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Con te e nessun altro
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E-book320 pagine4 ore

Con te e nessun altro

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Info su questo ebook

The Ivy Chronicles Series

Autrice bestseller del New York Times

Che cosa succede quando una ragazza a cui nessuno dice no incontra un ragazzo capace di resisterle?

Emerson ha un dono. Sa flirtare, è sempre a suo agio in mezzo alla gente e non ha mai trovato un uomo in grado di resistere al suo sorriso magnetico. Ha solo tre regole ferree da rispettare nella vita: mai mostrarsi vulnerabile, mai innamorarsi, avere il controllo del gioco. Ma poi è arrivato Shaw, così sexy e diverso dai colletti bianchi che Emerson frequenta di solito. La cosa peggiore è che sembra non essere toccato dal suo fascino. Dopo averla salvata da una brutta situazione in un locale, infatti, non ha nemmeno accennato a provarci. Anzi, l’ha chiamata “civetta” e l’ha spedita a casa. Per Emerson è come aver ricevuto una sfida e adesso la sua missione è farlo cadere ai suoi piedi. Ma per farlo, forse sarà costretta a infrangere tutte le sue regole…

«Vi farà innamorare.»
Jennifer Armentrout
Sophie Jordan
ha scritto il suo primo libro alle superiori. Dopo la laurea in Inglese e Storia, ha fatto l’insegnante per diversi anni e poi, dopo la nascita del primo figlio, ha lasciato il lavoro e ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Meno di tre anni dopo, il suo primo romanzo è balzato tra i bestseller del «New York Times» e di «USA Today». La Newton Compton ha pubblicato L’inizio del gioco e Con te e nessun altro.
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2018
ISBN9788822724533
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    Anteprima del libro

    Con te e nessun altro - Sophie Jordan

    2053

    Titolo originale: Tease

    Copyright © 2014 by Sharie Kohler

    Traduzione dall’inglese di Gabrielle Diverio

    Prima edizione ebook: agosto 2018

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-2453-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Sophie Jordan

    Con te e nessun altro

    Indice

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    A Lily Dalton e Kerrelyn Sparks,

    le mie compagne di viaggio.

    Capitolo uno

    «Sei sicura che sia questo il posto?». La fredda sera di gennaio si fece sentire appena scesi dall’auto di Annie. La mia mano indugiò sulla portiera del passeggero, come se fossi pronta a spalancarla da un momento all’altro per risalirci subito dentro.

    Il bar ricordava più uno di quei magazzini lungo le banchine che un locale. Un vento sostenuto avrebbe potuto farlo volare via. Posteggiate davanti alla struttura in lamiera c’erano molte più moto che auto. Doveva esserci un bel pienone. Il modo in cui avevano parcheggiato era totalmente privo di logica. Non c’erano segnali o linee a delimitare gli spazi. Il risultato era un’enorme bolgia.

    «Sì», rispose lei. «È questo. Maisie». Con la mano indicò il neon rosso piazzato su di un angolo sbilenco. Nonostante il nome gradevole, il bar sembrava innocuo come… be’, non come me.

    «Sei sicura che non ci sia un altro Maisie?». Magari uno dove non si aveva la sensazione di potersi prendere il tetano solo a entrarci.

    «Guarda». Si avvicinò a una Lexus parcheggiata tra un pick-up e una Pinto arrugginita, con il fiato che le usciva dalle labbra come fosse nebbia. Il veicolo di lusso era tanto fuori luogo lì in mezzo come lo eravamo noi con i nostri jeans attillati e i nostri cappottini firmati. Avanzò di qualche passo verso l’auto, facendo scricchiolare la ghiaia coperta di neve sotto i tacchi degli stivali. «È l’auto di Noah». Noah. L’ultima ossessione di Annie e anche il motivo per cui eravamo finite lì.

    Annuii, ficcai le mani nelle tasche del cappotto e la seguii, facendo finta di non sentirmi completamente fuori luogo. In fondo era un’occasione per divertirsi un po’. E io avevo la reputazione di una che si voleva divertire. Niente era troppo trasgressivo per me. Neanche un bar di motociclisti.

    Provai tuttavia a immaginarmi di essere lì con le mie due migliori amiche. No, non sarebbe mai potuto accadere. Anche se Georgia e Pepper non avessero avuto dei fidanzati per le mani, di sicuro un posto così non faceva per loro.

    Neanche per me, veramente.

