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Il sedicente partito: Appunti esperienze riflessioni dentro e attorno al PD
Il sedicente partito: Appunti esperienze riflessioni dentro e attorno al PD
Il sedicente partito: Appunti esperienze riflessioni dentro e attorno al PD
E-book391 pagine5 ore

Il sedicente partito: Appunti esperienze riflessioni dentro e attorno al PD

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Info su questo ebook

Il Partito Democratico ha compiuto nell’autunno 2019 dodici anni di esistenza. Il bilancio non sembra entusiasmare iscritti ed elettori, e molti, dentro e fuori i recinti del PD, cercano le ragioni di una perdita di vitalità associativa e organizzativa che ha radici ben più lontane dell’avvento dei social media, delle leadership personali e della scomparsa delle antiche forme di aggregazione collettiva e di mobilitazione politica, mentre i tentativi di riannodare fili e connessioni con il mondo reale e di affrontare i dilemmi di una nuova epoca non superano le retoriche del marketing elettorale. Che fare? Riossigenare il Partito Democratico è una causa persa? Le molteplici riflessioni che questo volume propone si misurano con questo genere di interrogativi.
LinguaItaliano
Data di uscita6 lug 2020
ISBN9788836817900
Il sedicente partito: Appunti esperienze riflessioni dentro e attorno al PD

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    Anteprima del libro

    Il sedicente partito - Luca Cominassi

    Vecchi

    INTRODUZIONE

    UN COMPLEANNO E I SUOI DILEMMI

    Il Partito Democratico compirà nell’autunno 2019 dodici anni di esistenza. Il bilancio non sembra entusiasmare i più, dentro e fuori le mura del PD. E, anche tra queste poche note introduttive, impossibile sottrarsi a una qualche tentazione demolitoria. La catastrofe elettorale del 4 marzo 2018¹ e le tragicommedie del cosiddetto congresso 2019, con i suoi 8, poi 7 e alla fine 6 candidati² a spartirsi le spoglie del partito nelle primarie tra il gennaio e il marzo dello stesso anno senza un qualche dibattito congressuale propriamente detto, paiono certificare un saldo fallimentare³.

    Una sensazione non certo mitigata dalla virata renziana che – tra il …mai con i 5 Stelle al salviamo l’Italia dalla barbarie salviniana – ha cavalcato la crisi del primo Governo Conte del ferragosto 2019 sparigliando carte e scenari e sfidando la leadership formale del partito: …un’inversione di rotta che ha sapore di un ultimo azzardo. Eppure, anche in un’ora così gravida di incognite per il Partito Democratico⁴, e nella quale il peso di una disillusione ultradecennale rispetto alla vocazione maggioritaria di veltroniana memoria pare assumere una definitiva evidenza, qualunque giudizio non contingente suggerisce alcune prudenti cautele. Vi è chi rimarca, ad esempio, come l’avvento di Renzi abbia sì costituito un elemento di frattura con la genesi del Partito Democratico imprimendogli una traiettoria che avrebbe radicalmente contraddetto gli stessi fattori genetici e generazionali di quel partito, ma anche come quella stessa cesura abbia goduto di largo consenso tra le fila e l’elettorato del PD, e di come la rottamazione, «il ringiovanimento, il mutamento organizzativo e strategico» abbiano «avuto [un] effetto» positivo: lo stesso dissenso che ha sempre accompagnato la riconversione renziana andrebbe letto non come «la conseguenza del suo antico dualismo, ma di quella tensione» tra le molte anime «di un ‘normale’ partito di sinistra» in Europa⁵. E, a maggior ragione, se quello stesso partito, che proviene da «un’alleanza anomala tra postcomunisti e cattolici di sinistra», persegue – pur tra dialettiche personali e programmatiche sovente feroci – una sua connotazione «democratico-riformista, ciò che non era mai avvenuto nella sinistra italiana»⁶. Un tentativo che rappresenterebbe di per sé «un lascito per il futuro sul quale forse è possibile costruire una nuova storia»⁷, e magari una nuova idea di partito, rispetto al vuoto di riflessione, di organizzazione e di presenza sociale e culturale in cui si è dibattuto il PD al chiudersi della prima stagione renziana⁸. Così, anche e proprio per andare alle radici del grande fracaso del 4 marzo 2018 e per capire la consistenza dei margini e dei segnali più recenti di recupero, sarebbe utile, se non un esame autoptico, almeno una qualche ricognizione analitica. Mauro Calise ci dà una mano allo scopo e rende meno funereo il compito. La sua riflessione vincola una qualunque valutazione empirica ad alcune premesse necessarie: «Se la politica fosse celebrata in versi, andrebbero ai fondatori del PD quelli epici di Konstantinos Kavafis: Onore a quanti in vita si ersero a difesa di Termopili. Perché, agli occhi della grande Storia, passeranno come i generosi fondatori dell’ultimo partito. L’ultimo baluardo eretto, dalla politica novecentesca, contro la disgregazione delle masse e la deriva personalistica che, ormai, attanaglia ogni mondo vitale. Non soltanto in Italia, in tutto l’Occidente. Le cronache di questi giorni fanno le pulci ai traguardi raggiunti, sempre al di sotto delle aspettative. Misurano i risultati col metro – impietoso – delle promesse. E contano il bottino dei consensi con un pallottoliere elettorale che non promette niente di buono. Nulla – purtroppo – da eccepire. Il PD non è diventato il baricentro maggioritario della politica italiana, come sognavano Veltroni e Prodi e come aveva cercato di rilanciare Matteo Renzi. E non lo diventerà. Dando fiato all’autolesionismo che – tra i caratteri originali italiani – continua ad essere il più gettonato, si possono individuare, uno ad uno, i responsabili del fallimento. Pizzicandoli nell’entourage prediletto della denuncia iconoclasta: la casta, l’oligarchia, il cerchio magico. Basta che abbiano un nome e cognome che li renda visibili e appetibili. E, ovviamente, esecrabili.

