kramer osservava stupefatta Corbin Harloff e sua figlia Elly attraversare il prato, diretti a casa. Invero, Amelia Harloff era sicura che suo figlio sarebbe riuscito a riportare dentro Elly, ma Alice aveva nutrito forti forti dubbi in merito. Elly era una bambina difficile, lo era sempre stata: era una creatura particolare, che preferiva muoversi nel suo mondo di fantasia. Era strana, aveva cominciato a parlare tardi, era ipersensibile. A volte, ad Alice sembrava che non le piacesse nessuno. Rimase quindi ancora più attonita quando vide che Corbin stringeva, nella mano sinistra, la destra di Elly. Non si parlavano, ma in quell’atteggiamento c’era una fiducia che da tanto tempo Alice non percepiva più in sua figlia.

    «Che ti avevo detto?», domandò, felice, Amelia.

    Alice trasalì.

    «Oh, non ti volevo spaventare».

    «Oh, ero sovrappensiero. Scusami, Amelia». Le due donne si scambiarono uno sguardo d’intesa. Erano molto unite poiché amiche dai tempi della scuola.

    Gli uomini tornarono dallo studio, nel quale si erano ritirati poco dopo i saluti di rito a parlare di lavoro.

    «Ora non disdegnerei un caffè», disse Toni Kramer, mentre Richard Harloff aggiungeva: «E io non direi di no a una fetta di torta. Dove sono i bambini?».

    Alice sorrise.

    «Bene, la tavola è già apparecchiata, sedetevi pure. I bambini stanno arrivando».

    «E voi siete riusciti a risolvere tutto?», chiese Amelia.

    «In effetti», brontolò Richard, «niente può più ostacolare il nostro nuovo cinema».

    «Davvero il vostro progetto è pronto?».

    Alice osservò suo marito dallo specchio, mentre con movimenti lenti si pettinava i lunghi capelli castano chiaro.

    «Oh sì. Credimi: sarà una cosa pazzesca! Il successo resterà fedele alla Harloff&Kramer, questo è certo».

    Toni, suo marito – che in realtà si chiamava Anton – le si avvicinò. Si chinò e baciò delicatamente il collo della moglie. Alice si fermò e rimase a osservarlo pensierosa dallo specchio.

    Sembrava contento, contento di ciò che aveva raggiunto, e sembrava rallegrarsi di ciò che aveva di fronte. Certamente non si sprecava a pensare che sua figlia – così supponeva di tanto in tanto Alice – anche per questo a scuola non riusciva a trovare il proprio posto, poiché il suo papà, abile, all’epoca era stato sollevato dal servizio militare. Solo perché l’attività di produzione di uniformi di Toni e Richard era considerata importante per la guerra, la loro famiglia era stata risparmiata da tanta miseria. Anche per questo forse Elly non avrebbe mai potuto capire quale sofferenza aveva investito gli altri a quel tempo: lei non sapeva nulla dei padri o dei fratelli che erano rimasti sul campo di battaglia. Ma giudicare Toni per questo motivo era sbagliato e infantile, lo sapeva anche Alice, tuttavia a volte non riusciva a liberarsi di quel tarlo.

    «Sembra che Corbin ed Elly si capiscano bene», esclamò Toni di punto in bianco. Alice si stupì che se ne fosse accorto.

    «Già, è vero. Lo ha addirittura fatto entrare nella sua stanza».

    «È un bravo ragazzo».

    «Lo so».

    Alice trattenne un sospiro. Voleva davvero credere che nella vita di Elly sarebbe accaduto qualcosa di buono, ma non riusciva a mettere da parte le sue riserve.

    2

    Francoforte sul Meno, 1919

    Origliare era certo disdicevole. Cose del genere una giovane signora non le faceva, ma quando Elly – sette anni – aveva sentito avvicinarsi le voci, si era infilata seduta stante nell’armadietto che da alcune settimane era vuoto, richiudendo lo sportello come meglio poteva.

    Voleva sapere cosa stava accadendo. Negli ultimi giorni, gli adulti avevano parlato tantissimo e si era accorta che abbassavano la voce se lei era nei paraggi. E poi, lo sguardo preoccupato di sua madre: Elly era una bambina molto attenta perché le sfuggisse una cosa del genere ed era assolutamente decisa a non tollerare oltre questa situazione.

