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Emancipated: L'altra faccia della libertà
Emancipated: L'altra faccia della libertà
Emancipated: L'altra faccia della libertà
E-book381 pagine4 ore

Emancipated: L'altra faccia della libertà

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Info su questo ebook

Il bad boy, la brava ragazza, la diva, lo sportivo, la rocker, la nerd: sei ragazzi bellissimi e legalmente liberi dal controllo dei genitori per varie ragioni, ma con una cosa in comune: un segreto da nascondere.

Segreto nr. 1: non tutti sono ciò che sembrano

Ora vivono insieme in una casa a Venice Beach, si comportano come se appartenessero a una grande famiglia e vivono le proprie bugie. Uno ha assistito a un delitto, un altro potrebbe essere un assassino... e un terzo è lì per spiarli.

Segreto nr. 2: la libertà non è gratis

Mentre si aggrappano a un sogno di libertà e abbassano la guardia, il passato di soppiatto si avvicina. E quando uno di loro viene arrestato, la facciata accuratamente costruita degli altri si sgretola.

Segreto nr. 3: la verità prima o poi salta fuori.

Fino a che punto saranno disposti ad arrivare per nascondere il passato? E chi tradiranno per proteggere il proprio futuro?

Raccontato dai sei punti di vista dei protagonisti, Emancipated: l'altra faccia della libertà è il primo romanzo di una serie in cui le relazioni vengono messe alla prova e i mondi si scontrano in un perverso gioco di indovinelli. I fan di Pretty Little Liars e i lettori di L.A. Candy lo divoreranno.


"Fan di Pretty Little Liars, preparatevi alla vostra nuova serie preferita. "
- New in Books
LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2016
ISBN9788858949641
Emancipated: L'altra faccia della libertà
Autore

M. G. Reyes

M. G. Reyes (Guadalupe, aka "Pita") was born in Mexico City and grew up in Manchester, England. She studied at Oxford University and spent several years as a scientist before setting up her own internet company. She lives in Oxford, England, with her husband and grown son. She loves visiting LA! 

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    Anteprima del libro

    Emancipated - M. G. Reyes

    1

    GRACE

    San Antonio, sabato 1 novembre

    La storia ebbe inizio così: Candace voleva andarsene da casa e Grace trovò la soluzione.

    Le due sorellastre non ne potevano più dell'atteggiamento della madre di Grace: le liti, le urla, le minacce di divorzio. Da quando aveva compiuto diciassette anni, Candace si confidava spesso con la sorella minore, temendo di essere proprio lei la causa dell'infelicità dei genitori.

    Le ragazze erano distese sul prato di casa, con i lunghi capelli biondi che serpeggiavano tra i fili d'erba e le gambe nude e abbronzate che spiccavano in mezzo a tutto quel verde. Grace sbirciò la sorella attraverso le dita delle mani. Con i suoi sedici anni era più giovane di Candace, ma spesso aveva l'impressione di essere la maggiore delle due. La sorella acquisita aveva trascorso gran parte del suo tempo fra corsi di ogni genere − canto, teatro, danza, equitazione, scherma − che non le avevano lasciato molto spazio per leggere, pensare, ascoltare e riflettere.

    O forse Grace era semplicemente più matura per via di qualcosa che le era accaduto da piccola?

    «Non credo sia colpa tua, Candace. Ma è tipico, no?» Grace rotolò su un fianco. «Anche gli psicologi vanno a parare subito lì, quando seguono ragazzi che arrivano da famiglie problematiche

    «Ah, bene» mormorò Candace. «Quindi sarei un caso da manuale?»

    «Suppongo di sì, ma che importa?»

    Scoppiò a ridere, mentre Candace le tirava calci negli stinchi con i piedi nudi.

    Purtroppo anche Grace, in cuor suo, sospettava che i timori della sorella fossero fondati, che fosse davvero lei la causa. Nonostante la condotta impeccabile, Candace era riuscita a mettere in crisi il matrimonio dei genitori. Da fuori, le due ragazze riuscivano a sentire la furiosa discussione in corso tra le pareti di casa.