    Di sicuro non ci avrei trovato il tipo di ragazzo che mi piaceva. Nessuno con cui flirtare. Decisamente nessuno da portarmi al dormitorio. Magari uno dei novellini della band di Noah poteva andar bene.

    Sospirando, guardai Annie nel momento in cui si aprì il cappotto e, prendendosi tra le mani i seni enormi, li aggiustò sotto la profonda scollatura a

    V

    del maglioncino troppo stretto, per essere sicura che il suo décolleté fosse in bella mostra. Stavo davvero toccando il fondo uscendo con lei, ma stasera nessun’altra era disponibile. Georgia era con Harris. Pepper e Reece mi avevano chiesto se volessi rimanere a casa a guardare un film con loro, ma era una cosa che mi faceva sempre sentire un po’ sola. Isolata, anche se si trattava di amici. Erano innamorati ed era evidente in qualsiasi cosa facessero. In ogni parola. In ogni sfioramento. Sì, perché tra l’altro si toccavano di continuo e la mia presenza sarebbe stata la sola cosa che li avrebbe trattenuti dallo spogliarsi. Roba da farsi venire il voltastomaco. Ma attenzione: meglio loro che me.

    Amore vuol dire perdere il controllo. E io non perdevo mai il controllo. Lasciavo che lo credessero, frequentando ogni settimana un ragazzo diverso, ma ero sempre pienamente consapevole delle mie azioni. Padrona della situazione, in ogni singolo istante.

    Sospirando, infilai dietro l’orecchio una corta ciocca di capelli. Anche Suzanne, la ragazza-da-rimorchio che mi portavo dietro ultimamente, quella sera aveva un appuntamento. Tutte le mie amiche erano fidanzate o stavano per diventarlo. Considerando che era l’ultima cosa che volevo, non potevo far altro che uscire con personaggi come Annie. Non la ragazza più simpatica che avessi incontrato nei miei due anni alla Dartford, ma l’unica disponibile. Dal momento che non ero il tipo da rimanere in stanza a fissare le pareti o guardare repliche di Glee, eccomi lì. In un bar di motociclisti.

    Nel momento in cui entrammo, capii subito di aver fatto male i calcoli su come me la sarei cavata lì dentro, perché per quanto il locale avesse un aspetto tremendo all’esterno, l’interno era mille volte peggio.

    A quanto pareva il divieto di fumare veniva bellamente ignorato, visto che l’aria era densa di fumo. I miei polmoni vergini se ne accorsero e tossii. Per quanto fossi trasgressiva non fumavo. Né sigarette né altro. La cosa peggiore che introducevo nel mio corpo era un burrito di Taco Bell. Con gli occhi che mi lacrimavano, cercai di vedere qualcosa attraverso quella nebbia.

    La media dei frequentatori era costituita da uomini, sopra i trent’anni, con barba e tatuaggi che non eccellevano per la qualità. Sui loro giubbotti e gilè di jeans avevano emblemi che sembravano riferirsi a gruppi e bande. Non che potessi giurare sull’autenticità di quelle decorazioni, ma una volta avevo guardato uno speciale su History Channel che parlava di bande di motociclisti e mi sembrarono originali.

    «Annie», mormorai indugiando sulla porta. «Sei sicura di quello che stiamo facendo?»

    «Perché?», fece sbattendo le palpebre. «Siamo nel classico posto dove tutte le grandi band iniziano la loro carriera».

    Scossi la testa e, mentre i miei occhi scrutavano la stanza, dissi con tono apparentemente disinvolto: «È il classico posto dove potresti prenderti una coltellata».

    L’avevo sempre fatto. Guardare. Controllare. Potevo sembrare una che non faceva caso a certe cose ma la mia mente in realtà era sempre in azione, a soppesare e a fare le proprie considerazioni. Sono stata obbligata a diventare così. È stato per non rischiare di finire in situazioni da cui non potevo fuggire. Come era successo in passato.

    Annie alzò gli occhi al cielo. «Non credevo che fossi tanto fifona. Dài. Cerchiamo un tavolo».

    Non ero una fifona, ma ogni mossa che facevo, ogni decisione che prendevo era calcolata. Andavo a divertirmi nei posti che conoscevo.

    Al Mulvaney, al Freemont, i locali frequentati dalle confraternite. E anche i ragazzi con cui cazzeggiavo in giro li conoscevo. Persino quando erano degli estranei, perché sapevo com’era quel tipo di ragazzi. Tutti uguali. Facili da interpretare. Facili da controllare.