    Da una piccola fessura entrava un po’ di luce nell’armadietto, ma non riusciva a vedere nulla. In compenso, però, sentiva bene e già un attimo dopo desiderò di non essere lì, perché le bastarono poche parole per capire che cosa avrebbe portato il futuro.

    «Questa nuova democratica arbitrarietà, la vittoria del popolo su ordine e giustizia… Alice, io non posso far crescere il mio ragazzo in un Paese del genere», disse con voce pesante Amelia Harloff. «Ognuno dovrebbe conoscere il proprio posto, in Germania non lo conosce più nessuno».

    Una delle donne si alzò.

    Sua madre.

    Elly riconobbe il ritmo dei suoi passi perché una delle sue gambe era appena più corta dell’altra. La porcellana tintinnò.

    «Del tè?»

    «Volentieri, Alice».

    «Quand’è che lascerete la Germania?».

    La voce della mamma era tranquilla, ma Elly vi riconobbe un leggero tremore. Sua madre era preoccupata.

    «Il mese prossimo. All’inizio ci stabiliremo dai parenti di Richard. Dal prossimo semestre, Corbin frequenterà un convitto inglese».

    «Così presto?».

    Qualcuno tornò a posare una tazza sul tavolo.

    «A che pro aspettare ancora?».

    Alice sospirò. «Forse hai ragione».

    «Certo che ho ragione».

    «Mmh».

    Le tazze da tè tintinnarono. Le donne stavano bevendo. Qualcuno prese lo zucchero e mescolò. Le donne parlavano, ma Elly era come paralizzata. Non riusciva più a seguire il discorso, come punture i suoi stessi pensieri le infuriavano in testa e attraverso tutto il corpo: gli Harloff si sarebbero trasferiti in Inghilterra e lei avrebbe perso Corbin, il suo unico amico. Era di nuovo sola.

    Sentì bussare. Elly fissò la porta della stanza e tacque. Era trascorsa un’ora da quando era strisciata via dal suo nascondiglio e si era massaggiata gli arti doloranti prima di scappare in camera sua il più in fretta possibile. Adesso, dietro la sua porta c’era Corbin: riconosceva il suo modo di bussare.

    Seduta sul letto, Elly si strinse le gambe al corpo ancora dolente e si abbracciò le ginocchia come meglio riusciva.

    «Elly? Lo so che ci sei. Posso entrare?».

    Elly si spinse le unghie della mano destra nel palmo della sinistra, oppose un dolore all’altro e seguitò a restare in silenzio. Corbin aspettò ancora un attimo, poi aprì piano la porta e infilò la testa nell’apertura.

    «Posso?», ripeté.

    Elly continuava a non parlare e non ebbe alcuna reazione. Corbin esitò, poi si fece forza ed entrò.

    «Devo parlarti», disse.

    Elly distolse lo sguardo. Lo sentì avvicinarsi, poi lo guardò. Corbin sospirò.

    «Lo sai».

    «Ovvio che lo so, non sono stupida».

    «Certo che non lo sei».

    Non le chiese come aveva fatto a saperlo. Per un istante nella stanza calò il silenzio.

    «Mi dispiace», disse poi lui.

    «Anche a me».

    Elly ascoltò il dolore che c’era nella sua voce e pensò che le sarebbe stato risparmiato, se quel giorno non avesse deciso di scendere da quell’albero. Quante volte si era sbagliata…

    Sentì Corbin schiarirsi la voce.

    «Potremmo scriverci. E poi d’estate potrei venire a trovarti e tu potresti venire a trovare me».

    «Io non voglio che tu mi venga a trovare».

    «È dura». Lui la guardò triste, ma la prese sul serio. Nessuno l’avrebbe mai più presa così sul serio, ne era certa.

    3

    Francoforte sul Meno, ottobre 1923

    Verso mezzogiorno, Toni Kramer si fermò davanti alla possente porta del cinema Odeon, che ricordava due ali, e osservò il viavai della strada di fronte all’edificio. Fece un cortese cenno con la testa ai passanti che si erano fermati a guardare i cartelloni affissi nelle teche. Di tanto in tanto, il portiere apriva la porta che dava sulla zona d’ingresso con il pavimento ricoperto dal morbido tappeto rosso. Da lì, quattro scalini portavano alla cassa, dove una bella ragazza se ne stava seduta a vendere i biglietti.