    Ma se si prova a scavare più a fondo, nelle correnti del nuovo millennio che hanno messo a soqquadro tutti – ripeto: tutti – i sistemi politici, il PD riprende quota, e grandezza. Appare, con tutti i suoi limiti, il tentativo lungimirante di costruire una corazza collettiva, intrisa di programmi e valori. Proprio mentre montava lo tsunami dell’individualismo qualunquista, populista, o – nell’ipotesi migliore – assenteista. Il demone che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca, Modi al governo dell’India, ha incastrato Cameron nel trappolone della Brexit, sta mettendo alle corde la Merkel e rischia di riportare la Spagna sull’orlo della guerra civile. Con l’unica eccezione della Francia, dove un rigurgito tecnocratico ha inventato un demiurgo capace di domare – per il momento – le forze antisistema. Questo è il panorama, e l’orizzonte. Ed è questo – se ce n’è uno – il metro storico e comparato col quale valutare se davvero il PD è stata solo una successione di errori, una gara a chi sbagliava più forte. Non si tratta di sollevare i dirigenti dalle loro responsabilità. E, certo, bisognerà continuare ad augurarsi che, nell’immediato futuro, si riesca a recuperare meglio un patrimonio fondativo che è stato – stupidamente – bistrattato. Ma per capire la difficoltà dell’impresa – e, al tempo stesso, la sua preziosa necessità – occorre avere la consapevolezza di ciò che sta succedendo intorno. Della violenza del vento contrario, per chi provi a rifondare un partito nell’era in cui tutti i partiti se ne stanno venendo a pezzi.

    Per di più, proprio nel Paese che è stato il laboratorio, la culla e poi il ceppo della contaminazione del virus del partito personale. L’unica forma di partito che continua a proliferare, ormai in tutto l’Occidente, e anche oltre. Un partito che nasce e si sviluppa intorno a un leader, suo padre-padrone. Che si tratti di mezzi finanziari, appeal carismatico, o congegni organizzativi o una più o meno oscura combinazione di tutti e tre questi ingredienti, tutti i partiti che abbiamo avuto in Italia nell’arco degli ultimi vent’anni rispondono a questa formula. Una formula che ha rapidamente attecchito ben al di là dei patri confini. Per la semplice e micidiale ragione che coniuga al meglio i due fattori che incarnano il nostro tempo politico: la ribellione anti-élite delle masse e il tentativo di capi e capetti di cavalcarne spregiudicatamente gli umori. Per questi trend strutturali che non accennano ad esaurirsi, il PD è destinato a restare l’ultimo partito fondato sulle basi – e con le procedure – che hanno alimentato il governo democratico nel ventesimo secolo. Non ci saranno riedizioni, e tanto meno micro-clonazioni. Ci si può solo augurare che resista, ad architrave della democrazia italiana»⁹.

