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Identikit di un incubo (eLit): eLit
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E-book428 pagine5 ore

Identikit di un incubo (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Ashley Montague, intraprendente recluta della polizia, è in macchina quando si ritrova all'improvviso sulla scena di un incidente. Sull'asfalto un ragazzo mezzo nudo travolto da un'auto. L'immagine le si imprime nella mente e quando scopre l'identità della vittima, decide di capire. Il detective Jake Dilessio, ancora tormentato dalla morte misteriosa della sua compagna di lavoro, deve indagare su un nuovo omicidio che risveglia remoti fantasmi. Davanti a lui il cadavere di una donna mutilato come le vittime di una caso archiviato cinque anni prima. Due indagini intricate, due incognite da svelare in un ambiguo gioco di specchi.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2017
ISBN9788858972946
Identikit di un incubo (eLit): eLit
Autore

Heather Graham

New York Times and USA Today bestselling author Heather Graham has written more than a hundred novels. She's a winner of the RWA's Lifetime Achievement Award, and the Thriller Writers' Silver Bullet. She is an active member of International Thriller Writers and Mystery Writers of America. For more information, check out her websites: TheOriginalHeatherGraham.com, eHeatherGraham.com, and HeatherGraham.tv. You can also find Heather on Facebook.

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    Anteprima del libro

    Identikit di un incubo (eLit) - Heather Graham

    Prologo

    Spalancò gli occhi. Notte fonda. La stanza al buio. Di colpo si rese conto di dove si trovava. E di chi era l'uomo accanto a lei. Pensò in fretta, cercò di ricostruire cosa avesse fatto nelle ultime ore. Niente, non ricordava niente. Credeva di essere tanto in gamba, tanto furba, eppure si era fatta incastrare.

    Restò immobile, in ascolto. Il respiro dell'uomo era lento e regolare. Dormiva.

    Non c'era tempo per capire cosa avesse fatto, fino a che punto fosse arrivata. Non c'era tempo per valutare le conseguenze. Non c'era neanche il tempo per pensare.

    Doveva solo scappare.

    Si girò piano su un fianco e scivolò fuori dal letto. Iniziò a vestirsi senza fare rumore.

    «Dove vai?»

    Si voltò, nel chiarore della luna. Lui era appoggiato a un gomito e la osservava.

    Lei rise e si avvicinò al letto. Lo baciò delicatamente sulla fronte.

    «Che notte» mormorò con fare sensuale. «Ma adesso ho una gran voglia di gelato e di caffè. Sono un po' intontita.»

    Era un desiderio piuttosto strano, ma le avrebbe creduto, dopo il modo in cui si era comportata quella notte. Dopo quello che era appena accaduto, proprio lì, nel luogo sacro.

    «Ci deve essere del gelato nel congelatore. E il caffè non è certo un problema.»

    «Ma non ho voglia di un gelato qualsiasi. C'è una gelateria qui all'angolo ed è aperta fino a tardi» provò a spiegare. «E poi, a dire il vero, mi sento un po' a disagio a essere qui. Con te.»

    Si alzò, infilò le scarpe e prese la borsa. Le sembrò stranamente leggera.

    «Mi spiace tesoro» disse lui calmo. «Tu non vai proprio da nessuna parte.»

    Si alzò dal letto, nella semioscurità. Non lo aveva sottovalutato, aveva un corpo stupendo. Amava tenersi in forma. Tra le altre cose.

    «Voglio solo un po' di gelato.»

    Le si avvicinò. Non c'era cattiveria nel suo viso, soltanto una vaga tristezza.

    «Sei una bella bugiarda. Hai ottenuto quello che volevi, quello che sei venuta a cercare davvero. E adesso mi dispiace, ma non te ne vai.»

    Lei infilò una mano nella borsa per prendere la pistola.

    «Non c'è più» la informò a bassa voce.

    Fece un altro passo verso di lei.

    La pistola era sparita. Il terrore la costrinse a pensare il più velocemente possibile. Correre. Scappare.

    «Che cosa vuoi farmi?»

    «Non voglio farti del male, lo sai.»

    Bastardo. Non voleva farle male. Solo ucciderla.

    Le si avvicinò. Lei usò la borsa per difendersi, la fece roteare con forza e lo colpì in pieno sulla testa. Poi con un balzo in avanti gli assestò una violenta ginocchiata. Lo sentì rantolare senza fiato mentre si piegava in due.

    Uscì di corsa dalla camera da letto.