    Toni era attento a che il personale fosse sempre ben vestito e che avesse un aspetto affidabile. Il mondo fantastico dei film doveva proseguire fin nell’atrio e davanti alla sala: voleva che le persone si sentissero bene quando entravano lì dentro e quando facevano ritorno dalla proiezione. Pensava sempre a qualcosa di nuovo: ai suoi visitatori, quella settimana, l’Odeon regalava delle vivaci figurine. Era già stata la volta dei bonbon e delle matite come dono insieme ai biglietti e, nel corso dell’ultimo anno, era stato indetto un concorso di pittura. Era così che si continuava a far parlare di sé.

    Toni incrociò le mani dietro la schiena e allargò un po’ le gambe. La signora Schell, con un sacchetto della spesa sottobraccio, si fermò davanti al cartellone. Si salutarono con fare ossequioso. Meta Schell frequentava la classe di sua figlia. Toni andò con il pensiero all’incontro dei proprietari del cinema, fissato per la fine della settimana. Di recente c’era stata una piccola schermaglia sul film come forma d’arte e sul film come (scadente) forma d’intrattenimento che lo aveva indispettito. Che male c’era se la gente si divertiva al cinema? A lui faceva piacere se i clienti dell’Odeon se la spassavano.

    «Signor Kramer!», lo chiamò una voce familiare.

    Franz Cohn, da Natale il quarto cinemusicista del quartetto, imboccò insieme a suo padre Herbert la stradina laterale nella quale si trovava l’ingresso secondario. Toni fece loro un cenno con la testa, poi prese il fazzoletto e pulì una bella macchia da uno dei grandi battenti di vetro. Le imponenti maniglie d’ottone, che ricordavano due ali stilizzate, non erano costate poco ma erano valse la spesa: facevano la loro bella figura, acquistarle era stata dunque una buona decisione.

    Toni fece un passo indietro ed esaminò il suo lavoro: tutto pulito.

    Una coppietta aveva studiato i cartelloni, dopodiché era scomparsa nell’atrio. Toni incrociò le mani dietro la schiena e spinse fuori il petto. Era orgoglioso di sé. A suo tempo aveva fatto fortuna con uniformi e accessori: che un giorno avrebbe posseduto un cinema non se lo sarebbe mai sognato, ma non si era mai negato le novità, perciò quando Richard Harloff – suo buon amico, partner d’affari dai tempi della guerra e socio silenzioso – gli aveva fatto la proposta, lui ne era rimasto subito entusiasta. Si era voluto lasciare le uniformi alle spalle, del resto l’industria dell’abbigliamento in sé non lo interessava per niente.

    Un istante dopo si accorse che dietro di lui c’era qualcuno.

    «Papà!».

    Toni si voltò e tirò fuori un lecca-lecca dalla tasca.

    «Elly, principessa mia!». Con le possenti braccia la prese e la sollevò in aria incurante di rovinarsi il bel completo. La strinse a sé e le diede un bacio. «Tutto bene?»

    «Adesso sì». Elly sorrise. Aveva undici anni e odiava andare a scuola, anche se la cosa non le causava nessuna difficoltà. Preferiva andare all’Odeon e, appena possibile, cercava di guardarsi tutti i film che venivano proiettati in alternanza nei diversi giorni della settimana. Suo padre si era prefissato il compito di valutare personalmente ogni singolo film prima di permetterne la visione a sua figlia, ma a volte temeva che Elly sgattaiolasse di nascosto ad assistere alle proiezioni.

    Durante i fine settimana, a volte la famiglia Kramer si recava insieme a vedere un film per bambini, ma mamma Alice non ci trovava nulla e preferiva andare al teatro.

    Elly, al contrario, faceva fuoco e fiamme. Scambiava opinioni con suo padre, discuteva con lui di quale pellicola proiettare successivamente, seguiva le prove dei musicisti. Amava anche entrare nella sala dei tecnici e osservare i proiezionisti al lavoro, ormai poteva gestire la proiezione di un film tutta da sola.

    «Hai fame, principessa?», le chiese Toni scrutandola attento.

    Lei annuì. Toni mandò uno dei ragazzi in un locale vicino a prendere salsicce e zuppa di piselli, che avrebbero mangiato insieme nel suo ufficio. Alla madre di Elly questo non piaceva affatto: si doveva mangiare a casa, a una tavola apparecchiata con gusto, ma Toni ed Elly si godevano i loro spuntini clandestini.

