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L'anello di Hellcity - Vol.2
L'anello di Hellcity - Vol.2
L'anello di Hellcity - Vol.2
E-book228 pagine3 ore

L'anello di Hellcity - Vol.2

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Info su questo ebook

In fuga da HellCity, la città-regime videosorvegliata e protetta da mura di cemento, Jayson riesce a superare il muro della paura e del cambiamento, mettendo in discussione tutto ciò che gli era stato imposto dal regime totalitario. Tuttavia sarà la natura a ridargli la pace attraverso la potenza del momento presente.
Un testo forte e introspettivo che accompagna il protagonista Jayson nel suo personale sviluppo evolutivo. Un viaggio fisico, un percorso spirituale di crescita e consapevolezza. Jayson è dentro di noi e noi siamo connessi con l’universo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2020
ISBN9788835826071
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    Anteprima del libro

    L'anello di Hellcity - Vol.2 - Francesco Di Giulio

    Rosanautica

    I

    Vieni con me

    L’assenza del suo palmare era un pensiero costante.

    Jayson era confuso, spaesato. Gli sembrava di non avere più un arto, come se qualcuno glielo avesse strappato. L’incontro con Joe, l’uomo che fu salvato da suo padre, aveva illuminato il lato oscuro e sconosciuto della sua anima. Avvertiva di aver vissuto fino a quel momento una vita finta, fatta di aspettative ingannatrici e falsi miti.

    Uscendo da quella stanza segreta sentiva la mente carica di responsabilità e, nello stesso tempo, si percepiva nudo, indifeso.

    Mentre scendeva velocemente le scale dell’Opificio_9, portò istintivamente la mano all’altezza del petto per proteggere il palmare dai balzi, ma non lo trovò. In quel momento si rese conto di essere un vero rivoluzionario intenzionato ad affrontare ogni imposizione o regola emanata o intimata. La testa gli girava vorticosamente, non aveva ancora idea di quali conseguenze si sarebbero scatenate, ma sapeva che stava combattendo qualcosa più grande di lui e che doveva resistere.

    Basta essere consapevoli degli eventi per prenderci ciò che vogliamo e che meritiamo pensò.

    Fino a quella mattina era stato un operaio della città, diligente, allineato, indottrinato, sicuro di quello che aveva, grato per quello che la città gli offriva, magari non felice ma senza dubbio certo di ciò che quella vita gli stava concedendo. Ora portava un machete di mezzo metro dietro la schiena, una sacca con degli oggetti comuni che non conosceva affatto, ma che lo avrebbero condotto chissà dove e aveva del cibo vero. Se qualcuno lo avesse scoperto in quel momento lo avrebbe incriminato di tradimento, di cospirazione e fuga, accuse che gli sarebbero costate il carcere a vita, isolamento diurno e notturno all’interno di dieci metri quadri senza finestre. La follia sarebbe arrivata presto annientandolo, appiattendo ogni sua capacità cognitiva. In mesi e mesi di torture sarebbero riusciti a fargli tradire il sistema, del quale Joe era a capo. Non poteva permettersi di rovinare tutto l’organizzazione per cui suo padre era scomparso.

    L’obiettivo primario e fondamentale era fuggire dalla città. Si infilò in un vicolo sperando di sfuggire alle telecamere, e senza aver controllato con precisione l’area di interesse si sedette nel buio di un angolo. Aprì la sacca, estrasse la mappa. Sapeva di essere nella zona Sud e controllò alcuni riferimenti del posto, il vecchio campo di hockey, l’antico ponte Free Now con i suoi pilastri in rovina. Orientandosi così, sapeva che il centro della città si trovava alla sua sinistra a dieci minuti di cammino e che, se avesse svoltando dietro la vecchia Tower Day per poi addentrarsi nel buio sarebbe arrivato alle mura perimetrali in meno di un’ora.

