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E-book358 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Una giovane rom sparisce dopo essere stata sorpresa durante un tentativo di furto, perpetrato in compagnia del fratello, presso l’abitazione di un noto chirurgo fiorentino. I due ragazzi poco prima avevano rubato una pistola nascosta in un furgoncino parcheggiato nel vialetto. La stessa pistola che si rivelerà usata per commettere un omicidio a Torino.
E ancora, il chirurgo pare essere in possesso di un quadro del pittore olandese Van Dongen, che risulterebbe di proprietà di uno dei più chiacchierati politici italiani. Dipinto che sembra avere il dono dell’ubiquità, nonché probabile movente di un omicidio avvenuto negli stessi giorni a Firenze.
È solo casualità? Oppure si tratta di misteriose coincidenze tra eventi apparentemente inspiegabili?
Sullo sfondo della vicenda si muove il torbido mondo dei predatori di opere d’arte.
Prospero Gennaro, capo della Mobile fiorentina, dovrà fare i conti non soltanto con queste strane coincidenze, ma anche con una potente organizzazione criminale, e persino con esponenti delle istituzioni che cercano di metterlo a tacere.
Giallo intrigante, che propone una riflessione mai banale sulla vera natura del male.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2020
ISBN9788832926828
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    Anteprima del libro

    Non è un caso - Jacopo Chiostri

    uccisi.

    Prologo

    31 ottobre 2019

    Il commissario Prospero Gennaro si trovava con Luigi De Fortis in uno dei bar della centralissima piazza della Repubblica, il cuore di Firenze.

    Con De Fortis, suo predecessore a capo della squadra Mobile, dopo il passaggio delle consegne, avevano preso l’abitudine di vedersi di quando in quando, e quello, per un tacito accordo, era diventato il loro bar.

    Era una tiepida giornata di fine ottobre e De Fortis, che si era trasferito da poco in una collina del Mugello ma già si dava arie di esperto di cose di campagna, stava spiegando a Gennaro come da certi segnali si capiva che avrebbero avuto un inverno particolarmente freddo.

    Che cosa farai se sarà davvero così, ti chiuderai in casa, in letargo come un tasso? aveva chiesto Gennaro, divertito da come l’altro fosse convinto dell’attendibilità di quei segnali.

    Chissà forse scriverò un libro, è tanto che ci penso, aveva riposto De Fortis e Gennaro si era lasciato sfuggire un commento: Anche te!

    De Fortis si era stretto nelle spalle, con un unico sorso aveva dato fondo al suo bicchiere e aveva iniziato a illustrare cosa aveva in mente, e perché il libro sarebbe stato diverso dagli altri.

    Conosci la differenza tra casualità e sincronicità? È quest’ultima che m’interessa. Sarà il filo conduttore del libro.

    Fu in seguito che Gennaro ripensò a quanto era stato detto. Cercò anche di ricostruirlo, ma ricordava solo delle mezze frasi. Quella sera aveva ascoltato le prime parole, poi aveva spento l’audio e, mentre l’altro parlava, si era distratto a seguire il passaggio della gente che si muoveva in più direzioni nella grande piazza.

    D’altra parte non poteva immaginare che di lì a breve si sarebbe trovato a condurre un’indagine in cui eventi, forse, solo apparentemente casuali ebbero un ruolo sostanziale.

    Fu risucchiato in una storia di sangue, depistaggi e sconfitte, che gli lasciò parecchie cicatrici.

    4 novembre 2019.

    Prime ore del giorno, Torino, quartiere Crocetta

    Col procedere della notte una nebbia compatta era scesa a coprire la città, i lampioni stradali si erano come allontanati e non riuscivano più a illuminare il tratto di strada di loro competenza.

    Lungo le strade del quartiere, i grandi palazzi sembravano disabitati, e il chiarore prodotto da qualche vetrina creava un’atmosfera spettrale alla quale contribuiva la luce verde di un tabellone luminoso che s’incontrava in un certo punto. Sullo schermo si leggeva che erano le due e mezzo e che la temperatura era di sette gradi.