    Arrivò all'ingresso e si bloccò di colpo, impietrita. Fissò incredula la persona che le stava di fronte. Non l'avrebbe mai immaginato. In un lampo capì. Ora quadrava tutto. Il fatto che sapessero cosa faceva, chi era.

    «Razza di schifoso» le uscì in un sibilo.

    «Uno schifoso ricco, ora.»

    Una collera sorda le salì in gola. Adesso capiva in che situazione si fosse cacciata, fino a che punto fosse in pericolo. Non aveva parole per descrivere la rabbia e il disgusto che provava.

    Niente che avrebbe potuto cambiare ciò che aveva scoperto.

    Tornò in sé e ritrovò il suo senso pratico. C'era solo una cosa da fare: lottare con tutte le sue forze per restare in vita.

    Iniziò a correre.

    Attraversò l'ingresso, raggiunse la porta, armeggiò con la serratura e uscì. Nessun allarme.

    Ovvio. Gli allarmi chiamano…

    La polizia.

    Temette di avere un attacco isterico.

    In pochi secondi fu nel vialetto. Sentì urlare nella casa alle sue spalle.

    Sapeva che sarebbe stato inutile andare al garage. Non sarebbe mai riuscita ad arrivare alla macchina prima che loro le fossero addosso. Doveva solo correre e sperare di raggiungere la strada.

    Era notte fonda, ma con un pizzico di fortuna avrebbe incrociato un'auto.

    Riprese a correre. Non avrebbe mai creduto di poter essere tanto veloce, in caso di bisogno. E in quel momento ne aveva un bisogno disperato. Senza smettere di correre, frugò nella borsa alla ricerca del cellulare. Lo trovò.

    Digitò il 911, il numero del pronto intervento. Niente.

    Le avevano lasciato il telefono. Ma avevano tolto le pile.

    Continuò a correre, spinta dall'adrenalina e dall'istinto. Dalla voglia di vivere.

    Sentì il suono orribile di un respiro affaticato.

    Si rese conto che era il suo stesso respiro.

    Ormai era lontana dalla casa, forse più di quanto loro potessero immaginare. Una piccola vittoria. La sua unica speranza era riuscire ad allontanarsi abbastanza, trovare aiuto prima che la raggiungessero.

    Deglutì con forza. Le pareva di avere i polmoni infuocati, le gambe erano sul punto di cedere. Ma aveva ancora molta strada da fare. Il dolore era l'ultimo dei suoi problemi. Sentì arrivare il panico e lo ricacciò indietro.

    Riuscì a raggiungere la strada. I suoi passi rimbombavano sul marciapiede, riecheggiavano nell'oscurità della campagna.

    Vide dei fari lampeggiare all'improvviso nel buio. Una macchina. Nell'istante esatto in cui lei ne aveva un così disperato bisogno. Si fermò barcollando, stordita. Poi corse alla portiera del guidatore.

    «Meno male che è qui. Si sposti. Presto.»

    Sentì una pistola conficcarsi fra le costole, dietro di lei.

    E lo sentì bisbigliare. Non aveva neanche il respiro affannato.

    «Fine del gioco.»

    Paralizzata, guardò l'uomo al volante. Vide il suo sorriso calmo e si rese conto che conosceva quella faccia. Le si fermò il cuore.

    Era stata troppo ambiziosa, troppo orgogliosa e presuntuosa. Aveva voluto arrivare per prima alla verità, aveva voluto la gloria.

    Eccola, la sua gloria.

    Cercò di non lasciarsi prendere dal panico. Non si sarebbe arresa. Doveva pensare alle mosse giuste, ragionare, ricordare tutti i trucchi, la psicologia umana, tutto quello che le avevano insegnato.

    Come sopravvivere.

    «Andiamo» disse gelido.

    «Perché non mi spari subito, qui?»

    «Certo, potrei. Invece credo proprio che farai quello che ti dico. Finché sei viva, finché respiri, hai ancora qualche speranza, giusto? La debolissima speranza di ribaltare la situazione. Muoviti, allora. Entra in macchina. Sali davanti, lentamente e con calma. E non dimenticare che io sono dietro di te.»

    Fece come le aveva ordinato. Aveva ragione. Avrebbe lottato fino all'ultimo secondo, fino a quando avesse avuto fiato in corpo. La spinse dentro, accanto all'autista, mentre lui sedeva dietro, senza mai smettere di puntarle contro la pistola.

    Ragionò in fretta. Qual era il suo piano? Come pensava di cancellare le prove che lei era stata lì, che era stata con lui?