    Era fermo, immobile, analizzava tutto. Era solo e tutto quello che avrebbe deciso, avrebbe condizionato il suo imminente futuro e quello di suo fratello Pete. D’improvviso la sua mente ebbe un impulso, un istinto. Forse una decisione stupida e inappropriata, ma sentiva che doveva farlo, era giusto. Senza troppi indugi si mosse, seguendo il cuore. Nascose la sacca di canapa beige e il machete con la fondina, dentro un cassonetto vuoto. Nel farlo si fermò a riflettere sull’anello del padre che portava sulla destra. Metterlo nella sacca rischiando di perderlo per sempre oppure tenerlo su correndo il pericolo di attirare l’attenzione di qualcuno? Lo sfilò dall’anulare e lo infilò nella tasca interna, quella dove avrebbe dovuto esserci il palmare. Sorrise considerando che in quella tasca, che per anni aveva contenuto tutti i dati della sua subordinazione, ora vi infilava l’oggetto che custodiva ogni suo sogno di libertà.

    Chiuse il cassone di ferro, si alzò e si diresse verso l’Opificio_2. Il luogo dove sapeva che avrebbe trovato l’amico Geoffrey. Doveva andare da lui, avvertirlo della sua imminente partenza. Era consapevole che perdere ulteriore tempo e recarsi lì fosse un rischio enorme. Avrebbe potuto fuggire ora, aumentando tempo e distanza tra lui e le guardie, che si sarebbero accorte della sua assenza poco dopo l’alba. Ma non poteva andare via senza avvertire Geoffrey.

    Attraversò le vie cittadine poco illuminate. I lampioni emanavano una luce fioca e rischiaravano poco le strade e i vecchi marciapiedi. Le telecamere, con il loro ronzio, si muovevano seguendolo come un predatore scruta le mosse incaute della vittima. Jayson a testa bassa, non temeva alcunché. Nessuno mai lo aveva fermato per strada per una perquisizione o per un controllo. Incontrò due ragazzi che arrivavano in senso opposto. Parlavano animatamente così ad alta voce che non poté fare a meno sentire: «Certo che è così! Hai ancora dubbi?».

    «No. Non ho dubbi solo che vorrei anche io far parte del Nucleo Alfa. Ma sembra impossibile!».

    «Guardie armate del Governatore! Che sogno!».

    «Conosco un ragazzo che una volta è riuscito a parlare con uno di loro… Ha detto che sono tipi duri!».

    «Magari un giorno ci riusciremo!».

    Jayson vide nei due un atteggiamento di orgoglio e di fierezza per qualche cosa che nella sua mente si stava definendo marciume. Due droni sfiorarono la testa dei ragazzi. Le macchine autocomandate avevano sostituito, nel tempo, le funzioni di controllo delle sentinelle; sostituite da telecamere e droni, i pattugliamenti a piedi venivano effettuati con over board elettronici.

    HellCity era controllata da macchine prive di emozioni e scevre di intelligenza umana, macchine preposte al controllo dei cittadini.

    Macchine usate come prova, schiacciante e inappellabile: il governo elaborava spietate sentenze e condanne, sfruttando i dati dei macchinari o una foto, un video. Senza possibilità di appello o di difesa. Le macchine a livello sociale erano considerate superiori all’uomo. Risultava inutile tentare di sconfessare una prova a proprio sfavore, la condanna era automatica, non esistevano processi o gradi di giudizio. La difesa, il principio alto dell’equità e della giustizia non erano contemplati. L’evoluzione stava rallentando a discapito della creatività, dell’amore, delle emozioni, tutto era imbrigliato negli ammassi di fili e di metallo, di una fredda e spietata intelligenza artificiale. Nonostante fossero alle soglie del ventiduesimo secolo lo sviluppo tecnico informatico e robotizzato non era poi così avanzato come previsto, la causa era dovuta al rallentamento che l’ultima guerra nucleare aveva creato. Questo probabilmente era un bene.

    Jayson arrivò davanti l’Opificio_2. La sua mente che stava per intraprendere un viaggio verso la libertà e l’ignoto doveva fingersi ancora prigioniera, limitata dalle mura cittadine. Davanti l’ingresso, come previsto, si trovavano due uomini della sicurezza. Istintivamente Jayson infilò la mano nella tasca all’altezza del petto, ciò che trovò fu un anello freddo che lo riportò alla realtà. Come avrebbe potuto accedere senza esibire il palmare al lettore di controllo? Sapeva che le regole della città erano rigide e le trasgressioni improbabili.