    Se sua figlia un giorno avesse rilevato l’Odeon, e su questo Toni Kramer non nutriva alcun dubbio, allora anche lei avrebbe passato lì giorno e notte.

    Ah, non dovrei pensare troppo al futuro.

    Alice aveva ben altri progetti per la loro figlia: voleva che facesse un buon matrimonio e vedeva il suo futuro consorte come il futuro proprietario dell’Odeon. Ma di una cosa era certa a proposito del cinema: non condivideva la passione di suo marito e di sua figlia. Alice non era una sognatrice. Alice era preoccupata. Continuamente preoccupata.

    4

    Francoforte sul Meno, 2013

    Quel giorno di marzo sembrava il primo giorno primaverile dopo un inverno troppo lungo e troppo grigio. Era passato quasi un anno da quando la ventiseienne Carina aveva terminato a pieni voti i suoi studi universitari. E cosa le avevano portato? Il contratto di tre mesi per un progetto non era stato prorogato. Durante il fine settimana continuava a lavorare nella piccola caffetteria nella quale aveva lavorato già durante gli studi, dava ripetizioni e aiutava nella biblioteca di facoltà. Se l’era immaginata diversa la sua vita dopo gli studi: era abituata a essere premiata per il duro lavoro, ma la vita vera non premiava…

    Doveva essere più risoluta, aveva detto Jan. Stavano insieme dal primo semestre, dal momento in cui sembrava che il mondo fosse ai loro piedi, ai piedi dei due studenti eccellenti. A volte si sentiva incompresa quando lui le diceva così, ma stringeva i denti e taceva. Magari aveva ragione lui.

    Carina sbuffò. L’ultimo anno non era stato per niente facile. Prima si erano separati i suoi genitori e lei, nonostante tutti i precursori segnali d’allarme, ne aveva sofferto più di quanto il suo io adulto non volesse ammettere. In quel periodo aveva pensato spesso anche a se stessa e Jan. Senza esito. Lui era il suo partner, gli voleva bene. Lui le mancava, quando non c’era. Erano sempre la coppia per antonomasia, ma cos’era a fare la differenza nel loro rapporto?

    «Dove vuoi essere tra cinque anni?», gli aveva chiesto lei una volta. «Intendo da un punto di vista relazionale».

    Lui l’aveva guardata indispettito e poi si era messo a ridere.

    «Ma dai, me lo chiedi solo per quello che è successo ai tuoi genitori. E sei invidiosa perché io ho avuto un posto di dottorato e tu no».

    Forse aveva ragione. Forse dipendeva da quello. Forse dipendeva anche dal fatto che lui si era specializzato in biologia molecolare e non in storia, che comunque non portava a niente.

    Lo sguardo di Carina si perse nel vuoto.

    Dovrei scendere ora. In fin dei conti ho un appuntamento.

    L’inserzione l’aveva notata all’inizio di quella settimana durante la lettura mattutina del quotidiano. Da quello che era riuscita a capire dal testo, si trattava di realizzare uno scritto commemorativo per l’anniversario di un’azienda. Si parlava anche di una buona remunerazione. Del tutto contro la propria indole, Carina aveva chiamato immediatamente e, concitata, aveva cercato le parole mentre ascoltava il telefono dare il segnale di libero per poi riattaccare spaventata alla risposta della segreteria. Una voce femminile giovane. Era rimasta sorpresa, ma non avrebbe neanche potuto dire cosa si sarebbe aspettata. Quel giorno, non aveva più richiamato. Il giorno dopo non aveva avuto fortuna. Solo il terzo giorno era finalmente riuscita a raggiungere qualcuno: balbettava così tanto che era convinta che si sarebbero sbarazzati di lei già per telefono, sempre che il lavoro non fosse stato assegnato da un pezzo. Eppure, la giovane voce femminile – la stessa che aveva sentito alla segreteria telefonica – sembrava davvero entusiasta. Si presentò come Alea Kramer e disse a Carina che l’avrebbe incontrata volentieri per un colloquio – fino ad allora non aveva ancora trovato nessuno che fosse adatto. Si scambiarono indirizzi e numeri di telefono e fissarono un incontro per il giorno seguente. Soltanto verso la fine della breve chiacchierata, la donna aveva detto all’improvviso: «Deve andare bene, lo sa, no? Non le posso ancora promettere il posto».

    «Naturalmente», aveva risposto Carina insicura. «È comprensibile».