    Serpeggiando tra i tavoli dietro a Annie, mi fu chiaro che lì ragazzi di quel genere non ce n’erano. Decisamente. Questi sembravano tutti appena usciti di galera. Muscolosi e tatuati, ci seguivano con gli occhi come lupi affamati. Nessuno li poteva controllare.

    Guardai dritto davanti a me come se non li vedessi. Come se non mi sentissi addosso i loro sguardi. Ci sedemmo a un tavolo vicino al palco, sfilandoci i cappotti e appoggiandoli sullo schienale delle sedie. Noah e la sua band stavano già suonando. Non erano un granché, ma non mi sembrò che il posto esigesse performance di alto livello. Anche se sarebbe stato preferibile che avessero suonato qualcosa di diverso da una vecchia canzone dei Depeche Mode. Quelli che li stavano ad ascoltare non sembravano particolarmente impressionati.

    Annie applaudiva forte – l’unica a farlo – ogni volta che finivano un brano e passavano al successivo. Noah le fece un gesto per salutarla.

    «Non è fantastico?», mi disse cercando il mio assenso.

    «Oh, sì», dissi facendo una smorfia, mentre Noah prendeva una stecca a metà di un brano. Anche se potevo scusargli il fatto di cantare canzoni dei Depeche Mode in un bar di biker, non era così per l’abbigliamento: indossava una polo a righe button-down e sembrava che fosse appena uscito dal negozio di Gap.

    «Allora, come ci è finito a fare un concerto qui, alla fine?».

    Annie non rispose. Con le mani incrociate, si muoveva a ritmo di musica sulla sedia. Alzai gli occhi al cielo e cercai con lo sguardo la cameriera, sperando che spuntasse al più presto. Stordirmi con l’alcol poteva essere una buona idea.

    Era una di quelle sere in cui non sopportavo di stare da sola. Se non fossi uscita, sarei andata in paranoia pensando alla mamma e alla telefonata di quel pomeriggio. Succedeva tutte le volte che ci parlavamo. Per fortuna di rado e con lunghi intervalli tra una chiamata e l’altra. Tirava sempre fuori le mie pecche, ricordandomi quanto fossi sbagliata come figlia. L’unica cosa che poteva farmi sentire meglio era ingollare un paio di bicchieri e avvinghiarmi attorno a un ragazzo carino che sapesse usare bene la lingua, e non per parlare.

    «Ho bisogno di bere», annunciai, rinnovando i miei sforzi per individuare una cameriera.

    Quando la canzone finì, riuscii ad attirare l’attenzione della cameriera e fare un’ordinazione. Non prese neanche nota. Osservando il locale, mi resi conto che non ci avrei trovato nessun ragazzo carino. «A che ora finisce di suonare?».

    Annie si strinse nelle spalle. «Boh, non so».

    Scoraggiata, sprofondai nella sedia, rialzandomi solo quando la cameriera tornò con la caraffa di birra.

    Avevo bisogno di tenermi su se dovevo rimanermene seduta lì mentre lei andava in estasi per Noah. Versai la birra in un bicchiere di plastica trasparente e la ingoiai velocemente, sentendomi subito più rilassata e meno infreddolita. Mentre tracannavo il secondo bicchiere, buttai l’occhio sul palco, soffermandomi sul batterista di Noah. Non male. Un po’ magrino ma aveva una bella capigliatura. Mi rivolse un sorriso e io lo ricambiai, alzando il bicchiere verso di lui mentre faceva un assolo non certo memorabile.

    Durante le successive canzoni continuai a guardarmi intorno, dedicandomi alla terza birra. Avevo imparato ormai da tempo che se incroci lo sguardo con quello di un ragazzo, questo lo prende per un invito. Per cui evitavo ogni contatto visivo a meno che non volessi conoscere qualcuno, il che non era il caso stasera. Non lì perlomeno.

    Neppure quando mi accorsi di lui.

    Santa figaggine. Un leggero brivido mi percorse mentre lo guardavo di sottecchi, attenta a non far trapelare nessuno sguardo lascivo. Continuai a bere, come per soffocare la sensazione che mi aveva pervaso all’improvviso. Era uno dei più giovani lì dentro, ma sicuramente più vecchio di me. Poco più che ventenne, probabilmente. Salutò diverse persone facendo cenni e alzando il braccio, un paio di manate sulla schiena di qualcuno. Gli lanciavo occhiate di apprezzamento, mentre continuavo a bere. L’alcol ci metteva del suo. Mi agitai un po’ sulla sedia, dentro di me di colpo tutto si stava risvegliando. Mi sentivo viva.