    Loro sanno che nessuno può trasgredire, pensò.

    Con ritrovata convinzione tentò di distrarre i vigilanti. Si chinò in terra, prese due pietre pesanti. Si avvicinò cercando di tenersi a una distanza tale da non destare sospetto. Mentre i due vigilanti erano intenti a parlare tra loro, lanciò il selcio verso una vetrata alla sua sinistra. Il fracasso attirò l’attenzione dei due uomini che, come previsto da Jayson, lasciarono la loro postazione per controllare cosa fosse accaduto. Jayson gli fu alle spalle, con l’ingresso completamente libero. Fu in quel momento che lanciò un secondo sasso, per confonderli ancor di più. Nessuno lo notò mentre entrava indisturbato all’interno dell’Opificio_2.

    «Idioti», mormorò con la soddisfazione stampata sulle labbra. Anche questo centro di aggregazione aveva una palestra ben fornita. Prima di entrare incontrò Phooly, un ragazzotto di diciannove anni che passava ogni momento possibile tra funi, sacchi da boxe, guantoni e manubri.

    «Ehi Phooly! Come va?».

    «Tira bene Jayson! Alla grande. Non ti alleni oggi?».

    «No. Oggi riposo. Hai visto Geoffrey per caso?».

    «Sei matto? È intollerante alla fatica quello!».

    «Ahahah. Se mi assento un attimo mi sfugge sempre quel ciccione! Stammi bene».

    Jayson si allontanò dando una pacca sulla spalla a quel ragazzotto palestrato che, mentre gli parlava, allungava i nervi del collo e saltellava come avesse l’impellente necessità di pisciare. Jayson si diresse verso la sala giochi nella quale vecchissimi biliardi e flipper sembravano non aver mai subito l’incedere del tempo. Entrò. Qualcuno lo salutò con un cenno del capo. Altri così impegnati a divertirsi non si accorsero nemmeno che la porta fosse stata aperta. Di lato, sulla destra, piegato a novanta gradi sopra un tavolo color rosso vide il culone di Geoffrey Flip.

    «Allora? Te lo vuoi scommettere il culo?» ripeteva sfidando il vecchio Mert, intento a fare quello che lui considerava senza dubbio il tiro della vita. Jayson sognò per qualche istante un mondo libero, felice, privo di assurde leggi. Il colpo sulla pallina fu forte preciso, tanto da distogliere Jayson da quei ragionamenti. Il boccino bianco carambolò sul numero otto che andò in buca centrale. Geoffrey esultò come un bambino alzando le braccia e lanciando sul tavolo di gioco la stecca in legno. Mert si mise a ridere insieme a lui.

    «Avete visto? Pollastri che non siete altro!».

    Si voltò e vide l’amico di sempre.

    «Ehi JayJay! Hai visto che colpo? Cazzo!».

    «Ahahah. Sì, ho visto, ho visto amico mio».

    Geoffrey si avvicinò ridendo, dando spettacolo e camminando atteggiandosi come spesso accadeva e quando gli passò vicino sussurrò sottovoce: «Seguimi».

    Si sedettero a un tavolo defilato e si parlarono senza guardarsi in faccia, scrutavano ogni persona nel locale.

    «Hai incontrato Joe?» esordì diretto Geoffrey.

    «Sì. Ma tu come fai a conoscerlo?».

    «Non lo conosco. Non l’ho mai visto. Cosa ti ha detto?».

    «Dovremmo salutarci, per ora. Non so per quanto tempo…».

    «Temo per sempre amico mio» fu quello l’unico momento in cui si guardarono negli occhi e il tempo lì si congelò.

    «Come sarebbe per sempre?» reclamò Jayson.

    «Se fuggi da qui, come pensi che la prenderanno i bestioni qua dentro? Non credi che succederà il finimondo?».

    «Allora vieni anche tu con me. Aiutami a fuggire. Cosa abbiamo da perdere?».