    Quando arrivarono davanti alla casa, la porta del garage si aprì. La macchina si fermò e la trascinarono fuori. Le fece cenno di precederlo.

    «Abbiamo il tempo di farci un altro giro.»

    Lo guardò.

    Le sorrise. Spietato.

    «L'ultimo giro, temo.»

    La portiera della sua macchina era aperta. Salì, con la canna della pistola contro la schiena. Non aveva scelta. Aveva ragione lui. Non si sarebbe arresa fino all'ultimo respiro. Poteva ancora farcela.

    Una sagoma sconosciuta, un complice silenzioso, li aspettava. La spinsero dietro al volante e il complice si spostò sul sedile posteriore.

    Lui sedette accanto a lei e le ordinò di mettere in moto.

    Girò la chiave nell'accensione, un passo più vicina alla morte.

    Parlò, parlò perché aveva paura e perché non voleva avere paura, e soprattutto perché non voleva che loro se ne accorgessero.

    «Siete dei bastardi, e della specie peggiore. Tutto questo non c'entra niente con la religione. Avete usato quelle anime smarrite, avete promesso la salvezza.»

    «Che brava. Ci sei arrivata. Sei proprio una ragazza in gamba. Molto in gamba. Ma non abbastanza.»

    Guardò nello specchietto retrovisore per cercare di riconoscere la persona seduta dietro. Forse era lui che l'aveva tradita. Era stata una stupida. Avrebbe dovuto capire. Ma nessuno poteva sospettarlo.

    Sentì i brividi risalirle lungo la schiena. Se solo avesse saputo…

    Cercò di usare un tono autoritario e deciso. «Potete ancora cavarvela, tutti e due, senza finire sulla sedia elettrica. Portatemi subito al quartier generale della polizia e confessate. Così potrete sperare in un patteggia-mento.»

    «Non possiamo lasciarti andare» mormorò l'uomo seduto accanto a lei, con un tono stranamente dolce. «Mi dispiace.»

    Fu a quel punto che lei capì che davvero non avrebbe voluto farle del male. Che soffriva davvero per ciò che stava facendo. E comprese anche, in quello stesso istante, che non era lui a decidere.

    «Se mi succede qualcosa, non finirà qui. Dilessio vi starà addosso finché avrà fiato in corpo.»

    Sentì uno scatto improvviso dal sedile posteriore. Poi l'uomo parlò, con una voce profonda e rabbiosa.

    «Dilessio non può provare un bel niente.»

    «Dovranno trovare te, prima» disse l'uomo al suo fianco, sempre con lo stesso tono dolce.

    Capì che anche lui aveva paura. E che lei non aveva ancora intuito tutta la verità.

    Troppo tardi per far combaciare i pezzi.

    Nel buio, mentre seguiva le istruzioni per arrivare a destinazione, iniziò a pregare in silenzio.

    Aveva ancora una sola possibilità. Sterzare di scatto e mandare l'auto fuori strada. Sarebbero morti tutti.

    Era sul punto di farlo, ma le strapparono il volante dalle mani. La pressione sulle dita fu così improvvisa e dolorosa che dimenticò le sue intenzioni. La macchina si fermò.

    «Va bene qui» borbottò l'uomo seduto dietro.

    Cercò di ignorare la mano, ancora dolorante. Cercò di pensare a un modo per disarmare i due uomini che la tenevano prigioniera.

    Non c'era.

    Da dietro, un colpo alla testa rapido e improvviso la spinse con violenza contro il parabrezza.

    Mentre la luce si offuscava piano e il dolore svaniva nel nulla, sentì di nuovo quella voce dolce.

    «Non volevo farti del male. Mi spiace. Davvero.»

    E fu la fine.

    1

    Cinque anni dopo

    In seguito, Ashley avrebbe ammesso con se stessa che ciò che era successo era stata colpa sua, almeno in parte. Ma lui l'aveva colta di sorpresa. E tra cogliere di sorpresa e spaventare la differenza è minima. Odiava dover ammettere che bastava una stupidaggine a spaventarla. Non poteva permetterselo, non con la vita che aveva scelto.

    Va bene, forse la colpa era stata sua. Ma non erano neppure le sei del mattino. Era pur vero che alcuni clienti, di tanto in tanto, venivano a cercare Nick molto presto. Bussavano alla porta all'alba perché sapevano che lui era sveglio. Ma nessuno di loro era mai arrivato prima ancora che il sole sorgesse.

    Era buio. Notte fonda.