    Il display si aggiornava regolarmente ma il suo era un lavoro inutile perché in giro non c’era nessuno e anche l’unico mezzo che transitava da quelle parti, un furgone bianco senza insegne, proseguì la marcia senza che i quattro uomini a bordo si curassero di quelle cifre. Del resto era novembre e a Torino nel mese di novembre una simile temperatura rientra nella norma, e che era tardi lo avrebbe confermato a un pedone distratto il deserto per strada e il buio delle abitazioni.

    Quel vuoto, che aumentava il pericolo di essere intercettati, preoccupava Egisto Svank.

    Svank, pregiudicato per reati contro il patrimonio, sedeva nel furgone accanto al guidatore e continuava a darsi dell’idiota per avere accettato il lavoro di quella notte.

    Sul posto dove erano diretti aveva individuato parecchie variabili affidate al caso, e oltretutto quel furgone in giro a tarda notte in un quartiere residenziale aveva le stesse possibilità di passare inosservato che ha la Mole Antonelliana quando si sorvola Torino.

    Svank aveva fatto presente le sue perplessità al committente, ma la risposta era stata che il posto era sul punto di essere svuotato, quindi non si poteva rimandare: gli acquirenti c’erano e aspettavano la merce. Non aveva potuto tirarsi indietro.

    Al punto di ritrovo, un garage in disuso dalle parti di Mirafiori Nord, erano montati sul furgone parlando a voce alta e facendo battute. Adesso che il furgone si avvicinava all’obiettivo se ne stavano muti, di quando in quando davano un’occhiata all’esterno, quindi tornavano a seguire i propri pensieri.

    Forse qualcuno stava pensando a come avrebbe speso il denaro che contava di ricavare dal lavoro di quella notte, forse un altro al rischio, sempre presente in quel tipo d’imprese, di trovarsi a breve a marcire in una cella: sebbene fosse carico di tensione, Svank preferiva quel silenzio che gli permetteva di concentrarsi su un qualcosa, cui non riusciva a dare forma, che gli stava lanciando dei messaggi di allerta e voleva decifrare prima di mettersi in azione.

    Era iniziato nel pomeriggio, prima sotto forma di una fastidiosa emicrania, poi con un velo di malinconia che si era impadronito dei suoi pensieri.

    C’era un’immagine, probabilmente accompagnata da un sonoro, che doveva ricordare. Fino a quel momento non ci era riuscito, e il tempo stava per scadere.

    Svank era sotto tensione, con i nervi a fior di pelle. Anche il guidatore che teneva il mento all’altezza del volante nell’illusione di avere una migliore visibilità, lo innervosiva. Aveva provato a dirgli qualcosa poi aveva lasciato perdere. Piuttosto fece mentalmente due conti, e stabilì che, se tutto andava per il verso giusto, da quel momento in meno di mezz’ora potevano essere fuori. La conclusione lo rasserenò.

    Controllò l’orologio e fece un cenno con la mano al guidatore.

    Alla prossima, disse, devi girare a destra, ma non entriamo subito. Prima ci facciamo un giro dell’isolato e controlliamo se è tutto tranquillo.

    L’autista rispose con un cenno del capo e un grugnito.

    Raggiunsero il palazzo che cercavano e gli sfilarono davanti a velocità ridotta. Tutto sembrava inerte, il palazzo era immerso nella quiete della notte e dalle grandi finestre affacciate sulla via non trapelava alcuna luce.

    Passarono oltre.

    L’abitazione obiettivo della loro incursione, una palazzina su due piani, si trovava arretrata di un centinaio di metri rispetto al palazzo che invece dava sulla strada. Tra i due edifici c’era un bel giardino con alcuni alberi e una grande vasca con pesci rossi e un putto in pietra serena che sputava acqua dalla bocca. Loro sarebbero entrati dal passo carrabile adiacente al portone usando un telecomando che era lì sul cruscotto: se il contatto fosse stato di parola non ci sarebbero stati problemi.

    Subito dopo veniva un passaggio delicato.