    «No, amico mio. Tu hai uno scopo, hai un obiettivo. Io per quale motivo dovrei farlo?».

    «Per quale motivo? Vuoi vivere questa vita? Joe mi ha parlato di un mondo totalmente diverso da qui, siamo sotto l’effetto delle pillole che ci costringono ad assumere, con conseguenze negative sulla memoria. Conosceva mio padre! Mi ha illuminato e chissà quanto altro c’è da sapere».

    «Fermati amico mio. Fermati. Molte cose le so anche io. Ma non me la sento. Non ci riuscirei».

    «Geoffrey, come le sai anche tu? Perché non me ne hai mai parlato?».

    «Assumo la metà dei medicinali che ci passano. Ogni mattina cerco di prenderne sempre meno. Quando esco dall’unità abitativa ne sputo parte. So che è merda, questo squilibrio mi sta creando delle controindicazioni. Ma preferisco morire così che soffocato dallo sterco. Lo so che qui è tutto sbagliato, lo so che non stiamo nella parte giusta del mondo, anche io ho il sospetto che ci sia altro, credo che ci sia un mondo differente, forse migliore, ma non me la sento di uscire da qui. Chiamami pigro, chiamami coglione, mi sono adattato, mi sono arreso. Ed è la cosa che più odio. Che non sopporto di me».

    «Cazzo Geoffrey ma…».

    In quel momento si avvicinò Mert, che senza chiedere il permesso si sedette tra loro, abbracciandoli e borbottando sulla sconfitta appena incassata: «Ti fai una giocatina Jayson?».

    «No grazie Mert. Devo andare».

    Geoffrey abbassò la testa fissando il pavimento, le mani erano giunte appoggiate alle sue ginocchia, poi prese fiato e forza, per salutare l’amico.

    «Ci vediamo domani JayJay».

    II

    Salta quel muro

    Una forte tramontana sibilava tra i pilastri dei palazzi emettendo un suono tetro, come se quei luoghi avessero compreso le intenzioni di Jayson e lo stessero incoraggiando a scappare. Jayson arrivò nella zona Sud. Aprì lo sportello del cassone. Un enorme display indicava le 00.04 del suo primo giorno da fuggitivo. Joe aveva programmato l’uso del palmare affinché avesse copertura fino alle 7.30, dopodiché avrebbe perso il controllo della situazione. Meno di otto ore prima dell’allarme, prima che il comparto sicurezza potesse scoprire la sua assenza dal posto di lavoro e indagare sulla fuga.

    Chiuse la cerniera lampo della sua giacca di pelle nera, si inginocchiò per stringere i lacci degli stivali, prese il machete, la borsa di canapa. Indossò l’anello nell’anulare. Alzò lo sguardo in direzione delle mura. Una fitta boscaglia lo attendeva ed era quel bosco che Joe gli aveva vietato di affrontare. Muoversi verso Nord sarebbe stato più sicuro. Non poteva però attraversare il centro cittadino così armato, lo avrebbero intercettato tramite telecamere o droni. Fu l’immagine del fratellino legato, imprigionato dentro una gabbia fatta di rami intrecciati e canne di bambù che lo fece muovere senza esitazione. Subito dopo l’alba avrebbe avuto tutta la sorveglianza dietro il culo e più avrebbe atteso più gli sarebbe stata vicino. Si mosse. Volse lo sguardo un’ultima volta verso i palazzi della città cupi e anonimi, verso quel luogo tetro che risucchiava emozioni e sogni. Davanti a lui si apriva uno spazio aperto, un vuoto, l’incognita di ciò che sarebbe stato il suo imminente futuro. Avanzò a passo spedito verso la zona più libera, più impervia. Camminava a testa bassa fino a quando l’asfalto diventò terriccio battuto, il terriccio battuto divenne terra, e la terra divenne erbaccia incolta. Sapeva che si stava dirigendo in direzione opposta a dove si trovava presumibilmente suo fratello ma era l’unica alternativa percorribile. Da troppi anni non poteva prendere una decisione in maniera autonoma, come ogni altro cittadino di HellCity. Aveva vissuto giornate preconfezionate, organizzate da schermi e altoparlanti. Nessuno si era mai chiesto cosa sarebbe accaduto se qualcuno non avesse rispettato le regole. Per Jayson interrogarsi era già un atto rivoluzionario.