    Non potevo farci niente. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui. Era troppo figo. Della serie non mi faccio mettere sotto da nessuno. In altre parole, non certo il tipo che faceva per me. Però a guardare non c’era niente di male. Finché non si accorgeva che lo stavo sbirciando.

    Con il mento appoggiato sul palmo della mano, alzai il bicchiere e lo svuotai. Adesso mi sentivo decisamente bene. Mentre continuavo a controllarlo, mi sentii pervadere da un’euforia inebriante.

    Indossava un giubbotto da motociclista di pelle, attillato e consumato al punto giusto sulle cuciture e ai gomiti. Le lunghe gambe erano avvolte in un paio di jeans e attorno ai fianchi aveva una catena che partiva dal davanti e faceva il giro sulla schiena. Stivali da motociclista lo accompagnavano per il bar. Anche se era vestito nel modo giusto per l’ambiente, sembrava costruito.

    Il volto era arrossato e screpolato dal freddo. I capelli deliziosamente sollevati dal vento, con quel genere di taglio spettinato ad arte, più lungo sulla nuca e più corto sui lati, che tanti ragazzi al campus passavano ore a cercare di perfezionare. Nel caso suo ero invece quasi certa che non facesse altro che passarsi una mano tra i capelli quando si alzava la mattina. Sembrò a suo agio come fosse a casa sua quando si sedette su uno sgabello davanti al lungo bancone.

    La barista, una signora di una certa età con improbabili capelli rossi tendenti al porpora, si allungò da dietro al bancone e gli stampò un rapido bacio sulla guancia. Sì. Decisamente un habitué. Ulteriore conferma che dovevo smettere di fissarlo prima che mi notasse.

    Annie mi diede un colpetto con il gomito. «Dài, perché non gli fai una foto?».

    Girai lo sguardo stringendomi nelle spalle. «È carino», dissi mentre mi veniva il singhiozzo. Bleah. La birra mi faceva sempre venire il singhiozzo. Uno spiacevole effetto collaterale.

    Ho detto carino?. No, non carino. Arrapante da morire.

    «Allora, cosa stai aspettando?».

    Sollevai un sopracciglio.

    «Dài, su. Non vorrai mica lasciar passare un venerdì sera senza trescare con qualcuno, no?».

    Le lanciai un’occhiataccia. Anche se c’era una parte di vero in quello che aveva detto. Il suo labbro si arricciò come se stesse guardando qualcosa di strano sotto la sua scarpa. Ridicolo, per una come lei che non era certo un modello di pudicizia.

    «Devo andare in bagno». Aspettai un attimo, credendo che si sarebbe alzata per accompagnarmi. Non volevo andare in giro da sola in quel posto ma lei non si mosse. Ovvio. Non era come Georgia o Pepper che in un posto così avrebbero insistito per restare sempre insieme. Merda, se fossi stata con loro in una delle solite uscite non si sarebbero staccate da me. Erano brave ragazze. Le migliori amiche che avessi mai avuto. Ero fortunata ad averle incontrate. Ma stasera mi era toccata Annie, come adesso mi era penosamente evidente.

    Spostando il tavolo mi alzai con un sospiro. Per un attimo la stanza oscillò e dovetti posare le mani sul ripiano per riprendere l’equilibrio. «Torno subito».

    Con gli occhi fissi sull’insegna al neon della toilette, cercai di camminare in linea retta. Più o meno ci riuscii. Almeno credo. Ignorando i fischi volgari che mi furono rivolti, arrivai al bagno senza incidenti. Dentro c’erano due ragazze che si mettevano il rossetto allo specchio.

    Una si bloccò quando entrai, fermandosi con il cilindretto rosso appoggiato alle labbra. «Ciao, tesoro, mi sembri un po’ persa. Non è un posto che fa per te questo».

    Aveva sintetizzato perfettamente la situazione. Annuii e il movimento mi fece girare la testa, allora mi fermai e chiusi gli occhi. Quando li riaprii, ammisi: «Già, devo aver proprio preso la strada sbagliata». Una strada sbagliata che era iniziata salendo sulla macchina di Annie quella sera.

    La seconda ragazza si girò per esaminare il mio look, in jeans stretti e maglione. «Se fossi in te, tornerei in auto e andrei a cercare il

    TGI

    Friday più vicino». Scuotendo un dito, continuò: «Non è davvero un posto per te. Qui la situazione diventa turbolenta quando la serata si anima». Si guardò un orologio invisibile al polso. «Hai ancora un’oretta, più o meno».