    Superato il portone, s’incontrava un andito coperto sul quale si affacciava l’unica finestra della portineria. Da lì dovevano prima proseguire lungo un vialetto asfaltato che raggiungeva la zona parcheggio, per poi arrivare sul retro della palazzina dove sarebbero stati al sicuro.

    La pianta dell’abitazione la conoscevano a memoria, sapevano quali erano i quadri da staccare dalle pareti e dove si trovavano gli altri arredi. Data l’ora era probabile che il portiere stesse dormendo, ma Svank non era abituato a lasciarsi alle spalle un potenziale pericolo: una volta entrati, sarebbe tornato indietro a controllare.

    Tutto tranquillo, che te ne pare? chiese l’autista.

    Parrebbe di sì, gli rispose Svank che continuava a scrutare all’esterno.

    Allora si va?

    No!

    Fu quasi un urlo. I due uomini seduti dietro si guardarono.

    Vai, vai!

    L’autista, che non capiva, sembrò sul punto di fermarsi e Svank gli assestò una pacca sulla testa.

    Non ti fermare, ripeté.

    Il furgone raggiunse un incrocio da cui si poteva svoltare a destra o a sinistra. Loro avrebbero dovuto girare a destra. Invece Svank ordinò di svoltare nell’altra direzione.

    Fermati là, disse.

    Con un braccio indicò uno spazio libero più avanti, in prossimità di due cassonetti per l’immondizia.

    Li raggiunsero in silenzio, poi Svank ordinò: Spengi il motore.

    L’autista obbedì, e si voltò verso di lui.

    Poi mi spieghi.

    Poi ti spiego, e voi togliete i guanti, dammi il telecomando e passatemi la borsa.

    Senza dire un’altra parola, afferrò tutto quanto e scese. Si diresse al cassonetto più vicino, e vi occultò dietro la borsa e il resto.

    Non muovetevi, disse affacciato al finestrino del guidatore.

    Lo videro allontanarsi a passo svelto, e lo seguirono con lo sguardo mentre camminava rasente a un muro finché sparì dalla vista.

    All’interno del furgone rimasero in silenzio per una ventina di minuti, quanti ne occorsero prima che facesse ritorno. Svank recuperò la borsa e gli indumenti e una volta a bordo ordinò all’autista di mettere in moto e di allontanarsi.

    Aveva il fiato corto. Il furgone partì, Svank si lasciò andare sul sedile poi disse: Ci aspettavano.

    Ci aspettavano? chiese uno dei due seduti sul sedile posteriore. Che vuoi dire?

    Prima, quando abbiamo girato, ho notato un furgone, bianco come il nostro, era parcheggiato dieci metri dopo la curva. Quando lo abbiamo affiancato, ho visto una fiammella traverso il finestrino e per un attimo una figura seduta al posto di guida, segno che dentro c’era qualcuno che si accendeva una sigaretta. Poco fa gli sono passato di fianco e ho avuto la conferma: dentro c’era gente che parlava.

    Svank fece una risata nervosa poi alzò le braccia, congiunse le mani e si stirò.

    Nel mezzo scese il silenzio.

    Magari erano una coppia che pomiciava...

    Erano voci di uomini, e non stavano pomiciando.

    Come lo sai che erano lì per noi?

    Lo so, fidati. Ora torna tutto.

    A ogni modo hai corso un bel rischio...

    Svank fece ancora una risatina nervosa, segno che la tensione non era passata.

    Perché? Anche se mi avessero fermato cosa avrebbero potuto farmi? Al più mi avrebbero condotto in questura, poco male, era un rischio calcolato, a loro interessava coglierci sul fatto, ci avrebbero preso mentre uscivamo con la roba.

    "Va bene, ora però ci spieghi perché dici torna tutto."

    Era l’unico rimasto fino allora in silenzio. Un biondino con il muso di faina, aggregato alla banda per quel colpo. Lui era l’esperto di elettronica e il suo compito sarebbe stato di mettere fuori uso l’impianto di allarme e di verificare se ve ne fossero altri. Aveva con sé un’attrezzatura non più grande di un telefono cellulare, ma del valore di quasi ventimila euro; per questo, quando aveva intimato ai compagni di consegnarli gli arnesi da scasso e gli indumenti, Svank non se l’era sentita di chiedergli di sbarazzarsene.