    «Non me ne starò zitta e buona a guardare nostra figlia che manda all'aria la sua carriera solo perché tu non vuoi muoverti da qui» stava dicendo la madre di Grace.

    «Ma Tina, tesoro, cosa ci verrei a fare io a Los Angeles?» chiese il padre di Candace.

    «Perfetto, allora resta qua. Ma lasciami portare Candy a Hollywood.»

    Grace avvertì il patrigno trattenere il fiato, nel tentativo di sorvolare ancora una volta sul nomignolo, senza riuscirci. «Non chiamarla così.»

    «E va bene, Candace» rispose Tina, sforzandosi a sua volta di mantenere il tono della voce sotto controllo. «Le ho già fissato la prima audizione in tv. È tra un mese. Deve andarci a vivere per forza, porca miseria. Lo dicono tutti gli esperti dell'ambiente. Trasferitevi a Los Angeles

    «Senti, Tina, hai − abbiamo − altri quattro figli da tenere in considerazione.»

    Grace sapeva bene che l'uso della prima persona plurale era solo un eufemismo. Dal punto di vista biologico erano tutti e quattro soltanto di Tina. L'ossessione della madre per l'unica figlia che il marito aveva portato in quella famiglia allargata era un argomento che nessuno voleva affrontare apertamente. Ma ora Tina aveva deciso di lasciare lui, Grace e i tre fratelli più piccoli a San Antonio per inseguire il suo folle sogno hollywoodiano.

    Grace notò il senso di frustrazione crescere sul volto di Candace. Rivolse lo sguardo alle lunghe gambe della sorella, che si stendevano snelle e flessuose davanti a lei, sbucando dagli shorts di jeans. La vide ruotare il capo verso destra, quanto bastava per lanciare una rapida occhiata oltre la spalla, verso l'interno della casa. I genitori si erano spostati dal salotto con le finestre alla francese in cucina. Ora le ragazze non riuscivano più a distinguerne le voci con chiarezza.

    Grace allora si concentrò sulla sensazione che le provocavano sotto le cosce, come centinaia di aculei smussati, gli ispidi fili d'erba che aveva falciato nel pomeriggio. Quando la sorella finalmente risollevò lo sguardo, aveva un sorriso velato di tristezza. Grace sorrise a sua volta. Quelle liti stavano diventando un vero strazio per tutti i componenti della famiglia. Uno strazio prevedibile e ripetitivo.

    Candace si accigliò. «Che cavolo, Tina sembra davvero convinta che a forza di lagnarsi riuscirà a farlo crollare.»

    «Lo fa per te» le rammentò Grace con cautela.

    «Voglio bene a tua madre, Grace, ma sappiamo entrambe che non lo fa per me e basta. Hai sentito come parlava di quello spot dei jeans. Io, questa storia... fa tutto parte del suo desiderio di appartenere di riflesso al mondo hollywoodiano.»

    Grace annuì. «Sì, me ne sono accorta.» C'era un che di strano nelle mamme da palcoscenico: avevano motivazioni molto altruistiche all'apparenza, ma solo in rari casi si confermavano tali di fronte a un'analisi più minuziosa.

    «Una soluzione ci sarebbe» disse Grace esitante.

    «Lo so» replicò Candace. «Ho già detto che mi va bene aspettare la fine delle superiori.»

    «Non intendevo quello.» Poi Grace aggiunse con dolcezza: «E sai meglio di me che non puoi aspettare. Il tuo momento è arrivato, Candace. È adesso».

    Rimasero un attimo in silenzio. L'ineluttabile verità era il fulcro del dilemma familiare. Candace era un frutto al culmine della maturazione. I lunghi capelli castano dorati, con i riflessi fragola, le ricadevano sulle spalle fluidi come miele appena versato. La pelle, senza il minimo ricorso a una stremante routine di diete e trattamenti purificanti, era liscia e rosata come una pesca. Aveva gli occhi nocciola e le labbra morbide e piene, di una perfetta tonalità color lampone. I suoi movimenti ricordavano quelli di una ballerina classica che si scioglie dalla stretta di un abbraccio.