    Dopo circa venticinque minuti di cammino trovò un grande avvallamento. Centinaia di piccoli ciottoli rotondi ben levigati risplendevano come piccole stelle, sotto la luna. Si fermò e, studiando ciò che lo circondava estrasse la bussola e la mappa per muoversi con più precisione. Quella grande vallata non poteva essere che il fondale di un lago prosciugato, Sugar Lake, così era indicato sulla sua mappa risalente a quindici anni prima. Si trovava esattamente a metà del suo cammino. Gli restava ancora mezz’ora scarsa all’arrivo del primo grande ostacolo da superare. Non aveva timore e non si chiedeva come avrebbe affrontato la scalata del muro. Riprese il cammino con passo ancor più veloce. Il terreno iniziava a farsi più duro e aspro. Risalì la vallata, sino all’argine Sud-orientale del lago. Grosse pietre rendevano il tragitto più complicato. Nonostante gli stivali, rigidi sulle caviglie, non era semplice muoversi in quell’ombroso camminamento.

    Nel percorrere in modo convincente quello che sarebbe stato il tragitto della libertà, ripensò all’incontro con Joe e a quel mondo assurdo nel quale viveva, o era assurdo il mondo di HellCity?

    La serenità di quell’uomo, la pacatezza, la calma erano sensazioni che non rivedeva nelle anime di HellCity. Anzi esattamente l’opposto, ed era ciò che tutti erano costretti a vivere. Joe viveva in uno stato mentale libero, autonomo, era un essere sereno. Probabilmente la salute mentale dipende dalle percezioni che abbiamo dell’ambiente che ci circonda, pensò frastornato.

    Fece delle considerazioni critiche e malinconiche su quello che per anni era stato costretto a subire. La totale riverenza nei confronti degli uomini potenti della città, il timore da una parte e il profondo rispetto dall’altra per individui che si sentivano superiori solo per il ruolo ottenuto. Se avesse potuto vedersi dall’esterno si sarebbe immaginato piccolo, piccolissimo nella sua stupidità.

    Quel modo di vivere dava l’illusione di uno stato sociale sicuro, in realtà era una menzogna che li portava a una inconsapevole schiavitù. Una schiavitù perenne. Chi non ha modo di esprimersi nella propria arte, nell’amore, nei sorrisi, nel pensiero, nelle proprie opinioni, è schiavo perché non riuscirà mai comprendere l’esistenza di alternative. Non vedrà altri colori, o sentirà altri profumi, perché crederà che il mondo in cui vive, sia l’unico e vero, l’unica realtà possibile, per la quale persino ringraziare quotidianamente chi esercita il controllo. A HellCity gli uomini della sicurezza sono esempi da seguire, ci sono ragazzi che sognano di diventare come loro, ci sono uomini che sperano di poter incontrare il Governatore per stringergli la mano, come se un gesto del genere potesse migliorare la vita.

    «Che schifo!» esclamò convinto. I miei concittadini non riusciranno mai a liberarsi perché inconsapevolmente proteggono il loro padrone e forse morirebbero per lui. Mi hanno rubato troppi anni della mia vita e di quella di molti miei amici, in cambio di cosa? Di nulla. Viviamo con la minaccia di un continuo e persistente fantasma che aleggia su di noi in attesa di compiere chissà quale gesto. È possibile che nessuno si sia mai accorto di questo? È possibile che nessun uomo si sia mai fermato un secondo a riflettere, abbia mai acceso per un attimo il cervello e abbia compreso che stiamo vivendo come burattini?.

    Si discostò per qualche istante da quel ragionamento illuminante, comprese che stava rapidamente e in maniera inaspettata, recuperando brandelli di memoria e conoscenza passata, si rituffò in quel suo pensiero prima di perderlo del tutto, prima di farlo svanire come una nuvola si dissolve al primo vento.

    L’idea del terrore e dell’imminente arrivo di una catastrofe fa più paura della catastrofe stessa.

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