    «Grazie. Non mi fermerò ancora molto». Almeno così speravo. Determinata a convincere Annie che era meglio alzare i tacchi al più presto, usai il bagno e mi lavai le mani.

    Uscendo dalla toilette, mi fermai di colpo vedendo una coppia che camminava incespicando nello stretto passaggio. Lui aveva una mano infilata sotto la gonna della donna, da cui spuntava un tanga. Sbattei più volte le ciglia, come per essere sicura di quello che vedevo. Il tipo l’aveva sollevata verso di sé, avvolgendosi una delle gambe della donna attorno alla vita mentre si lasciavano andare contro il muro. La gamba di lei sporgeva nel corridoio angusto, bloccandomi il passaggio. Mio Dio. Stavano per fare sesso proprio lì, fuori dai bagni.

    Erano piuttosto scatenati, tanto che le gambe della donna fendevano l’aria. Passare oltre era impossibile. Non senza rischiare di essere schiacciata contro la parete o venire infilzata da uno dei tacchi assassini della tipa. E i miei riflessi probabilmente non erano al meglio in quel momento. Non dopo quattro birre. O cinque?

    Osservavo la coppia pensando alla prossima mossa che avrei fatto. E fu in quel momento che lo notai, dall’altra parte del corridoio. O meglio, notai che lui aveva visto me.

    Non sembrava fare caso alla coppia tra di noi. Stava guardando direttamente me. Il suo sguardo scivolò sul mio corpo. Senza alcun pudore. Mi esaminò a fondo, da capo a piedi. Come se non sapesse cosa pensare di me. E sono sicura che non lo sapeva. Non ero la tipica cliente di Maisie. Non con i miei stivali neri alti fino al ginocchio, i jeans e il maglioncino di cashmere bordeaux. E con gli orecchini punto luce di diamante ai lobi, quelli che papà mi aveva comprato perché si era sentito in colpa lasciandomi da sola a Natale, per portare la sua amichetta alle Barbados. Però poi ha trascorso il capodanno con me. E io avevo fatto finta di non sentire la vocina che mi ricordava che era successo solo perché aveva rotto con la fidanzata, quando erano tornati dalle Barbados.

    Puntò gli occhi sul mio viso e potei vedere che erano di un caldo e profondo color castano. Era ancora più figo visto da vicino. E più alto di quanto non mi era sembrato prima. Essendo poco più di un metro e cinquanta, ci voleva poco per farmi sentire più piccola di chiunque altro, specialmente dei ragazzi, ma nel caso del bel motociclista la mia testa credo gli potesse arrivare a malapena alle spalle.

    Ricacciai subito il pensiero perché tanto era inutile. Non ci sarebbe mai stata l’occasione di stargli abbastanza vicino per poterlo verificare di persona. Non ero così stupida da andarmi a impegolare con tipi come lui.

    Rendendomi conto che lo stavo fissando proprio come lui fissava me, distolsi immediatamente lo sguardo. Sentii una vampata di calore al viso, già caldo di suo. Anche senza guardarlo, sentivo i suoi occhi addosso. Rimanemmo lì, con la coppia in mezzo a noi che continuava a pomiciare tra sospiri e gemiti mentre io cercavo di fare l’indifferente, come se la situazione non fosse imbarazzante. Come se non fossi in fibrillazione, malferma sulle gambe e pronta per essere sedotta da uno come lui.

    Gli lanciai un’altra occhiata. Era impossibile fare a meno di guardarlo.

    Non stava proprio sorridendo, ma gli si leggeva un’aria divertita negli occhi. Osservò la coppia e poi di nuovo me. Sì, aveva un’aria decisamente divertita. Arricciai le labbra, determinata a non attaccare bottone. Non c’era nessun bisogno che si facesse idee sbagliate su di me. Cioè che fossi il genere di ragazza che va in cerca di bei motociclisti arrapanti.

    Notai che si era creato un varco e ne approfittai. Strisciando dietro la coppia, che non smetteva di agitarsi, mi lanciai maldestramente oltre i due con i miei stivali col tacco alto. Il bel motociclista si voltò di lato abbassando lo sguardo su di me, quando i nostri corpi furono a distanza ravvicinata. Per fortuna il passaggio era largo abbastanza e non ci sfiorammo nemmeno. Grazie a Dio. C’erano parecchi centimetri tra di noi, il che non mi impedì però di notare che la cima della mia testa gli arrivava appena alle spalle. Era davvero alto. E se non fossi già stata ubriaca, stargli così vicino mi avrebbe fatta sentire… come effettivamente mi sentivo.