    Aveva appena parlato al cellulare. Aveva risposto con il caffè ancora in mano, in precario equilibrio insieme alle chiavi e alla sacca da viaggio, convinta che si trattasse di Karen, o di Jan, che volevano assicurarsi che fosse sveglia e stesse per uscire di casa. Invece era il suo amico Len Green, un poliziotto, che la sorvegliava come una chioccia. Sapeva che stava per partire, aveva detto, e voleva augurarle buon viaggio. E controllare che non fosse in ritardo. Ashley lo aveva ringraziato e aveva scherzato sul fatto che lei era sempre puntuale. Poi Len le aveva detto che forse quella sera, dopo il lavoro, avrebbe fatto un giro dalle parti di Orlando con alcuni amici pompieri, e che quindi avrebbero potuto vedersi.

    Quando Ashley aprì la porta, aveva ancora il telefono in mano.

    Non aveva sentito bussare. Neppure un colpetto leggero, niente. Aveva aperto la porta di fretta e si era fiondata fuori.

    Contro di lui.

    Nel buio, appena rischiarato dalla luce fioca che proveniva dalla casa, non lo aveva visto e gli era piombata addosso. Le sfuggì un urlo e lasciò cadere la sacca. Una delle scatole di dolci che portava con sé volò a terra. Aveva ancora in mano la tazza, insieme alle chiavi, e versò il caffè bollente addosso a tutti e due.

    «Merda!»

    «Merda!»

    Lui indossava una camicia di cotone a maniche corte aperta sul collo, così si scottò e imprecò, nello stesso istante in cui anche lei fece lo stesso. Quando la afferrò perché non cadesse, Ashley indietreggiò subito di qualche passo e si chiese se non fosse il caso di mettersi a urlare. Ma non le sembrava che quel tizio avesse cattive intenzioni.

    Aveva tutta l'aria di essere un muscoloso tipo da spiaggia.

    «Ma porca miseria.»

    «Già, porca miseria» le fece eco lui, mentre tentava di pulirsi dove il caffè l'aveva macchiato. «Sto cercando Nick.»

    «A quest'ora del mattino?»

    «Scusi tanto, ma è lui che mi ha detto di venire a quest'ora del mattino» rispose in tono irritato.

    Un amico di Nick? Ashley indietreggiò ancora e lo guardò accigliata. Forse. L'aveva già visto. Qualche volta. Non era uno dei clienti abituali, di quelli che passavano la vita al bar a guardare le partite di football. Le rare volte che l'aveva incrociato, lo aveva trovato un tipo taciturno e pensieroso. Vestito in modo diverso poteva essere Heathcliff, che si aggira nella brughiera. Capelli e occhi scuri, lineamenti marcati. Doveva avere all'incirca trenta, trentacinque anni, era alto e abbronzato, e aveva l'aspetto un po' ruvido di chi è abituato a stare all'aria aperta, come la maggior parte della gente che viveva da quelle parti.

    «Poteva anche bussare» disse, e subito dopo si pentì di essersi messa sulla difensiva. Lei viveva lì, in fondo.

    «È quello che stavo per fare, prima di essere ustionato dal caffè.»

    Era un invito, anche piuttosto esplicito, a scusarsi con lui. Poteva scordarselo. Si era spaventata e adesso era furiosa. Quella era casa sua, non c'era ragione al mondo per cui avrebbe dovuto aspettarsi di trovare un uomo lì fuori. E poi anche i suoi vestiti erano macchiati. Col cavolo che si scusava. Per nulla al mondo.

    «No!» esclamò, quando vide i biscotti a terra.

    Avevano già attirato i primi gabbiani.

    Lo guardò. «Mi ha rovinato i biscotti.»

    «Le ho rovinato i biscotti?» rispose. Con un tono che non le piacque per niente. Non le piacque neanche la sua espressione, più simile a una risata trattenuta che a un inizio di scuse. Come se i dolci non avessero la minima importanza.

    Invece ne avevano. Erano un regalo. Glieli aveva lasciati Sharon sul bancone. Due scatole legate con un bel fiocco, come augurio per un buon fine settimana.

    «Sono finiti tutti per terra. Sono biscotti fatti in casa. Sono buonissimi. Ed erano un regalo.» Si obbligò a tacere, iniziava a sentirsi ridicola, a prendersela tanto per dei biscotti. «Non so dove siano finite le chiavi, sono in ritardo e adesso devo anche cambiarmi. Il locale apre alle sette, tanto perché lei lo sappia. Nick però è già sveglio. Vado a chiamarlo.»