    Quel rigattiere di merda. È lui che ci ha venduti, disse Svank.

    Ponticelli?

    Sì, quel testa di cazzo lì. Ora capisco perché ci teneva a conoscere i dettagli del furto: doveva comunicarli agli sbirri. È da questo pomeriggio che ci sto pensando, e non c’ero arrivato.

    Sei sicuro?

    Sicuro sì, anzi ora che mi ci fai pensare c’è anche un altro particolare che avevo in testa. Prima non mi veniva in mente. L’ho capito ora. L’altro ieri quando sono passato e gli ho chiesto dopo quanto voleva che gli portassimo i quadri e tutto il resto non mi ha risposto, e questa è una novità, non era mai successo, ha sempre preteso di mettere un po’ di tempo tra i furti e la presa in consegna della merce. Ha detto così perché non importava, tanto sapeva che non gli avremmo portato un bel niente: saremmo finiti prima al fresco.

    Nel furgone scese il silenzio. Erano arrivati a destinazione, il garage da dove erano partiti. La tensione e la stanchezza si facevano sentire. Erano quasi le quattro del mattino. Il primo a riprendere il discorso fu l’autista.

    E un’idea del perché lo avrebbe fatto ce l’abbiamo? chiese.

    La droga. Quel testa di cazzo da un po’ di tempo non si accontenta più di sniffare, la commercia pure, la prende da certi nigeriani che stazionano nella sua zona, ce n’è uno a ogni angolo di strada: arrotonda. Probabile che lo abbiano individuato e questa sia la merce di scambio.

    Il furgone era fermo. I quattro si apprestavano a scendere. Svank guardò i compagni uno a uno.

    Sì, penso proprio che sia andata così, disse a mo’ di congedo.

    La notte si chiuse su quella frase. Tutto sommato, dal loro punto di vista, avevano avuto fortuna. Mentre si salutavano, ciascuno seguiva pensieri suoi. Svank stava pensando a Ponticelli.

    Ponticelli era un idiota: come poteva sperare di consegnarli alla polizia e di farla franca? Toccava a Mario Petroso decidere come regolare i conti.

    10 novembre 2019.

    Torino, Stazione Porta Nuova

    Esattamente una settimana dopo il colpo mancato a La Crocetta, il Frecciarossa delle nove e cinque si mosse in perfetto orario. Il treno era completo. In classe business, tra gli altri, erano saliti due uomini, i quali non avevano dato modo di pensare che si conoscessero, che sedettero distanti l’uno dall’altro. Il treno fece una prima tappa alla stazione Milano Centrale, poi riprese la sua corsa e penetrò nella pianura Padana.

    Antonio Imparato, comodamente seduto nel posto prenotato, guardava scorrere il paesaggio monotono alla sua destra. L’arrivo a Firenze era previsto prima di mezzogiorno: meno di tre ore dalla stazione di partenza.

    Imparato non faceva niente. Non era incollato al cellulare e non leggeva i quotidiani come gli altri passeggeri. Cercava soltanto di non far trasparire il nervosismo. Aveva con sé una valigetta ventiquattrore che teneva poggiata sui ginocchi. All’interno, avvolta in carta di giornale, c’era un’opera di Giacomo Balla rubata la settimana precedente in provincia di Ivrea. Si trattava di una tipica Composizione del maestro, di piccole dimensioni che risaliva ai primi anni Venti del secolo scorso. Venduto all’asta, il quadro poteva spuntare una cifra tra i trenta e i quarantamila euro. Imparato pensava di ricavare un terzo di quella cifra; sapeva a chi poteva interessare e che essere provento di un furto paradossalmente avrebbe giustificato la mancanza di certificazioni.

    Vendere e comprare opere d’arte era il lavoro di Imparato. Ne erano a conoscenza solo persone del settore, e sulla sua carta d’identità alla voce professione era tuttora scritto insegnante, invece a scuola era rimasto soltanto tre anni, giusto il tempo di capire che quella vita non faceva per lui.