    I suoi occhi castani si posarono scintillanti su di me mentre passavo nella semioscurità. Continuai ad avanzare mostrando indifferenza, come facevo sempre quando avevo l’impressione di trovarmi davanti a un ragazzo che non ero in grado di gestire.

    Se nella mia mente sorgeva anche il minimo dubbio di non poter controllare un certo tipo… facevo sì che non accadesse. Punto.

    Mi feci strada rapidamente, resistendo alla voglia di voltarmi a guardarlo. Aveva ancora gli occhi puntati su di me. Lo sapevo. Sentivo come un pizzicore sulla nuca all’altezza del collo.

    Probabilmente si stava chiedendo che cavolo ci facesse una come me in un posto simile, da cui avrebbe dovuto stare lontana, molto lontana. O forse era solo quello che stavo pensando io?

    Tornata al tavolo, buttai giù un altro bicchiere di birra. «Quanto pensi che durerà ancora?», chiesi dopo qualche minuto.

    Annie sbuffò. «Non ti avrei portata se avessi saputo che poi diventavi così pallosa».

    «Non sapevo che saremmo venute in un posto del genere». Mi guardai attorno, approfittandone per cercare di vedere il bel motociclista. Non potevo resistere. Adesso era tornato al bar, stava prendendo una birra fresca dalle mani della barista e parlava a un tipo robusto più vecchio di qualche anno, in piedi vicino a lui.

    «Un posto del genere?. Ma ti sei sentita? La principessa Emerson ha parlato».

    Alzai gli occhi al cielo pensando a lei. Era il tipo che si cospargeva di brillantini alla pesca. Come se Campanellino le svuotasse sempre la borsa in testa. Tracannai tutta la mia birra e allungai il braccio verso la caraffa ormai quasi vuota per riempirmi un altro bicchiere. Mi sentivo la testa piacevolmente ovattata in quel momento, annebbiata e calda. Persino la band mi sembrava che suonasse meglio.

    Il batterista mi fece l’occhiolino, ricambiai con un sorriso. Sì. Poteva andar bene.

    Guardando in giro per la stanza, il mio sguardo si posò di nuovo sul bel motociclista. Come se avesse sentito che lo guardavo, si girò verso di me. Spostai subito gli occhi, con le guance in fiamme. Entra in modalità disinteressata, Em.

    Sentii una vampata di calore su tutto il viso, fino alle orecchie. Non era da me sentirmi così turbata da un ragazzo che mi guardava insistentemente. Doveva essere perché lì ero totalmente fuori dal mio elemento.

    «Cos’hai? Sembri strana. Hai adocchiato qualcuno?»

    «No, nessuno». Scossi la testa ma dovetti fermarmi subito e portare le dita alle tempie, per far sì che la stanza smettesse di girare.

    Annie si guardò intorno per vedere chi c’era, chiaramente non mi credeva. «Ah ah». Mi voltai un momento per seguire il suo sguardo, sentendomi sprofondare. Lo aveva visto. Chi altri avrei potuto guardare in un posto del genere? Non c’erano molte alternative. «Di nuovo lui, eh?»

    «Cosa?», feci con indifferenza.

    «Ma dài. Non cercare di far finta di non averlo visto. Certo che l’hai notato. È il più figo che ci sia qua dentro».

    Scrollai le spalle e bevvi un altro sorso. «Va bene. L’ho notato. Ma non è il mio tipo».

    «Un motociclista bello e dannato, che sia il suo tipo o no, è il genere che piace a qualsiasi donna. O perlomeno sono pronta a scommettere un cocktail che sia così». Fece una risatina che mi diede ai nervi.

    «Be’, insomma, non sono interessata a scoprirlo». Buttai giù un lungo sorso. «Probabilmente fa parte di qualche banda di biker».

    Annie si girò sulla sedia per studiarlo meglio. «E scommetto che è anche bravo a letto. Potrebbe insegnare un paio di cosette ai ragazzi del college cui siamo abituate, eh?». Mi diede una gomitata sul fianco. «Non mi spiacerebbe metterlo alla prova».

    «Non sei venuta qui per Noah?», le ricordai, irritata per il livello di interesse nella sua voce. In un certo senso mi ero dimenticata di quanto fosse libera in fatto di… ehm, costumi. Anche la mia reputazione impallidiva al suo confronto.

    «Noah è impegnato in questo momento». Agitò lievemente le dita facendo un piccolo

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