    «Ha dimenticato qualcosa, nella valutazione dei danni.»

    «Cosa?»

    «Che il caffè mi ha scottato. Potrei farle causa.»

    «Come no? Peccato che io ribatterei che lei ha fatto irruzione in casa mia e mi ha rovinato la camicetta.»

    «E i biscotti.»

    «E i biscotti. Se vuole farmi causa, si accomodi pure.»

    Rientrò in casa e gli chiuse la porta in faccia.

    «Nick!» urlò allo zio. «C'è qualcuno per te.»

    Non aspettò la risposta. Corse in camera sua, sopra il ristorante, e si cambiò più in fretta che poté. Quando uscì, trovò Nick in cucina insieme a quell'uomo. A quanto pareva si conoscevano davvero, perché parlavano in tono molto confidenziale davanti a una tazza di caffè. La videro e tacquero entrambi. L'uomo dai capelli scuri la osservò calmo, con l'aria dell'intenditore che sta per emettere il suo verdetto. Non le fu chiaro quale fosse il giudizio finale, ma non le importava. Non si sforzò neanche di essere gentile.

    «Ashley…» iniziò Nick.

    «Dov'è Sharon? È già sveglia? Volevo ringraziarla per i biscotti.» Ignorò di proposito il nuovo arrivato.

    «Sharon non si è fermata questa notte. Stamattina doveva lavorare. Ashley, se hai un momento…»

    «Non posso, se ritardo ancora trovo traffico.»

    Non era certo dell'umore giusto per presentazioni e formalità.

    «Guida con prudenza.»

    «Stai tranquillo. Mi conosci.» Lo baciò sulla guancia. «Ciao, ti voglio bene.»

    Uscì. Mentre raccoglieva da terra le sue cose e lanciava uno sguardo indispettito ai gabbiani che si aggiravano soddisfatti tra i biscotti, sentì Nick scusarsi con quel tizio.

    «Non so che cos'ha stamattina. Di solito è la ragazza più dolce del mondo.»

    Scusami tanto Nick, pensò. Si augurò che quell'uomo non fosse fra gli amici più cari dello zio.

    Arrivò da Karen con quindici minuti di ritardo e da Jan con venticinque. Ma quando furono finalmente tutt'e tre in macchina, non sembrò poi così importante e la tensione svanì in fretta.

    C'era ancora poco traffico e Karen e Jan erano di ottimo umore, eccitate all'idea di partire per quella breve vacanza insieme. Era rimasta una scatola di dolci e Jan ci si era buttata a capofitto.

    «Ehi, passa un po' qui quei dolci» disse Karen.

    «Non dici sempre che vuoi dimagrire? Lo faccio per te» rispose Jan. Poi passò a Karen, seduta davanti, la scatola di latta.

    Karen li offrì ad Ashley, che guidava.

    Lei scosse la testa. «No, grazie» rispose, gli occhi fissi alla strada.

    «È così che Ashley resta magra» osservò Jan. «A furia di dire no.»

    «È perché vuole diventare un poliziotto» ribatté Karen.

    Ashley rise. «No, è perché mi sono già abbuffata prima di uscire di casa» rispose.

    Era vero. Ai gabbiani era toccata solo una parte dei biscotti, gli altri li aveva mangiati lei.

    «Secondo te sono dietetici?» chiese Jan.

    «Le cose buone non sono mai dietetiche» sospirò Karen. «Ma li smaltiremo. Appena arriviamo in albergo, andiamo in piscina a nuotare, poi passeggiate a tutto spiano.»

    «Sicuro!» esclamò Jan, ironica. «Non faremo che poltrire per tutto il fine settimana. Accidenti, Ashley, dovevi proprio portarli i biscotti?»

    «Se non li avessi portati, ci saremmo fermate a mangiare qualche altra schifezza ancora più unta» rispose Ashley. «Anzi, ti è andata anche bene, erano molti di più.»

    «E cos'è successo?»

    «Li ho fatti cadere. Cioè, mi sono scontrata con uno che cercava Nick e sono volati per terra. È stata colpa sua, non mia.»

    «Tanto dobbiamo fermarci comunque, non si possono mangiare i biscotti al cioccolato senza caffè» osservò Karen. «Dev'esserci una regola scritta da qualche parte.»

    «Me l'ero fatto il caffè, ma poi…» iniziò Ashley.

    «Hai fatto cadere anche quello?»

    «Anche quello.» Sorrise a Jan nello specchietto retrovisore. «In realtà gliel'ho rovesciato addosso. Mi sono macchiata anch'io e ho dovuto cambiarmi. È per questo che sono arrivata in ritardo.»