    Se Mauro Calise ha ragione, come credo, la questione è come organizzare una simile resistenza¹⁰. Tanto più che alle proprie Termopili il PD non si è mai rivelato un esercito particolarmente convinto né coeso, bensì «…vittima di una continua incompiutezza»¹¹. Cinque segretari in dieci anni sono di per sé la misura di una difesa assai fragile, incerta e litigiosa. La spia della mancata istituzionalizzazione¹² di quell’«ultimo partito»¹³ e il segno di una ibridazione irrisolta¹⁴ tra essere un partito democratico-riformista¹⁵, ma anche un partito socialdemocratico-laburista¹⁶, ma anche un partito dal profilo etico e valoriale chiaro e netto¹⁷. Non scegliendo, di conseguenza, quale partito essere¹⁸ e come interpretarne la funzione. E soprattutto, a che pro. Sì, perché dopo oltre un decennio così ricco di illusioni e disillusioni attorno ad eterni dilemmi irrisolti, c’è da chiedersi – da elettori, da militanti, da promotori e sostenitori dell’azione di un partito politico – prima ancora di come tentare una qualche ipotetica resurrezione del PD come soggetto politico collettivo e non solo come riferimento toponomastico di una porzione del professionismo politico italiano, a cosa esso sia servito e se ancora possa servire a qualcosa.

    È una domanda che deve scontare il mutamento genetico del sistema politico italiano tra la fine del Novecento e il primo ventennio del nuovo secolo, così come le radici e le matrici di tale grande trasformazione¹⁹ su scala interna e internazionale. Una metamorfosi che culmina – nel caso italiano – in quella che Ilvo Diamanti chiama la Repubblica personale²⁰. Ma è una domanda che non può essere surrogata da pur indispensabili constatazioni di contesto ma che anzi, proprio a far leva su di esso, si articola in interrogativi come i seguenti:

    Al netto di primarie dall’affluenza calante, di tortellinesche eppur incanutite feste dell’Unità, di leopolde tanto acclamanti quanto evanescenti, di conferenze programmatiche che non programmano alcunché e di fondazioni giovanilistiche inneggianti alla Cultura democratica ma senza evidenza del loro impegno culturale, è riuscito il PD a farsi percepire come il veicolo di cui qualsiasi cittadino (…che tale si senta o aspiri ad essere; autoctono o acquisito che sia; giovane o anziano che si ritenga; interno o esterno a un qualche circuito produttivo; fautore di valori o principi religiosi o laici) può avvalersi per «…concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»? Si è insomma rilevato il PD come lo strumento giusto a tale scopo?

    Si può realmente ritenere il PD una organizzazione politica? Ha cioè agito un’entità plurale e coordinata che, tra un’elezione e l’altra, ossia non solo nel fuoco della propaganda e nel porta a porta delle campagne elettorali, è stata capace di aggregare e articolare le domande, i bisogni, e le opportunità insoddisfatte di quel qualsiasi cittadino? O ha invece manifestato una propria normale assenza tra gli attori locali del dibattito e del conflitto sociale, una tangibile irreperibilità nella vita delle relazioni quotidiane, una sostanziale irrilevanza nei rapporti tra cittadinanza e istituzioni di rappresentanza e di governo? dando dunque una effettiva rappresentazione di sé come entità associativa che non sa che avvalorare la diffidenza o l’indifferenza di quel cittadino?

    In altre parole: quello stesso partito – se non una comunità politica organizzata e dunque fondata su un comune stimolo «a rispettare l’interesse collettivo»²¹ e a costruire pertanto e a condividere decisioni comuni – ha almeno dato vita a un’organizzazione politica ove una molteplice pluralità di persone, di storie umane, di sensibilità culturali e di legittimi interessi, si sono scambiati giudizi di fatto e giudizi di valore in base ai quali confrontare opinioni, formulare proposte e sviluppare argomenti in un mondo dialetticamente condiviso di significati, di simpatie e di solidarietà?