    Eccomi arrivata. Carina diede un’occhiata al display del navigatore. Ha raggiunto la sua destinazione.

    Quandro aprì la portiera, inspirò a pieni polmoni la dolce aria primaverile. Che meraviglia non dover più morire di freddo andando in giro senza giaccone invernale. Chiuse la portiera con una spinta leggera, controllò di nuovo il freno a mano e si mise la borsa in spalla.

    Senza volerlo, ripensò alla piscina all’aperto nella quale l’estate prima aveva nuotato tanto spesso – senza Jan, perché lui odiava le piscine pubbliche. Al contrario, a Carina piaceva molto nuotare e il ricordo le fece salire al naso quegli odori particolari: il cloro, l’acqua che si asciugava sulle pietre, le patatine con ketchup e maionese, i ghiaccioli.

    Stiamo ancora bene insieme? Siamo ancora felici?

    Si ripromise, dopo l’orario di apertura della piscina coperta, di andare a nuotare ogni tanto la sera. Un po’ di movimento le avrebbe fatto bene. Fece qualche passo, la cinghia della borsa le scivolava dalla spalla, così decise di infilarla dalla testa per farsela passare di traverso sul petto.

    Il civico seguente era il 16. Le proprietà erano molto più grandi, le strade più ampie, e soltanto pochi veicoli erano parcheggiati fuori. Era chiaro che si era fermata troppo presto con l’auto. Quello dopo, però, doveva essere il civico 18. In mezzo a vecchi alberi occhieggiava una villa bianca stile liberty. La palazzina era circondata da una recinzione in ferro battuto, alla quale era stato aggiunto un portone molto moderno su cui Carina non riusciva a vedere né una maniglia né un campanello. Fece qualche altro passo e guardò attraverso il recinto: un vialetto di ghiaia portava, dopo una piccola curva, alla casa.

    Era perplessa. Come segnalare la sua presenza? Da qualche parte doveva pur esserci un campanello, ma non riusciva a vederlo. Camminò un altro po’ lungo la recinzione continuando a osservare la villa. Una porticina riportava in cifre dorate l’anno di costruzione: 1900. Ed ecco che era arrivata alla fine della recinzione. Tra i civici 18 e 20, dalla strada partiva un viottolo stretto e sabbioso: forse lì, da qualche parte, avrebbe trovato un accesso.

    Un’alta siepe di bosso le impediva la vista per alcuni metri. È da un bel pezzo che non vede un giardiniere, si disse. Quello stretto sentiero era buio e faceva ben più fresco che sulla strada irraggiata dal sole di primavera. Carina accelerò il passo. E all’improvviso eccola: la porta. Spuntata come dal nulla in mezzo alla recinzione, così stretta che quasi non si vedeva. Abbassò la maniglia e notò con sorpresa che si apriva.

    Doveva entrare come se niente fosse? Non le restava altra scelta. Aprì la porta. Un cigolio stridulo la fece trasalire, tuttavia non esitò. Solo per un attimo si chiese cosa avrebbe fatto se i proprietari della tenuta avessero posseduto dei cani.

    Avanzò piano. Lungo la recinzione la vegetazione era fitta, ma più proseguiva, più il giardino si faceva curato: un prato all’inglese, qualche alto albero da frutto e cespugli ornamentali di ogni genere. Alla fine raggiunse un sentiero di ghiaia bianca che portava dritto sul retro della casa, dove si trovava una veranda coperta, un tempo dipinta di bianco, che in molti punti aveva perso il colore. Anche lì era tutto chiuso e abbandonato. Sembrava quasi che la casa fosse disabitata, ma non poteva essere così: le avevano dato proprio quell’indirizzo.

    Girò intorno alla villa. Niente. Dannazione, non poteva essere vero. Guardò di nuovo la casa. Le finestre erano chiuse e sembravano buie. Si mise in ascolto. Non si sentiva forse il mormorio dell’acqua? Si concentrò. Un tubo per l’irrigazione o una fontana? In quell’ambiente una fontana sarebbe stata bene. Doveva seguire quello sciacquio? O doveva forse bussare forte alla prossima porta? Dubbiosa, si voltò di nuovo verso la casa. La colse una strana sensazione. Improvvisamente la villa, fino a un attimo prima magnifica, le sembrò tetra, un’imponente facciata con le finestre che ricordavano orbite oculari vuote in un film dell’orrore. D’un tratto notò un movimento dietro una delle finestre: una donna scarna e molto anziana se ne stava lì e la osservava. Carina strinse gli occhi.