    «E l'amico di Nick?» chiese Jan. «Si è incavolato?»

    «Cos'era? Un vecchio lupo di mare o uno carino?» volle sapere Karen.

    «Non credo che siano molto amici, ma l'avevo già visto qualche volta. Sì, credo proprio che fosse incavolato. Ma è stata colpa sua.»

    «Se tu gli hai versato addosso il caffè?» disse Jan.

    «Era proprio lì, subito fuori dalla porta. A chi verrebbe in mente di uscire di casa in piena notte e trovarsi davanti uno sconosciuto?»

    «A te, per esempio» rispose Karen. «Con tutti quei vecchi marinai che sanno che Nick è mattiniero e preferiscono bere il vostro caffè piuttosto che farselo da soli.»

    «Così, hai iniziato la giornata ustionando un vecchietto?» le domandò Jan. «Non è da te, Ashley.»

    «Non ho ustionato nessun vecchietto, tranquille.»

    «Non era un vecchietto?» Jan fece capolino tra i sedili.

    «Era giovane, giovane e cafone» rispose Ashley.

    «Non ci hai ancora detto se era carino» insistette Karen.

    Ashley esitò, pensierosa. Non badava molto ai clienti di Nick. Ora poi non lo aiutava nemmeno più molto, non come aveva fatto negli anni passati. Ma era una buona osservatrice. Prestava sempre attenzione alle facce della gente, perché le piaceva disegnare. Ricordava con precisione ogni lineamento. Le sembrava strano aver già visto quell'uomo e non averlo notato.

    «Non lo definirei carino.»

    «Peccato. Speravo che ci fosse finalmente qualcosa di nuovo e di eccitante da Nick» borbottò Jan.

    Ashley rimase in silenzio.

    «Non ha mica detto che non era eccitante» notò Karen.

    «In ogni caso, non è il tipo per cui vorrei provare interesse» tagliò corto Ashley.

    «Perché è stato maleducato?» chiese Jan. «A quanto ho capito neanche tu sei stata miss Cortesia.»

    Ashley scosse la testa. «Non sono stata maleducata. E va bene, sì, sono stata maleducata. Forse avrei anche dovuto scusarmi. Ma avevo fretta e lui mi ha colta di sorpresa, mi ha spaventata. Comunque, se ci tenete tanto a saperlo, è un tipo oscuro.»

    «Oscuro? Cos'è, ispanico? Afroamericano?» chiese Karen senza capire.

    «Ma no, oscuro, nel senso di ombroso. Capelli scuri, occhi scuri. Abbronzato. Il genere a cui piacciono le barche, il mare e il sole.»

    «Ha tutta l'aria di essere sexy, il tipo ombroso.»

    «Bel fisico?» chiese Karen.

    «Sì, credo di sì.»

    «Mi sa che devo venire un po' più spesso da Nick» rise Karen.

    «Come se tu avessi bisogno di andare in cerca di uomini» disse Jan.

    «Sì che ne ho bisogno. Chi vuoi che incontri a scuola? Sei tu quella che non ha problemi, con tutta la gente elegante che ti ascolta cantare. Ne vedrai un sacco, di uomini.»

    «Vederli è facile. Sono ovunque. È trovarne uno buono che è difficile» rispose Jan.

    «Bene, allora dimentica il locale di Nick. Lo dicono tutti gli psicologi: meglio diffidare degli incontri nei bar. Il bowling, piuttosto, o un posto del genere» aggiunse Ashley.

    «Odio il bowling» commentò Karen.

    «Ho bisogno di un biscotto» disse Jan, sconsolata.

    «Idem.» Karen tese la mano verso il sedile posteriore.

    Con la coda dell'occhio, Ashley vide Karen staccare un piccolo morso dal biscotto e masticarlo lentamente, gustando ogni briciola. Era così che Karen riusciva a restare in forma. Mangiava di tutto, ma lo sgranocchiava piano. Un biscotto poteva durarle un'ora. Nonostante le sue fisse sulla dieta, Karen era magra e piccolina, con gli occhi azzurri e i capelli biondo platino. Era la più disinibita delle tre. Jan invece era alta, aveva i capelli e gli occhi scuri, ed era tanto focosa quanto ci si sarebbe aspettati dalle sue origini sudamericane. Si conoscevano da anni, erano amiche fin dalle elementari. Avevano condiviso sempre tutto, le prime cotte, i sogni impossibili, i successi lavorativi.