    Quella stessa organizzazione politica, laddove effettivamente costruita, ha saputo concepire e configurare il proprio funzionamento – tanto rispetto ai propri consociati, agli iscritti e ai militanti, quanto rispetto all’universo dei potenziali interessati alle tematiche di interesse pubblico di cui è necessario occuparsi – come una palestra civica e interattiva? Ove cioè donne e uomini, giovani e anziani, occupati e inoccupati, vecchi e nuovi cittadini, laici e credenti (in luoghi di incontro effettivamente esistenti e accessibili così come su piattaforme online che non siano mere bacheche propagandistiche o curve da stadio) dialogano per dar vita a una lettura dell’art. 3, 2° comma della Costituzione adeguata alla complessità del XXI secolo? E dove lo possono fare in modo non occasionale né rituale ma informato ai principi e agli strumenti di una qualche democrazia deliberativa …anche se o proprio perché …di partito? Ove pertanto non ci si limiti ad aggregare e a contare le opinioni e le preferenze delle persone che partecipano alla discussione ma, pregiudizialmente, ci si impegni a valutarle dialetticamente mediante il confronto degli argomenti che le sostengono e non in nome di vincoli e di posizioni precostituite, così da raggiungere una scelta da preferire e condividere nel merito perché difendibile alla luce di un interesse collettivo superiore se non generale?

    Ha il PD sviluppato una propria, autonoma e plurale capacità di analisi, di riflessione, di progetto e di mobilitazione civica e culturale per promuovere e sostenere principi e politiche in cui diritti e doveri morali, cittadinanza interetnica e inclusione sociale, competenze acquisite ed eguaglianza delle opportunità soggettive, responsabilità individuali e responsabilità collettive siano tra le parole chiave di una sinistra vitale? Cioè di una sinistra che costruisce l’agenda delle proprie pratiche aggregative e delle politiche locali e nazionali che persegue stando dentro e interagendo con i conflitti sociali, di genere, religiosi, interetnici, intergenerazionali, ambientali che costituiscono i vincoli e le opportunità della nostra modernità? Ossia di quella nuova epoca del cui avvento ci accorgiamo solo quando essa ci squaderna le contraddizioni che la conformano e il divario strutturale tra domanda e offerta di governo? Ossia, da un lato, tra le esigenze di milioni di bambini, di donne e di uomini che, in carne ed ossa, cercano una rappresentazione politica e un trattamento amministrativo alle proprie criticità come alle proprie opportunità e, dall’altro, le capacità degli eletti, dei governanti, degli amministratori, dei burocrati e dei managers pubblici e privati di saper declinare quelle stesse aspettative in agende credibili e in provvedimenti efficaci perché lungimiranti su scala tanto locale e nazionale quanto globale?

    È stato e sarà il Partito Democratico capace di svolgere un simile compito? Ne avrà (qualora le abbia mai avute) le energie civiche e dialogiche necessarie? Saprà rimuovere le sterili diatribe tra approcci liberals e approcci socialdemocratici o approcci radical e concentrarsi, invece, sui compiti di una sinistra che si misuri con le crucialità locali e materiali del mercato, con i suoi fallimenti, le sue pulsioni animalesche, il suo fabbisogno costantemente in divenire di regolazioni e di incentivazioni nell’intreccio conflittuale tra vecchie e nuove imprese, vecchi e nuovi lavori, vecchie e nuove catene di montaggio, vecchie e nuove proletarizzazioni, vecchie e nuove redistribuzioni della ricchezza, vecchie e nuove modalità di ammortizzazione sociale, vecchie e nuove culture dell’impresa e del lavoro?