    Imparato chiuse gli occhi. Per ingannare il tempo si pose una domanda.

    Chissà quale dei due aspetti della sua attività attuale prevaleva sull’altro: smerciare opere rubate, o occuparsi di arte, come aveva sempre desiderato. Per ora non sapeva rispondere.

    Mentre il treno oscillava sulle rotaie, ripensò a come era entrato in contatto con un chirurgo, appassionato d’arte, per il quale curava la collezione di dipinti. Quello era stato un colpo di genio. Il medico aveva ingenti disponibilità economiche ed era bulimico per quanto riguardava gli acquisti di quadri. La collaborazione gli dava modo di far passare dall’abitazione del medico anche dei falsi che poi immetteva sul mercato clandestino sfruttandone il nome. Il mercato dei falsi era relativamente poco pericoloso perché quasi mai si riusciva a dimostrare la malafede di venditore e acquirente. Imparato non disdegnava anche di trattare opere provento di furti. Per questi traffici sfruttava altri canali.

    Gli sarebbe piaciuto tenere il quadro per sé. Imparato amava Giacomo Balla, considerato uno dei più importanti pittori italiani, esponente del Divisionismo e poi protagonista del grande movimento Futurista. Purtroppo era presto per godere della bellezza della pittura se non come fonte di guadagno. Il momento sarebbe arrivato: ne era convinto. Intanto accarezzava la valigetta e doveva resistere alla tentazione di aprirla e infilarvi una mano per toccare la tela. Invece si guardava attorno fingendo indifferenza: all’indomani, avrebbe proposto il Balla a un paio di collezionisti.

    Nella stessa carrozza di Imparato viaggiava Michele Spataro, un uomo di mezza età dall’aspetto anonimo che al massimo si faceva notare per un naso piuttosto pronunciato. Era lui che si era occupato di uccidere a Torino Romeo Ponticelli, artigiano restauratore e cocainomane.

    Spataro era un killer, un esecutore. Quello che gli chiedevano faceva, rapido ed efficiente. Non s’interessava di altro. Così non aveva saputo che la decisione di eliminare Ponticelli era stata presa in un breve incontro tra Alfio Palumbo e Mario Petroso. Petroso si era recato appositamente a Campi Bisenzio, comune alle porte di Firenze, a chiedere l’autorizzazione a Palumbo. Era andato e tornato da Firenze in meno di una giornata. In quel breve intervallo si era deciso il destino di Ponticelli.

    Palumbo era anche il motivo per cui Spataro stava andando a Firenze: Palumbo lo voleva conoscere. Aveva dato il proprio assenso all’omicidio di Torino perché capiva che non poteva essere altrimenti, però voleva valutare di persona se l’uomo che se ne era incaricato fosse affidabile. In caso contrario avrebbe provveduto.

    Spataro e Imparato avevano preferito viaggiare separati. Spataro si sarebbe trattenuto a Firenze solo un giorno, poi sarebbe ripartito per una destinazione ignota. Imparato invece a Firenze ci abitava e aveva fretta di arrivare per liberarsi dell’altro piccolo bagaglio che aveva con sé. Un cofanetto di Luis Vuitton la cui particolarità era il sottofondo chiuso da una cerniera: lì era nascosta la pistola servita per l’omicidio Ponticelli; sulla canna era ancora avvitato il silenziatore.

    Toccando la stoffa, Imparato poteva sentire il contorno dell’arma, e gli faceva uno strano effetto in quel vagone surriscaldato, pieno di gente, vestita elegantemente, ignara di viaggiare in compagnia di un assassino e dell’arma che era servita due giorni prima per commettere un omicidio.

    La pistola gli era stata affidata da Petroso, all’indomani del delitto.

    Questa va tolta di mezzo, gli aveva detto, facci questo favore, la conserverai tu. Mi raccomando: trova un posto sicuro, perché potrà servire anche in seguito.

    Con la pistola già in mano, Imparato avrebbe voluto obiettare e chiedere spiegazioni, un’occhiata di Petroso lo aveva convinto a desistere.