    Era da settimane che sognavano quella vacanza. Ora che erano cresciute e che ciascuna di loro aveva la propria vita, non riuscivano mai a trovare il tempo per stare insieme. Karen insegnava e studiava per prendere la laurea. Jan era una cantante, sapeva che probabilmente non avrebbe mai sfondato e non sarebbe mai diventata famosa, ma non le importava. Le piaceva cantare e scrivere canzoni, e le bastava.

    Ashley invece frequentava da tre mesi il corso per entrare nella polizia. Vi si dedicava con tutta se stessa, non perdeva una lezione, voleva imparare tutto, dal minimo cavillo legale alle tecniche di autodifesa.

    «Credi che Sharon e tuo zio Nick si sposeranno?» chiese Jan, chinata in avanti.

    Sharon Dupre, l'artefice dei biscotti, si vedeva con Nick ormai da quasi un anno. Erano ancora innamorati come ai primi tempi.

    «Chissà» rispose Ashley, senza smettere di fissare la strada. «Nick è uno scapolone incallito. La pesca e il ristorante sono tutta la sua vita. Ma se Sharon riesce a sopportare le sue abitudini, potrebbe anche darsi.»

    «Be', Nick deve sopportare gli orari assurdi di Sharon, è sempre fuori a cercare di vendere qualche casa» commentò Karen.

    «Sì» mormorò Ashley. «Ma non è un problema per lui. Nick è del tipo vivi e lascia vivere.»

    Ashley conosceva suo zio meglio di chiunque altro. Era cresciuta con lui, dopo che i suoi genitori erano morti in un incidente d'auto, quando lei aveva tre anni. Li ricordava a malapena. Ma adorava Nick. Era riuscito a essere un padre e una madre per lei, con amore e tenerezza, e non c'era nulla che Ashley desiderasse di più per lui che la serenità che aveva inseguito per tutta la vita. Che scegliesse di sposare Sharon o un'altra donna non le importava, purché fosse felice.

    «Guardate questi pantaloni.» Jan si sporse in avanti e mostrò a Karen la pagina di una rivista. «Pensi che starebbero bene anche a una con le cosce grosse?»

    «Sì, belli» borbottò Karen.

    Jan le diede un colpo scherzoso sul braccio con la rivista. «Avresti dovuto dire che non ho le cosce grosse.»

    «Scusa. Non hai le cosce grosse. Credo che starebbero bene anche a me, nonostante il sederone.»

    «Quando i pantaloni sono belli, stanno bene a tutte» sentenziò Jan.

    «Avresti dovuto dire che non ho un sederone.»

    Jan tornò ad appoggiarsi allo schienale del sedile posteriore. «Quando avrai finito il corso e andrai in giro sull'auto di pattuglia a dare multe, chiuderai un occhio con le tue amiche, vero Ashley?» Indicò un'auto della polizia che le superava a sirene spiegate.

    «Al contrario, mi apposterò davanti a casa vostra sperando che usciate dal vialetto a tutta velocità.»

    «Senti chi parla» intervenne Karen. «Non lo so mica se sei sotto il limite adesso.»

    Ashley iniziò a rallentare.

    «Scherzavo!» esclamò Karen. «Così non arriviamo più.»

    «No, no, è successo qualcosa laggiù.» Ashley aggrottò la fronte.

    Le macchine davanti a loro avevano iniziato a inchiodare. Un paio rischiarono addirittura di andare a sbattere contro lo spartitraffico.

    Erano quasi alla barriera. In quel punto l'autostrada era a cinque corsie in entrambi i sensi di marcia, mancava solo qualche chilometro alla deviazione per l'autostrada est-ovest. Si trovarono improvvisamente bloccate nel traffico, in coda.

    «Ma cosa succede?» mormorò Ashley.

    La coda avanzò di poco e lei scorse due auto che sembravano essere state coinvolte in un incidente. Non era in servizio e comunque era ancora solo un'allieva, ma secondo il manuale, in caso di incidente, se non erano presenti altri agenti, aveva l'obbligo di fermarsi e aspettare l'arrivo di chi era in servizio.

    Karen sembrò leggerle nel pensiero. «No, non dobbiamo fermarci. C'è già una macchina della polizia lì avanti. Dev'essere appena arrivata.»

    Qualsiasi cosa fosse successa, era accaduta solo da pochi minuti. Le corsie non erano ancora state chiuse al traffico, quindi l'agente doveva essere arrivato da poco. Gli autisti delle due auto erano scesi. Uno era seduto sul bordo dell'aiuola spartitraffico con la testa fra le mani. L'altro, che doveva avere tamponato il primo, era in piedi vicino alla sua auto e fissava la strada.