    La stessa Candace sembrava stupirsene. Grace l'aveva notato in qualche occasione, aveva visto come la sorella si soffermava davanti alla propria immagine riflessa nello specchio. Non per rimirarsi ma come sorpresa davanti a una figura estranea. Talvolta Grace si chiedeva chi fosse la persona con la quale divideva la stanza. Candace non era più la ragazzina allampanata degli ultimi anni trascorsi insieme, durante i quali avevano forgiato quel solido legame tra sorelle. Era diventata un'altra, una giovane donna che emanava grazia e sensualità con discrezione. Se si atteggiava appena e arricciava anche solo un po' le labbra, era una teenager provocante a ricambiare il suo sguardo nello specchio. Trasformazione totale. Come se le bastasse un piccolo click nel cervello, una minima variazione nel comportamento, per diventare qualunque cosa gli altri volessero vedere.

    Fra tutti gli abitanti del pianeta, a ricevere quell'immeritato dono di un viso e un corpo da dea camaleontica era stata proprio la prima persona che Grace vedeva aprendo gli occhi al mattino.

    Non le sembrava affatto giusto, ma le cose stavano così.

    «Se rimani a San Antonio» continuò Grace, «sprecherai i tuoi anni migliori.»

    «Ma avrò un diploma.»

    «Dicono che anche a Los Angeles ci siano le scuole. Di questi tempi...»

    «Era ora.»

    «Già» rispose Grace con un sorrisetto. «Quelle teste vuote. Non penseranno di tirare avanti per sempre solo grazie alle loro belle facce. Non sarebbe giusto!»

    «Marmocchi viziati e lagnosi» replicò Candace.

    «Filate subito a scuola, fighetti di Beverly Hills.»

    Le ragazze scoppiarono a ridere. Candace fissò gli occhi della sorella minore per un secondo. «Non posso andarmene. E tu, più di tutti, dovresti sapere perché.»

    «Sì, lo so, senza di me saresti morta» rispose Grace ironica. «E se venissi con te?»

    «Non. Succederà. Mai. Tina alla fine si arrenderà e papà mi farà compilare la domanda di ammissione all'università. Fine della storia.»

    «Potresti tornare da tua madre.»

    Candace si rabbuiò. «La Strega Cattiva di Malibù? Se a malapena sopporta di vedermi per una settimana, quando è costretta a venire a trovarmi qui!»

    «Ma è piena di soldi, no?»

    «Per essere precisi, quello ricco è il Fattone.»

    «Un appellativo non proprio rispettoso nei confronti del tuo patrigno.»

    «Non nominarlo nemmeno» replicò Candace. «Peccato che non voglia farmi strada nel mondo dell'arte. In quel caso, almeno, il Fattone mi tornerebbe utile.»

    «Però, se spostassi di nuovo la residenza ufficiale a casa di tua madre, ci sarebbe un'altra opzione.»

    «Dico sul serio, Grace, non voglio tornare a vivere con loro.»

    «E se, tecnicamente, non fosse necessario?»

    «Okay» si arrese Candace. «Non ti seguo. Come faccio a vivere con mia madre senza vivere con lei?»

    Grace sfoderò un sorriso rivelatore. «La soluzione sta in una parola, cara la mia disfattista. Emancipazione

    «Eh?»

    «Se risiedi in California, una volta compiuti i quattordici anni puoi chiedere l'affrancamento legale dalla patria potestà dei genitori. Con quello che guadagni te ne vai a vivere per conto tuo. E siccome tua madre abita in California, anche tu puoi avere la residenza lì.»

    «Così Tina non si prenderebbe i miei soldi?» disse Candace, con un ghigno repentino e malizioso. «Wow, fico. Non lo dici solo perché vuoi la camera tutta per te?»

