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Storia degli Stati Sabaudi: 1416-1848
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E-book571 pagine6 ore

Storia degli Stati Sabaudi: 1416-1848

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Il volume ricostruisce la storia degli Stati sabaudi nel periodo compreso fra il 1416, quando Amedeo VIII, conte di Savoia, ottenne dall’imperatore il titolo di duca, e il 1848, anno in cui Carlo Alberto, re di Sardegna, promulgò lo Statuto. L’intento è offrire un’opera storiograficamente aggiornata, ma soprattutto ricollocare nel dovuto contesto un territorio il cui consolidamento ha attraversato, nel corso dei secoli, fasi complesse e non lineari. Leggere le vicende degli Stati sabaudi d’antico regime attraverso il prisma della “nazione” – nel senso che questa espressione ha assunto dopo la Rivoluzione francese – rischia di far perdere di vista che fu proprio l’affermarsi del principio nazionale a portare alla loro scomparsa, attraverso un processo non necessario né prefigurato dalla storia precedente. La prospettiva storiografica qui adottata è invece quella di considerare la storia del Piemonte e della Savoia come una monarchia composita e dall’identità plurale, esplorata per grandi temi: la dinastia, l’evoluzione territoriale degli Stati, il ruolo del sovrano, del governo e dell’amministrazione, l’organizzazione militare, la divisione in ceti e l’economia, la funzione culturale della corte e la fioritura della legge. In quest’ottica emerge un tratto pluri-nazionale, pluri-linguistico e pluri-religioso che conferisce a questi Stati il principale elemento d’interesse valido anche per capire il presente.
PAOLA BIANCHI insegna Storia moderna all’Università della Valle d’Aosta. Membro del Comitato di direzione di «Società e storia» e del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari, ha pubblicato: Onore e mestiere. Le riforme militari nel Piemonte del Settecento (Zamorani, 2002) e Sotto diverse bandiere. L’internazionale militare nello Stato sabaudo d’antico regime (FrancoAngeli, 2012). Ha curato, con Karin Wolfe, Turin and the British in the Age of the Grand Tour (Cambridge University Press, 2017).
ANDREA MERLOTTI dirige il Centro studi della Reggia di Venaria ed è membro dei comitati scientifici del Centre de recherche du Château de Versailles e di «Studi Piemontesi». Fra i più recenti volumi, ha curato: Stato sabaudo e Sacro Romano Impero (il Mulino, 2014); Casa Savoia e Curia romana (Ecole française de Rome, 2015) e Le cacce reali nell’Europa dei principi (Olschki, 2017). Nel 2016 è stato fra i curatori della mostra Piemonte, Bonnes Nouvelles, per i 600 anni del Ducato di Savoia.
LinguaItaliano
Data di uscita3 set 2020
ISBN9788837234324
Storia degli Stati Sabaudi: 1416-1848

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    Anteprima del libro

    Storia degli Stati Sabaudi - Bianchi Paola

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    Introduzione

    Oggetto di questo volume sono gli Stati sabaudi – termine con cui si designa l’insieme dei domini soggetti alla dinastia dei Savoia – nel periodo che va dal 1416 al 1848. La prima data è quella in cui Amedeo viii, conte di Savoia, ottenne dall’imperatore il titolo di duca; la seconda quella in cui Carlo Alberto, re di Sardegna, promulgò lo Statuto.

    Lo scopo che ci siamo prefissi non è soltanto quello di offrire un’opera fondata su una storiografia aggiornata, ma anche – e forse soprattutto – ricollocare nella dovuta prospettiva un territorio il cui consolidamento attraversò, nel corso dei secoli, vicende complesse e non lineari.