    L'incidente era avvenuto nella corsia all'estrema sinistra. Ashley era in quella adiacente. Mentre avanzava, guardò a sinistra e notò con sollievo che nessuno dei due guidatori sembrava ferito.

    Ma qualcun altro sì.

    La coda avanzò ancora e Ashley trattenne il fiato.

    C'era un uomo sull'asfalto. Era disteso a terra, seminudo. La faccia in giù, la testa girata da una parte, sembrava morto.

    Ashley aveva studiato tutto quello che serviva per diventare un'agente di polizia. Aveva guardato i video che mostravano le scene più terribili che potevano presentarsi a un poliziotto. Ma la vista di quell'uomo, sdraiato in modo scomposto in mezzo all'autostrada, con indosso solo le mutande, era comunque scioccante.

    «Oddio» sospirò Karen.

    «Cosa?» chiese Jan, senza alzare gli occhi dalla rivista.

    Le mani incollate al volante, Ashley memorizzò l'intera scena. Prima la zona più vicina. La posizione delle due auto coinvolte. Il poliziotto e l'auto di pattuglia appena arrivata. Il corpo. La posizione. La testa, girata. Il sangue sulla pelle e sull'asfalto.

    Le auto che sterzavano a un pelo dallo spartitraffico. Altre auto che rallentavano, inchiodavano, lo stridio di freni. Lontano, oltre le corsie della carreggiata in senso opposto, qualcuno in piedi che fissava il traffico come se aspettasse il verde del semaforo.

    Oltrepassò il corpo. Le si era impresso nella mente, come una foto nitida. Il resto invece era confuso e sfuocato. Le auto che provenivano in senso opposto erano un caleidoscopio di colori. E quella sagoma ferma, che osservava la scena.

    Una sagoma indistinta. Senza volto. Vestita di nero. Poteva essere un uomo o una donna, Ashley non avrebbe saputo dirlo. Forse era coinvolto nell'incidente. Forse era un amico dell'uomo investito.

    «Cosa? Che cosa è successo?» chiese Jan dal sedile posteriore.

    «C'era un uomo steso a terra. Sull'autostrada» rispose Karen, con la voce che tremava ancora per lo shock.

    «Un uomo per terra?» Jan si voltò.

    Lo avevano oltrepassato.

    «Forse dovrei tornare indietro» borbottò Ashley.

    «Neanche per sogno. Quel poliziotto ha già abbastanza da fare, senza doversi preoccupare anche di te» disse Karen.

    Aveva ragione. C'era già un agente sulla scena. Anche se avesse preso la prima uscita e fosse tornata indietro, al suo arrivo sul posto ci sarebbero già stati l'ambulanza e altri poliziotti.

    «Dimenticati di questa storia» l'ammonì Karen, seria. «Ti prego Ashley. Quante volte ci capita di fare una vacanza tutte e tre insieme? E poi non sei in servizio. Non sei ancora un poliziotto a tutti gli effetti. Se cominci a prendere tutto così a cuore, andrà a finire che sarai troppo coinvolta emotivamente per poter vedere le cose con lucidità.»

    «Non sono neanche riuscita a vedere il cadavere» si lamentò Jan.

    «Sei fortunata» ribatté Ashley in tono amaro.

    «Ci sono incidenti tutti i giorni» insistette Karen. «La gente muore e continuerà a morire.»

    Ashley la guardò di sfuggita. «Però non capita tutti i giorni che qualcuno muoia praticamente nudo, steso sull'autostrada» replicò.

    «Sarà uscito da una delle auto?» chiese Jan.

    «Può darsi, ma come?» disse Karen.

    «Forse era nel sedile accanto al guidatore ed è stato sbalzato fuori al momento dell'impatto» suggerì Jan.

    «E se ne andava in giro in mutande?»

    «Siamo in Florida, Ashley. Dovresti frequentare di più i club di South Beach» osservò Jan. «Forse se ne andava in giro mezzo nudo, chi può dirlo?»

    «Non credo che fosse in una delle macchine.» Ashley ripensò alla posizione delle auto e del corpo.

    «Allora passeggiava per l'autostrada in mutande?»

    «Magari al notiziario dicono qualcosa» aggiunse Karen.

    Trafficò con la manopola della radio fino a quando non trovò la stazione che cercava. La cronista terminò con le notizie da Washington e

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