    Il sorriso di Grace si fece più ampio. «Fammi finire. In Texas devi avere sedici anni. E, guarda caso, io li ho già compiuti.»

    «Quindi stai parlando di tutte e due?» chiese Candace. «Io e te, minorenni emancipate?»

    Grace annuì. «Centro, sorellona.»

    2

    PAOLO

    Tennis club di Malibù, mercoledì 5 novembre

    Paolo era arrivato al punto che non sapeva più perché continuava a perderci tempo. Non c'era nessuno al club in grado di batterlo. Continuava a dare lezioni a un paio di persone, ragazze ricche che volevano lui e soltanto lui. Ma il compenso, relativamente parlando, era una miseria. Nell'ultimo torneo al quale aveva partecipato era riuscito a raccattare più di tutto il guadagno ottenuto fino a quel momento con le lezioni di tennis part-time.

    Poi gli venne in mente il pozzo senza fondo delle tasse universitarie. O riusciva ad accaparrarsi una borsa di studio per Stanford o per la Ivy League con un bel rovescio − cosa davvero poco probabile − oppure gli sarebbe toccato sobbarcarsi tutte le spese per l'università e la specializzazione in legge. Così, per quanto fosse esausto dopo l'allenamento, Paolo puntò verso le docce. Strofinò via ogni traccia di sudore, si lavò i capelli con uno shampoo alla mela verde e si asciugò per bene. Prese dall'armadietto un completo da tennis fresco di bucato, lavato e stirato con cura dalla mamma. Si vestì. Guardò l'ora. La sua allieva sarebbe arrivata a momenti. Diede un'occhiata ai capelli. Ingellati all'indietro non gli stavano granché bene, ma con quella ragazza era meglio così. Ormai non sapeva più come fare a scrollarsela di dosso.

    Livia Judge lo aspettava già in campo. Lo chiamò a gran voce: «Ciao tesoruccio!». Aveva pronunciato quel ciao al rallentatore. Forse le suonava più sexy. Un paio di mesi prima Paolo avrebbe pensato la stessa cosa. Da allora si era portato a letto un altro paio di allieve, iscritte al club del Ciao rallentato. Niente di memorabile. Ci voleva ben altro per sedurlo davvero. Ora l'aveva capito. Che cosa fosse non gli era chiaro, ma quelle principessine viziate non ce l'avevano, di questo era sicuro. Voleva qualcuna che gli facesse perdere la testa e gli riducesse il cuore in tanti piccoli frammenti. Gli dicevano tutti che l'amore fa soffrire, eppure fino a quel momento Paolo si era imbattuto in uno stuolo infinito di sorrisi piacenti ma insipidi. Sorrisi splendidi, veri capolavori di ortodonzia. Così vuoti, però.

    In ogni caso, il sesso era sesso. Paolo sorrise alla sua immagine riflessa nello specchio. Il ragazzetto carino che da sempre si vedeva di fronte ricambiò quel sorriso. Gli sembrava di non dimostrare più di dodici anni. Proprio non capiva cosa ci vedessero quelle ragazze di vent'anni e passa in un bambinetto come lui. Ma in fin dei conti, perché rifiutarle?

    Dopo la lezione, Livia lo invitò a casa sua. Per un... drink.

    «Non bevo durante gli allenamenti» le ricordò con gentilezza.

    «Allora ti offro una camomilla» rilanciò lei, sorridendo al rallentatore. Il viso e il petto le rilucevano di un rossore pieno di salute, umidi come appena usciti da un banco di nebbia. Paolo sentiva l'odore lieve di sudore pulito. Provò a immaginarsela nuda che gli tendeva le braccia. Ma niente.

    «Devo andare» ribadì. «Mia madre ha preparato una cena speciale per stasera.»

    «Oooh, per il figlio altrettanto speciale.»

    Lui annuì. «Pare di sì.»

    «Quanto è fortunata, Caroline. Vorrei avere anch'io un figlio come te.»

    Paolo si morse un labbro. Certo, come no.