    È il Partito Democratico un corpo sufficientemente vitale per elaborare e metabolizzare una visione collettiva della propria missione, nella quale presente e futuro del nostro Paese e la forbice demografica che lo attanaglia siano chiaramente comprensibili a chiunque e nelle implicazioni sociali, culturali, previdenziali e assistenziali che ne derivano? Dunque, senza banalizzazioni o rimozioni propagandistiche a danno delle generazioni più giovani e di quelle future. Ovvero, saprà il Partito Democratico aprire porte, sedi e orecchie alla sofferenza e alla protesta di quegli schiavi trattati da umanoidi che, ad esempio in Amazon, compiono lavori privi di dignità cerebrale e ricchi di una alienazione esistenziale che viene esasperata da una remunerazione economicamente ed eticamente intollerabile a fronte degli utili d’impresa e dei volumi di capitalizzazione dei proprietari delle app di riferimento? Riuscirà il PD ad alimentare un discorso pubblico e politico su una rivoluzione tecnologica che ha generato un nuovo proletariato pur camuffato da partenariato algoritmico e cottimizzato, sempre in competizione con un proletariato giovanile ed extracomunitario, vincolato dalla sopravvivenza quotidiana ad accettare standard di vita da sottosviluppo ove il diritto del lavoro si riduce a una disciplina meramente accademica?

    E saprà il Partito Democratico assumere e assorbire un messaggio accorato e argomentato come quello che Papa Francesco rivolge all’umanità e ai suoi governi sulla casa comune e trasformarlo in una propria capacità riflessiva con cui ridefinire le agende locali e urbane insieme alla cultura civica che le deve sorreggere per risintonizzarle con le urgenze dell’agenda climatica?

    Infine – almeno per rispetto di quei militanti che ad ogni tramonto di giornata si ostinano a tenere aperto quel mondo carbonaro di circoli sparuti e marginali, e che cercano comunque di dare una casa e un’accoglienza dialogica alle tensioni sociali e urbane in cui quegli spazi virtualmente politici sono materialmente immersi – riuscirà il PD a non fungere da semplice account per chi voglia o accetti di inserirsi nel ceto politico in nome di abilità e competenze altre dal far politica e dal far politiche? Ovvero, riuscirà il PD ad esprimere, invece, una autonoma capacità professionale: offrendo un’opportunità di formazione politica proprio con le pratiche dell’azione sociale e culturale e con le esperienze della progettazione e della mediazione minuta e concreta, a tutti coloro che vogliano impegnarsi e proporsi come attori – diretti e indiretti – della rappresentanza politica e del suo funzionare ai diversi livelli di governo? E infine, saprà il PD fondare e legittimare pubblicamente e su tali basi formative una propria condivisa capacità di scegliere dirigenti e candidati per il partito e per le istituzioni? E senza limitarsi a quelle cooptazioni verticistiche a suggestione mediatica (…come le vittime e gli eroi di tragedie e imprese ad alto tasso di allarme sociale e di audience emotiva) che dovrebbero garantire il civismo di una lista elettorale a detrimento della sua vituperata politicità (…trappola dell’antipolitica in cui il PD si è infilato con rapida progressione)?

    Saprà rispondere il PD agli interrogativi appena richiamati? Si tratta di una sfida assai complicata. Sono infatti quesiti aggravati da criticità profonde e vincolanti che lo stesso sedicente congresso del 2019 ha reso quanto mai evidenti: …sia per ciò che ha detto e discusso, sia soprattutto per ciò che ha impedito di discutere, approfondire, verificare, innovare.

    Se infatti osserviamo la parabola del PD ad oggi (settembre 2019), ciò che vediamo è:

    …un partito dei leaders o degli aspiranti tali. È vero che ciascuno di loro «…per crescere ha bisogno sì di supporto ma anche di misurarsi con dei rivali interni»²², ma è anche vero che tale rivalità alimenta quella mutua diffidenza partigiana che si traduce in separate tattiche coalizionali e in veti incrociati, più o meno impliciti, dentro e attorno all’articolazione centrale e locale di partito. Ne derivano sia la consapevole sepoltura di qualunque residua ipotesi di una coesione coerente e funzionale a quella che, dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016, si è definitivamente palesata – non più come una vocazione – ma come l’illusione maggioritaria; sia la strategia alternativa del partito politics machine a immagine e somiglianza del segretario-leader e dei suoi avversari interni. Il che ha significato la crescente irrilevanza degli iscritti e ad un tempo la mancata fidelizzazione dei partecipanti alle primarie quale nuova base allargata del partito stesso; la tentata marginalizzazione delle minoranze interne ad opera della maggioranza che sostiene la segreteria vincente; una fronda costante e quotidiana ad opera delle minoranze a detrimento della capacità di indirizzo e coordinamento della direzione del partito e della sua maggioranza; il disseccamento della dialettica politica e sulle politiche negli organi direzionali a favore di un dibattito pubblico pregiudizialmente finalizzato a sancire, misurare, ridefinire i rapporti di forza tra le componenti e le correnti interne; considerare il reticolo territoriale del partito come una sorta di residuo organizzativo da parte della leadership vincente e come rete di enclaves difensive e più o meno rancorose o contestative da parte delle minoranze; subordinare la propria missione da parte di rappresentanti e amministratori del PD, per pochi o molti che siano nei diversi contesti istituzionali e territoriali, alla pregiudiziale tutela della leadership del capo così come, a seconda dello schieramento di appartenenza, alla pregiudiziale affermazione della propria diversità o separazione o capacità di vincolo²³;