    No, si era sbagliata. Non c’era nessuno.

    Rabbrividì.

    Non fare la bambina e vedi di trovare qualcuno, si esortò. Fatti vedere.

    Inspirò a fondo e poi imboccò lo stretto viale che portava verso il punto dal quale veniva lo sciacquio. Il rumore finiva dietro alcuni arbusti spessi e davanti a lei si estendeva una grande superficie erbosa in mezzo alla quale, con sua sorpresa, si trovava una piscina bella lunga.

    Una piscina.

    Questo non me l’aspettavo proprio. Carina si fermò e scrutò l’uomo che stava nuotando tutto concentrato. Per l’amor del cielo, ma non faceva ancora un po’ freddo per fare il bagno all’aperto? Sembrava che allo sconosciuto non gliene importasse nulla: sbuffando, fendeva l’acqua con vigorose bracciate. Carina non riusciva a distogliere lo sguardo e si scervellava per cercare di capire come manifestare la sua presenza senza sentirsi in imbarazzo. La prospettiva di ritrovarsi a breve al cospetto di un uomo sconosciuto in costume la rendeva insicura: cosa avrebbe detto quando l’avesse vista? Si sarebbe dovuta spiegare.

    Un attimo dopo, la decisione le fu risparmiata. L’uomo sembrava essersi accorto di lei, balzò fuori dall’acqua e, a passi veloci e irruenti e con un’espressione severa in volto, le si avvicinò.

    «Cosa ci fa qui? Questa è proprietà privata!».

    Carina fu sorpresa di vedere con quanta stupefacente autorità ci si potesse presentare, seppur mezzi nudi e con un costume gocciolante. Fece per aprire la bocca, ma lo sconosciuto non le diede possibilità di rispondere: «Allora, chi è lei? E cosa ci fa qui? E si sbrighi! O devo chiamare la polizia?».

    Carina osservò i piccoli rigagnoli che dai capelli scuri e cortissimi gli scendevano sul viso fin sulle spalle larghe. Il costume era blu scuro e piuttosto modesto. Si sentì avvampare le guance.

    «Io… La signora Kramer mi ha… Io, insomma sto cercando una certa signora Kramer».

    «La signora Kramer?». La ruga tra i suoi occhi si fece più profonda. «Quale signora Kramer?»

    «Alea Kramer. Ho un appuntamento con lei. Mi chiamo Carina Wahlsberg». Si guardarono a vicenda. Carina pensò che l’uomo fosse sulla trentina. «Ieri ho parlato con la signora Kramer per telefono… Perdoni la mia intrusione, ma non sapevo come…».

    «Di solito si entra dall’ingresso principale. Dunque l’ha invitata mia sorella? Lei è la giornalista?»

    «Ho chiamato per l’annuncio».

    «L’annuncio?». L’espressione dell’uomo, che si era leggermente rilassata, si indurì di nuovo. Guardò Carina con fare inquisitore, poi all’improvviso le porse la mano: «Sono Tom Kramer. Mi perdoni per essere stato così scortese. L’accompagno in casa, ad ogni modo oggi Alea ancora non l’ho vista. Spero che la mia cara sorella non le tiri un bidone. Sa, non è la più affidabile delle persone. È più che probabile che la nostra principessa stia ancora dormendo».

    «Ma che idiozie vai dicendo!».

    Carina si voltò e per un brevissimo istante rimase come pietrificata. Cielo! Avrebbe potuto essere l’immagine di qualche cartellone pubblicitario: una giovane donna dai capelli lisci e biondi come il miele in un aderente abito di maglia verde scuro, le gambe slanciate e abbronzate fasciate da stivali oltre il ginocchio, le si avvicinava sorridente.

    «La signora Wahlsberg?», le chiese porgendole la mano esile. Carina rabbrividì: riconobbe la voce al telefono e si rese conto stupita di non essersi fatta un’idea della persona, come invece faceva un tempo. La giovane donna riabbassò la mano.

    «Sono Alea Kramer, come già sa, e», esclamò indicando il giovane uomo, «quel musone lì è mio fratello. Fra l’altro è il maggiore e quindi sa sempre tutto meglio, è logico. Tom, lei è la signora Wahlsberg, la storica di cui ti ho parlato. Io credo che sia

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