    Livia gli diede un colpetto affettuoso sul braccio. «Ci vediamo la settimana prossima?»

    «Okay.»

    «E magari ti terrai libero anche per il resto del pomeriggio?»

    Paolo deglutì. «Magari» riuscì appena a rispondere.

    Ma che problemi avevano tutte quante? Livia Judge era figlia del direttore di uno studio di Hollywood. Frequentava le star del cinema e della televisione. Perché cavolo non lo lasciava in pace? Lui voleva soltanto fare il suo lavoro, arrivederci e grazie. Invece no. A ogni lezione era un continuo commentare la forza dei suoi quadricipiti, gli addominali scolpiti e lanciargli sbirciatine maliziose sotto l'ombelico quando saltava per colpire una palla alta.

    Tornò a casa sulla sua Chevrolet Malibu e parcheggiò lungo il marciapiede. Il vialetto era occupato dalle due automobili dei genitori più quella della sorella maggiore. Annusò l'aria: si sentiva l'aroma inconfondibile del pesce alla griglia. Si diresse verso il giardino sul retro, dove trovò la madre, il padre e la sorella Diana che sorseggiavano un calice di vino bianco. Non appena lo vide, sua madre lo accolse con un sorriso affettuoso. Gli versò un bicchiere di tè freddo. Paolo notò che i suoi si erano scambiati un'occhiata furtiva. Suo padre aveva distolto lo sguardo da Diana, che gli stava parlando, per incontrare quello della moglie. Paolo avrebbe giurato che fossero nervosi.

    «Spero tu sia affamato» gli disse sua madre.

    «Come sempre.»

    «Allora diamoci sotto!» rise il padre con voce forzata, dandogli una pacca sulla schiena. «Va tutto bene, figliolo?»

    «Benissimo.»

    «E al club come procede?» continuò lui.

    «Alla grande.»

    Suo padre affondò la forchetta nel piatto ricolmo di cibo. «Dai, prendi un po' del salmone che ha preparato tua madre, è ottimo. Assaggia anche l'insalata di cavoli. Quella l'ho fatta io. Ricetta speciale!»

    «Sì, lo so, il tuo ingrediente segreto è la salsa di Tabasco.»

    Come da copione.

    Paolo si rilassò sulla sedia e mangiò con avidità, osservando i genitori. Aveva davvero fame, ma quella sera c'era qualcosa nel loro comportamento che lo innervosiva. Passò al vaglio tutte le spiegazioni che potessero riguardarlo. Non era tempo di pagella. Per quel che ne sapeva, i suoi non aspettavano nessun esito medico. La sorella era solo di passaggio perché frequentava la facoltà di biochimica all'UCSF, l'Università della California, quindi non c'entrava nemmeno lei. Si ritrovò a sbirciare di nascosto la pancia della madre. Era di nuovo incinta, per caso? Ma aveva quarantasette anni, non poteva essere. O sì?

    Eppure si vedeva che dovevano dirgli qualcosa. Più i minuti passavano e più l'aria si caricava di tensione. Quando incrociava i loro sguardi, i genitori ricambiavano con sorrisi forzati. Paolo posò il piatto sull'erba con attenzione. Si alzò da tavola e raggiunse i tre familiari che, stretti attorno al barbecue, stavano affettando un grosso pezzo di salmone fumante.

    Fu sua madre a parlare per prima. «Paolo, tesoro, c'è qualcosa che dovremmo dirti.»

    Lui annuì.

    «Hanno offerto a tuo padre un nuovo lavoro importante. È un'incredibile opportunità.»

    «Bello, e la fregatura dov'è?»

    La madre si rabbuiò. «Perché dici così?»

    Il padre scosse la testa, sforzandosi di sorridere. «Caroline, i tuoi figli non sono stupidi.» Poi si rivolse a Paolo. «Hai ragione, la fregatura c'è. Il lavoro non è qui, ma in Messico.»

    «In Messico?» chiese Paolo. «Quella miniera di rame che andavi sempre a vedere?»