    …un partito in fase di proletarizzazione organizzativa, ossia incapace di mobilitare risorse finanziarie ed energie funzionali atte a dare alla sua articolazione operativa la sostanza di una struttura vitale, riconoscibile, accessibile. Ossia che eroga formazione, informazione e supporto analitico, propositivo, culturale all’iniziativa politica individuale e collettiva, di iscritti e non iscritti in un dato ambito territoriale, dentro e attorno alle istituzioni, dentro e attorno i gruppi sociali e le loro formazioni, dentro e attorno a ciò che si agita, muove, promuove e contrappone nella quotidianità dei social media. Che è proprio quanto nel PD non si dà;

    …un partito che risolve la sua tangibile e misurabile esistenza nelle primarie e nella loro mediatizzazione agonistica identificando con esse la propria unica e pur contingente consistenza aggregativa e dibattimentale ma senza che quelle stesse primarie vengano strategicamente trasformate da rito una tantum per scegliere il segretario a momento fondativo «di una nuova infrastruttura partitica»²⁴. Ne consegue che, finito il rito, il partito torna alla sua morta gora organizzativa²⁵, insieme a qualche soprassalto vitale a ridosso delle scadenze elettorali e referendarie. Che anzi sono sempre tanto cruciali e decisive (…consiglieri di quartiere da eleggere o rieleggere; sindaci e consigli comunali da difendere, ribadire o innovare; assalti del nemico da respingere in elezioni regionali e nazionali o addirittura europee) da far tabula rasa di qualunque sollecitudine analitica, dibattimentale, argomentativa: regolarmente sacrificata sull’altare delle formule, delle procedure e degli organigrammi di lista e di collegio. Tant’è che, anche laddove gli impulsi alla riflessione e all’analisi appaiono più consistenti e reclamati, nella vita ordinaria del partito – circolo o sezione o assemblea cittadina o metropolitana che sia – non si discute d’altro che non sia come organizzare e garantire la presenza del PD nelle sue diverse componenti a fianco di candidati… che tendenzialmente cercano altrove le fonti e le basi di una propria constituency;

    …un partito événementiel, cioè che vive di episodi quotidiani senza prospettiva progettuale. Un partito che alterna leopolde, kermesse variamente dedicate, gazebo nelle piazze a cura di sparuti ma ostinati e valorosi militanti, interviste quotidiane e tweet a serialità oraria di segretari, presunti dirigenti, candidati a divenire tali, estimatori e detrattori degli uni e degli altri, cortei antifascisti, antipopulisti e antisovranisti sempre apprezzabili ma sempre attingenti alle riserve pensionistiche di militanza tosco-emiliane – o poco più in là. Il tutto… con la rassegnata autopercezione di una propria decrescente attrattività presso la varietà e la complessità del popolo italiano²⁶;

    …un partito che vive di sondaggi prêt-à-porter, unica bussola e parametro esclusivo di chi ha responsabilità di rappresentanza e di governo nel partito e nelle istituzioni: …tanto a livello locale, quanto a livello nazionale e sovranazionale. E che ad un tempo si appiattisce sulle terze camere televisive come quella di Bruno Vespa e dei tanti suoi emuli – più o meno vocianti e scalcianti – a livello locale e nazionale, dove ci si scanna in vista degli indici di gradimento in tempo reale e soprattutto della delegittimazione dell’avversario – anche e in specie se interno. Senza però neppure provare a contrastare «l’egemonia che i populisti si sono conquistati nell’uso e manipolazione della rete»²⁷: ovvero il fronte ove «si gioca la vera partita per capire e rappresentare le pulsioni, tensioni e opinioni della società ridotta a social»²⁸;