    Quella mattina in albergo, mentre preparava lo scarso bagaglio che aveva al seguito, aveva maledetto Petroso. Dalla porta semi aperta sulla stanza da bagno riusciva a vedere la propria figura riflessa nello specchio.

    Imparato le si era rivolto: Con questo abbiamo fatto un bel salto di qualità, complice in un omicidio, complimenti.

    Aveva pronunciato la frase a voce alta accompagnandola con un sorriso amaro e scuotendo la testa.

    Petroso, ovviamente, non mancava di armi e di nascondigli. Voleva qualcos’altro: compromettere Imparato a un livello maggiore della semplice ricettazione di opere rubate. Lo legava a sé a doppio filo: una garanzia supplementare. Non era difficile da capire.

    Il treno, a velocità impressionante, stava attraversando la stazione di Modena, Imparato chiuse ancora gli occhi, ma non si era assopito. Al contrario era ben sveglio e stava pensando a un uomo scomparso da tempo, Ciro Pietrantuono, capo mandamento del Sannio e cugino di sua mamma.

    Zio Ciro aveva aspettato che compisse diciotto anni e il giorno del compleanno si era sentito in dovere di impartirgli una lezione. Da uomo esperto di uomini, probabilmente aveva capito che il ragazzo si sarebbe messo su una brutta strada. I parenti si erano afflosciati sulle sedie dopo un pranzo troppo abbondante innaffiato da vino e spumante, zio Ciro lo aveva preso a braccetto e lo aveva invitato a fare due passi.

    Ci farà bene per smaltire le lasagne, aveva detto a alta voce dirigendosi alla porta di casa.

    Una volta fuori, si era fermato e aveva pronunciato un lungo monologo. Allora quello sproloquio gli era sembrato il sermoncino di un vecchio in vena di paternali, c’erano voluti anni per capire che aveva ragione.

    Imparato, cullato dall’ondeggiare del vagone, riascoltò nella memoria le sue parole: Tu sei nato in una famiglia di gente brava, io non sono come la tua mamma e il tuo povero papà, io sono diverso, forse non l’ho scelto io, ma non è questo che volevo dirti. Potrà capitare che qualcuno ti proponga di essere come zio Ciro, allora starà a te, e solo a te, scegliere cosa fare della tua vita. Quello che devi sapere è che se scegli di condurre la vita malamente, dopo non potrai più tornare indietro, quando attraversi il fiume, indietro non si torna. Ricordati cosa ti dico oggi, ricordalo sempre.

    Quando riaprì gli occhi, Imparato tornò a tastare l’arma che teneva sulle ginocchia: sembrava scottasse come una pentola levata dal fuoco. Zio Ciro indubbiamente aveva visto giusto.

    10 novembre 2019.

    Roma, Hotel Eitch Borromini

    In perfetto orario il Frecciarossa raggiunse la stazione di Santa Maria Novella, e riprese la sua corsa alla volta di Roma. Alla stessa ora, in un grande albergo della capitale, un parlamentare della repubblica rispondeva dalla sua suite a una chiamata dalla reception.

    Senatore, ho qui la giornalista per l’intervista, lo informò il portiere.

    La faccia pure salire, l’aspetto. Prima di riattaccare aggiunse: Ah, una cortesia, mi faccia portare dal bar due aperitivi con qualche tartina.

    Quindi si diresse alla porta in attesa dell’ospite che, poco dopo, vide uscire dall’ascensore. La donna gli sorrise e lo raggiunse. Era alta, molto bella, sebbene non appariscente, ed elegantemente vestita. Il senatore la fece entrare, si affacciò a sbirciare nel corridoio, a destra e a sinistra, poi richiuse la porta.

    Vieni, disse in tono brusco. E precedette la donna in un salottino da cui s’intravedeva la camera con le lenzuola in disordine e un secchio con una bottiglia rovesciata ai piedi del letto.

    I due si sedettero, lui prese da un vicino tavolino una busta che tenne in mano.

    In questa busta c’è una foto, l’oggetto che vi è fotografato deve ritornare assolutamente in mio possesso, disse.