    «Quella. Mi vogliono sul posto a tempo pieno. Solo per un paio di anni.»

    «Ma è dispersa nel nulla!»

    Il padre annuì. «Lo so.»

    «Non puoi semplicemente...» Paolo si interruppe. Non capiva un tubo del lavoro del padre, figuriamoci se poteva avviare una discussione. Un paio di anni prima ci avrebbe provato lo stesso. Ora sapeva che non aveva senso. Lo guardò negli occhi con aria implorante. «Papà, per favore. Non puoi rinunciare?»

    «Non posso. È il mio cliente più importante. Se si tira fuori dall'affare, perdo ottantamila sacchi che devo andare a recuperare da qualche altra parte. Se invece mi trasferisco laggiù per un paio di anni, sono disposti a darmi anche il doppio. Più i costi del trasloco.»

    «Ma... e la scuola? E il tennis?»

    La madre gli strinse il braccio per rassicurarlo. «Andrà tutto bene, Paolo. Troveremo una soluzione.»

    «Tipo una scuola messicana internazionale e qualche lezione di tennis quando capita? Non se ne parla proprio» replicò Paolo disgustato.

    Lei scosse la testa. «No. Puoi rimanere qui in California.»

    «Con la zia Janet? Stai scherzando, vero?»

    Il padre tossicchiò. «Direi che siamo tutti d'accordo sul fatto che zia Janet non sia la soluzione giusta.»

    Paolo rimase con la bocca semiaperta. «E allora quale sarebbe? Mi lasciate qui da solo? Me la caverei benissimo.»

    Il padre negò con un cenno del capo. «Da un punto di vista legale, saremmo comunque responsabili delle tue azioni. E francamente, figlio mio, la cosa non ci farebbe dormire sonni tranquilli a meno che non abitassimo nello stesso paese. Sappiamo cosa combinano gli adolescenti: siamo già sopravvissuti a tua sorella. Invece in questo modo la legge ti consente anche di tenere per te tutto quello che guadagni con le lezioni e i tornei di tennis. Anche se noi preferiremmo che li versassi subito su un conto di risparmio ad alto rendimento. Dopotutto, dobbiamo cominciare a pensare all'università.»

    «Quante balle» sbottò Paolo. «Perché non ammettete che state solo morendo dalla voglia di riprendervi la vostra agognata libertà?»

    «Be', ragazzo mio, non mi pareva bello metterla in questi termini» rispose il padre sorridendo con affetto.

    Alla fine fu Diana a prendere la parola. Aveva osservato l'intera scena con discrezione compiaciuta attraverso il bicchiere di sauvignon, come se aspettasse il suo momento.

    «Non preoccuparti, fratellino, ti assicuro che è molto meglio che restartene qui da solo. Decisamente meglio.»

    Paolo si voltò a guardarla. «Ma si può sapere di cosa state parlando?»

    Diana gli sorrise maliziosa. «Hai appena avuto una gran botta di culo, nanetto. Mamma e papà ti fanno emancipare

    3

    ARIANA CHIAMA CHARLIE

    Mercoledì, 5 novembre

    «Non sembrava spaventato. Questo me lo ricordo. Non gridava. Non si sentivano rumori.»

    La voce all'altro capo del telefono era titubante, intimorita. Un'adolescente sul punto di rivelare qualcosa di terribile. Non era facile convincerla a raccontare il suo segreto. Ma Ariana Debret non aveva scelta: non poteva fallire. Sapeva che avrebbe dovuto spillarglielo con estrema lentezza, come si fa per estrarre un'ostrica dal guscio, viva e intatta.

    Ci aveva azzeccato: pian piano le parole presero a fluire e lei non dovette fare altro che incoraggiarle.

    «Sembra un ricordo davvero orribile» commentò Ariana comprensiva.

    Dall'altra parte, la voce parve dubbiosa. «È più come una specie di sogno.»