    …un partito che si limita a inseguire la professionalità politica dei suoi dirigenti, in una circolarità perversa e parrocchiale, le gazzette della carta stampata e le arene dei social media rivendicando il valore storico delle proprie esperienze di governo, ovvero – a seconda delle fazioni – l’urgenza di un cambio di pagina o di passo o di orizzonte… insomma il superamento della stagione renziana: …senza la capacità né il coraggio di innovare analisi, progetti e proiezioni culturali e conoscitive a fronte delle trasformazioni del mondo e delle egemonie di pensiero che le guidano o le legittimano come ineluttabili (…con stucchevoli reiterazioni delle solite citazioni sociologico-filosofiche che ormai nessuno si risparmia in qualunque adunanza di partito: Bauman in primis, insieme alle sue liquidezze). Un partito, dunque, che non esce da «quella trappola di un eterno presente, quasi una sospensione del tempo che», come ha saggiamente ammonito Sergio Mattarella, «ignora il passato e oscura l’avvenire, così deformando il rapporto con la realt໲⁹, appiattendosi su un tempo che è sì il nostro ma che è senza epoca perché vi «prevale la cronaca, il chiacchiericcio, il lamento» senza che nessuno si faccia carico, come insegnava Aldo Moro, di «dominare con intelligenza gli avvenimenti»³⁰;

    …un partito che riflette al proprio stesso interno un Paese orfano di fondativi legami fiduciari tra cittadini e cittadini, e tra cittadini e istituzioni, e di una cultura civica con cui alimentare quelle responsabilità pubbliche e private che sono necessarie alla costruzione di una nuova coesione sociale e dunque di politiche pubbliche condivise ed efficaci³¹;

    …un partito che non sa leggere o al massimo farfuglia qualche considerazione circa un’Italia ove si intrecciano vistose e crescenti asimmetrie sociali che alimentano conflitti di genere, conflitti tra generazioni, conflitti tra istanze, tutele così come egoismi di breve andare a fronte di sistematiche rimozioni degli scenari di lungo periodo: con tensioni, pressioni e contrapposizioni che investono le architravi stesse della regolazione sociale, a cominciare dalla tutela dei ceti più poveri per finire col sistema previdenziale e col suo futuro;

    …un partito che non si sa se ama ancora la sinistra né se ne comprende il significato nella realtà dei nostri tempi ma che di certo non riesce a superare l’evolversi e l’involversi delle sue fratture originarie. Livorno e il suo congresso del ’21 sono ancora tragicamente tra noi³², con tutti gli ovvi mutatis mutandis della storia antica, recente e contemporanea. Non ci si schioda di lì, eppure gli oceani sono passati sotto i ponti, le catastrofi del ’900 anche, mentre da decenni stiamo ormai navigando su un altro pianeta… che sta andando, a sua volta, verso orizzonti tanto rischiosi quanto ignoti e ricchi di attraenti fantasmagorie tecnologiche e neosociologiche. Ha buon gioco Ezio Mauro nel prendersela con la sinistra:

    «Il concetto di sinistra rischia di vivere proprio oggi i suoi anni più difficili del dopoguerra italiano. Più ancora dei partiti che dovrebbero impersonarlo, e non sanno come. Più del popolo sparso che vorrebbe conservarlo, e non sa dove. Più dei politici mutanti che oscillano periodicamente tra innovazione e nostalgia, con vocabolari asfittici, valori sbiaditi, ideali intermittenti mentre solo l’odio intestino è perenne. È come se la sinistra faticasse a vivere senza il riferimento di uno schema teorico e l’aggiornamento costante di un impianto culturale. Tanto più oggi quando la trasformazione del lavoro ha moltiplicato ma polverizzato la vecchia prestazione d’opera, ha disperso la classe, ha nascosto lo stesso principio lavorista (un’obbligazione volontaria nei confronti di se stessi e della società) dentro formule mimetiche, la professionalità, il sapere, le competenze, spostando sempre più il valore sociale dal produttore al consumatore, dal materiale all’invisibile. Ma c’è di più, perché la sinistra non è stata capace di inseguire il lavoro là dove andava, di accompagnarlo nelle sue metamorfosi, di difenderlo sotto l’urto della crisi e infine di rappresentarlo nuovamente nella disaggregazione con cui riemerge dal decennio. Quasi che, finito il vecchio ancoraggio fisico della fabbrica, la sinistra non trovasse un’altra base concreta d’appoggio e di relazione. Come se dovesse vivere fuori dalla materialità, disincarnata, come se i bisogni e le aspirazioni materiali non esistessero, e non chiedessero di essere trasformati in politica quotidianamente. Perché il problema del lavoro non si è certo esaurito nel Novecento.