    Al silenzio della donna, che si limitò ad assentire con la testa, il senatore chiese: Hai capito?

    D’accordo, riferirò.

    Assolutamente, specificò ancora, gli devi dire che questa adesso diventa la nostra priorità. Tieni la busta.

    La busta passò di mano. Era sigillata con della ceralacca e firmata lungo l’incollatura.

    Bene, allora posso andare.

    Ma che cazzo dici? Secondo te è credibile che un’intervista duri cinque minuti? Resta seduta, ti dico io quando andare.

    Il senatore si allungò sulla poltrona, e subito dopo si alzò per aprire la porta a un cameriere.

    Lascia qui, gli disse, aspettò che fosse uscito, e si rivolse alla donna. Puoi bere. A ogni modo, tu quanto costi?

    Sono cara, e soprattutto non sono in servizio.

    Bah, come vuoi, era giusto per ammazzare il tempo.

    Dopo, i due rimasero in silenzio. La donna prese un quotidiano e lo sfogliò distrattamente, il senatore si chiese se c’era altro che poteva fare per mettersi al sicuro da un possibile grosso guaio. Sbirciò l’orologio. Erano esattamente diciannove minuti da quando la ragazza aveva fatto ingresso nella suite. Avrebbe fatto trascorrere mezz’ora prima di lasciarla andare. Nel frattempo si sarebbe accontentato di sbirciare il suo corpo formoso: utilizzare una escort era il sistema che aveva scelto con Alfio Palumbo per comunicare. Le ragazze erano affidabili. Certo non per scelta ideologica, ma perché guadagnavano a sufficienza con il lavoro e perché sapevano cosa avrebbero rischiato se avessero parlato. Lui, nel caso, avrebbe avuto modo di giustificare l’incontro.

    Prima parte

    1

    All’inizio della settimana successiva, alle diciannove, su Firenze stava piovendo. La città si era svegliata sotto un brutto temporale e gli scrosci d’acqua si erano ripetuti tutto il giorno. Soffiava un vento freddo e la pioggia spinta contro le finestre provocava un rumore secco come di ghiaia smossa.

    In altri momenti una simile cacofonia avrebbe allertato la gente in strada, ma quella sera i passanti preferivano tenere gli occhi bassi per scansare le pozze e alzavano lo sguardo solo per inclinare l’ombrello quando c’era il rischio di scontrarsi. In quel caso si sorridevano a denti stretti e tornavano a concentrarsi sulle fenditure del marciapiede senza far caso a cosa accadeva attorno. Così l’appello che la polizia lanciò all’indomani non venne raccolto.

    Si voleva sapere se qualcuno avesse notato un uomo appostato a metà di via dei Serragli, nella zona dell’Oltrarno fiorentino, dove era avvenuto un omicidio e dove la proprietaria di una tabaccheria aveva notato una presenza sospetta.

    La donna disse di aver visto un uomo fermo sul marciapiede, e raccontò che aveva attirato la sua attenzione perché non cercava di mettersi al riparo dalla pioggia. Aggiunse che le era sembrato che tenesse d’occhio proprio l’appartamento in cui era avvenuto l’omicidio e che si era trattenuto alcuni minuti dando le spalle al negozio. La donna aveva paura. Prima di decidersi a rendere la sua testimonianza abbassò le luci all’interno della bottega, e quando si affacciò sulla strada non vi mise piede. Ferma sulla soglia del negozio fece cenno al poliziotto che piantonava l’ingresso di avvicinarsi.

    Senta, gli disse quando lo ebbe davanti, prima c’era un uomo dove è ora lei. Sono sicura che guardasse proprio verso quell’appartamento.

    Parlava sottovoce, lanciando delle occhiate tutt’attorno, con una mano indicò la finestra dell’appartamento dove era avvenuto il delitto.

    Quanto tempo è passato? chiese l’agente.

    Non molto, forse un’ora e mezza, non credo di più.

    Lo saprebbe riconoscere?

    L’ho visto di spalle. Era vestito di scuro, un giaccone come abbiamo tutti di questa stagione.

    Alto, basso, grande...?

    Normale direi, rispose

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