    «Il mio psicologo dice che i sogni ricorrenti spesso si scambiano per ricordi» ammise Ariana. Un tempo l'unico argomento di cui parlavano erano le sedute di psicoterapia che entrambe seguivano. Ariana aveva ritrovato il sorriso grazie alle battute sarcastiche dell'altra sugli analisti. Quando si erano conosciute, l'amica, che era più giovane di lei, aveva appena iniziato le superiori. Ariana si rese conto di quanto fosse cresciuta negli ultimi due anni.

    «Ma vai ancora dallo psicologo?» chiese Charlie, tirando su con il naso. «Ah. Io ho mollato il mio quando sono uscita dal gruppo.»

    Per un attimo Ariana non disse nulla. Perché aveva accennato alla terapia? Che stupida. L'ultima cosa che voleva era che quella ragazzina si rivolgesse a uno psicologo per l'infanzia senza il minimo credito e vuotasse il sacco con lui. Assunse un tono più che mai rassicurante. Confidenziale. «Raccontami come prosegue il tuo sogno.»

    Ci fu un lungo sospiro all'altro capo del telefono. «Be', okay» acconsentì Charlie. «È notte. Sono alla festa ma tutti gli altri devono essere già andati via. Sento delle voci attorno alla piscina. Io sono davanti a una finestra. È a questo punto che lo vedo. Illuminato dal basso. Il volto abbagliato dal chiarore delle luci sul fondo della piscina. Indossa un gran bel vestito. Di marca, intendo. Quando cade, allunga le braccia in avanti come per proteggersi il viso. Non sembra spaventato. Non sento urla né niente, solo lo schiaffo del suo corpo contro l'acqua. Alle sue spalle vedo delle sagome scure, le palme. E c'è qualcuno laggiù, nell'ombra. Poi la persona nell'ombra si inginocchia. Sì, mi ricordo le ginocchia bianche. Poi una mano sulla testa dell'uomo, che lo tiene sott'acqua.»

    La voce si fermò, poi riprese. «Non voglio pensare a quella mano. Non devo pensarci. L'uomo nell'acqua non si ribella più di tanto. Voglio andarmene ma non ci riesco. Sono sulle scale e guardo fuori dalla finestra aperta del primo piano. Basta alzare lo sguardo per vedermi. Sarebbe più intelligente sparire da lì. E vorrei tanto farlo. Ma i miei piedi sono... come piantati per terra.»

    «Capita anche a me» la interruppe Ariana. «Nei sogni. Capita a tutti. Quella sensazione di essere radicati sul posto.»

    La voce proseguì. «Poi sento qualcuno che mi chiama. È un sussurro, in realtà, ma mi raggiunge attraverso l'acqua: Charlie... Ehi, Charlie. Io non riesco a parlare, allora faccio solo un cenno con la mano. E piano piano, anzi pianissimo, torno a sentire le gambe. Mi gira tutto, tremo dalla testa ai piedi...»

    Ariana annuì. «E non sai cosa hai appena visto.»

    «No, non lo so. Poi sento una mano che afferra la mia, con dolcezza. Qualcuno che mi dice: Sei sonnambula, tesoro. I sogni ti trascinano per i capelli. Diceva proprio così. E poi: Ora torna a letto, Charlie

    «Ti chiama Charlie?» chiese Ariana. «Come il personaggio che interpretavi in quella serie televisiva?»

    «All'epoca mi chiamavano tutti così. Non m'importava. A quel tempo ero felice di essere Charlie. Mi è dispiaciuto quando ho dovuto smettere.»

    «E ora?» chiese Ariana. «Ti piacerebbe essere ancora Charlie?»

    «Penso che... mi piacerebbe non esserlo mai stata. Charlie ha visto un uomo che veniva affogato.»

    «Ma come? Da quello che dici era solo un sogno» replicò Ariana. «Un sogno che si è mescolato con quello che hai sentito raccontare dopo. La storia di Tyson Drew.»

    «Se è stato solo un sogno... perché continua a tormentarmi dopo tutti questi anni?»