    Aggiungiamo l’incapacità di elaborare una moderna teoria della crisi. Di fronte a un pensiero dominante che ha portato il mondo sviluppato dentro dieci anni di fortissimo indebolimento delle sue basi economiche e finanziarie, la sinistra non ha prodotto un pensiero critico, un’opzione teorica concorrente, un’obiezione culturale. Lasciando intendere che con l’accettazione compiuta del capitalismo (in enorme e colpevole ritardo rispetto alla Bad Godesberg socialdemocratica) il compito della sinistra fosse concluso, e la critica ormai potesse venire soltanto dall’esterno, dalle forze antisistema. Sono le ragioni per cui il concetto stesso di sinistra deperisce più delle sue stanche organizzazioni. Perché l’assimilazione culturale finisce per far precipitare ogni cosa nell’ambito dell’indistinto democratico, mentre la difficoltà della fase e le macerie della crisi convincono i leaders che bisogna giocare sempre la partita fuori casa, in campo altrui, come se non esistesse più un terreno di gioco proprio, dove valgono idee autonome, tradizioni, storia, valori specifici: e tutto questo si traduce addirittura in una cultura, che determina le politiche.

    Senza una cultura riconoscibile, aggiornata al momento che stiamo vivendo, la politica vive di vita artificiale, in serra, e non riesce a collegare le sue azioni una all’altra facendole diventare storia, condannandole invece – anche le più riuscite – alla fiammata solitaria della performance, dopo la quale si spengono ogni volta le luci e resta soltanto la cenere. Con il vuoto della cultura manca l’anima: e senza un’anima ci si batte soltanto per sopravvivere, dentro l’egemonia culturale altrui. Dunque la destra esercita un’egemonia culturale? In realtà la destra fa qualcosa di meno, e molto di più: raccoglie e impersona – in presa diretta – l’egemonia culturale dettata dalla crisi, e riesce confusamente ma con profitto a tradurla in politica. La fase apre squarci di inquietudine, di vera paura, di nuova solitudine che la destra trasforma in momenti politici di opportunità, mentre il risentimento dei forgotten man viene convertito in sentimento di destra, quasi nature, spontaneo, senza bisogno di traduttori. Possiamo chiamarla una nuova egemonia materiale, non elaborata, selvatica e tuttavia fortemente popolare, non ancora teorizzata ma intanto raccolta da partiti tra loro diversi, che coltivano consapevolmente il nuovo egoismo del welfare, l’inedita gelosia del lavoro, la privatizzazione indigena dei diritti. Tutti ingredienti che produrranno una nuova incarnazione della destra, una stagione bio-politica più che ideologica, o meglio un’inedita ideologia del sovranismo etnico e indigeno, dove rischia di tramontare lo stesso principio dell’Occidente. Tutto questo mentre la sinistra avrebbe le carte in regola per chiedere fiducia e continuare a governare il Paese guidandolo nella ripresa dopo averlo accompagnato fuori dalla crisi: dichiarando l’obiettivo di rimediare alle esclusioni e alle fratture provocate dal decennio, in una ricomposizione sociale che è la vera garanzia di futuro, e che la destra non sa fare. Ma per farlo, ci vorrebbe tutto quel che manca, la cultura, la teoria, l’aggiornamento del concetto di sinistra, una nuova rappresentanza di un popolo che esiste nonostante tutto, disorientato e disperso. E questo è l’ultimo problema, che davanti alle elezioni diventa il primo. Incapace di governare, tuttavia Berlusconi in ogni campagna sa creare un campo. Al contrario la sinistra, che sa governare, aveva un campo vasto e lo ha ridotto a una serie di orti:

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