    «Non lo so, tesoro. Non ne ho proprio idea. Potrebbero esserci mille motivi.»

    La voce all'altro capo del telefono divenne appena percettibile. «Pensi che c'entri qualcosa con il fatto che... be', lo sai...»

    «So che cosa?»

    «Che ho preso un brutto andazzo?»

    Ariana rimase perplessa. «Credi di aver preso un brutto andazzo?»

    Charlie rispose con tono fragile. «Qualcuno la pensa così. Altrimenti perché vogliono che me ne vada di casa?»

    «Te ne vai di casa?»

    «A quanto pare.»

    Ariana non ebbe bisogno di fingere la sua disapprovazione. «Ma sei ancora una ragazzina! Dove andrai a vivere?»

    «A Los Angeles. Sto per ottenere l'emancipazione.»

    «Los Angeles? Cavoli. Ma perché?»

    Seguì una risata amara. «Per il mio brutto andazzo, credo. Non abbiamo la minima intenzione di essere noi a pagare per le tue trasgressioni adolescenziali. Queste le parole esatte di mia madre.»

    Ariana non credeva alle sue orecchie. «Mi stai dicendo che i tuoi hanno intenzione di emanciparti? Cioè puoi andare a vivere da sola, firmare contratti, trovarti un lavoro... emancipata in quel senso?»

    «Esatto. Niente genitori. Niente nido protettivo.»

    «Va be', anch'io vivo da sola. I miei non mi danno un soldo da quando avevo diciassette anni» replicò Ariana.

    «Ma tu sei già maggiorenne, Ariana. Hai finito la scuola. Hai un lavoro. L'emancipazione è una cosa diversa. C'è un'ordinanza del giudice che mi dichiara responsabile dal punto di vista economico.»

    «Ma sì, tesoro, so bene come funziona, lavoro in uno studio legale! Abbiamo gestito le pratiche di alcuni casi di emancipazione. I tuoi genitori devono dimostrare alla corte che hai soldi a sufficienza per mantenerti.»

    «Infatti. Mi daranno una somma mensile, quanto basta per affittare una stanza da qualche parte, comprare da mangiare e prendere l'autobus quando serve.»

    Ariana annuiva in silenzio. A pensarci bene l'emancipazione sembrava davvero una cosa sensata per la sua amica. «Mettila così, almeno puoi scegliere da sola che scuola frequentare.»

    Seguì un sospiro. «No, i miei vogliono mantenere quell'aspetto sotto il loro controllo. Non importa se sono qui o a Los Angeles: per quanto riguarda la scuola, mi tocca filare dove mi spediscono.»

    4

    JOHN-MICHAEL

    Carlsbad, lunedì 1 dicembre

    «Ora è tutto a posto, papà» mormorò John-Michael.

    Vedere il pugno serrato del padre, disteso sulla trapunta, gli rendeva ancora più difficile il compito di concentrarsi su quello che doveva fare. L'uomo era girato su un fianco, con la faccia rivolta alla finestra. Fatta eccezione per quel pugno, con le vene bluastre cariche di rabbia e tensione, sembrava sereno.

    John-Michael chiuse gli occhi e gli afferrò la mano, ne distese le dita con delicatezza e la infilò sotto le coperte.

    «Non devi più preoccuparti per me, ora» sussurrò.

    L'orologio sul comodino segnava le 22.35. Cifre spesse e alte un paio di centimetri, bianche sullo sfondo nero: la scelta di un uomo che cominciava a perdere la vista. John-Michael aveva sempre odiato quell'orologio. Gli era pesato ogni sintomo della vecchiaia del padre e della relativa morte imminente. Era già abbastanza disgustoso essere figlio di un vedovo gonfio di rabbia, figuriamoci da quando l'avanzare dell'età aveva reclamato il suo tributo. Si spostò verso l'altro lato del letto. Era lì che il padre conservava i ricordi più cari della moglie, sua madre. Quando John-Michael era piccolo, suo padre sparpagliava quegli oggetti sul letto

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