    È importante precisare, prima di tutto, che il libro non intende essere una storia né del Piemonte né della Savoia o della Sardegna (l’isola, anzi, non sarà compresa che per alcuni cenni). Opere di questo tipo sono apparse, via via con maggiore intensità, dalla fine del Settecento sino ai giorni nostri¹. La divisione fra Piemonte e Savoia e il loro collocarsi in due nazioni differenti ha portato, infatti, allo sviluppo di due storiografie che raramente si sono parlate, come sarebbe stato invece lecito aspettarsi, e che solo in anni recenti stanno nuovamente iniziando a tessere rapporti fecondi. Ciò anche perché i loro obiettivi sono risultati opposti per decenni: finalizzare da un lato, con una storia a tesi, le vicende del Piemonte sabaudo al destino italiano; radicare la Savoia (e Nizza) in Francia stabilendo le coordinate di un mitico ralliement dall’altro lato.

    Eppure, leggere la storia degli Stati sabaudi d’antico regime attraverso il prisma della nazione – nel senso che questa espressione ha assunto dopo la Rivoluzione francese – rischia di far perdere di vista che fu proprio, fra Sette ed Ottocento, l’affermarsi del principio nazionale a portare alla loro scomparsa, attraverso un processo né necessario né insito nella loro storia precedente. Si finì, cioè, per considerare come naturale e obbligatorio l’esito del 1860, con la divisione degli Stati fra due diverse nazioni, quando invece questo processo non si era preannunciato né in forma spontanea né in modo inevitabile. Del resto, lo stesso Risorgimento per una parte importante dei suoi attori – soprattutto per quelli piemontesi – avrebbe dovuto approdare a una sorta di «Belgio in grande dell’Europa meridionale»², un’estensione degli Stati sabaudi al Nord dell’Italia – riprendendo il progetto che era già stato dei Savoia da Carlo Emanuele iii a Carlo Alberto, collocandolo al più nel solco del Regno d’Italia napoleonico – senza rinunciare alla Savoia o a Nizza e, soprattutto, senza estendersi ad altre parti della Penisola.

    A questo proposito, con l’ottica di chi è abituato a muoversi nella storia degli Stati sabaudi, è difficile non concordare con Laurent Ripart quando scrive che «Le Royaume d’Italie naquit [...] de la rencontre d’une nation sans État et d’un État sans nation»³. Gli Stati sabaudi furono, infatti, per tutto l’antico regime, una realtà dichiaratamente sovra-nazionale, in cui italiano e francese erano entrambe lingue ufficiali (e non le uniche)⁴. Se sovrapposti ai confini degli attuali Stati-nazionali, con un’operazione che pur presenta tratti di arbitrarietà, gli Stati sabaudi a fine Trecento risultavano quasi interamente franco-svizzeri e a inizio Seicento tanto francesi quanto italiani; solo a partire dal 1713, con la pace di Utrecht, furono più italiani che francesi. Un’evoluzione, va detto, che non trova praticamente confronti in altri Stati europei d’antico regime.

    Inoltre, il confine geografico tra Italia e Francia, ben presente alla cultura del tempo (basti guardare le carte geografiche dei Palazzi Vaticani o di Palazzo Vecchio a Firenze), non corrispondeva a quello delle nazioni degli Stati sabaudi: la Val d’Aosta, geograficamente italiana, era culturalmente e linguisticamente francese; la Contea di Nizza, al contrario, sebbene posta oltralpe, era uno spazio con un’identità propria, certo non francese, in cui forte e marcato era l’elemento italiano.

    Diciamo subito, quindi, che la categoria cui ci sentiamo più vicini è quella di «Stato composito», un concetto che, utilizzato negli ultimi decenni per descrivere altre realtà statuali tipiche dell’antico regime in Europa, useremo come fil-rouge nei vari capitoli⁵. Di qui la scelta di adottare, nel titolo del volume, il plurale: «Stati sabaudi», e non semplicemente «Stato sabaudo», espressione che avrebbe rimandato a un’idea di compattezza e di centralizzazione amministrativa e culturale che è stata più frutto di rappresentazioni che effettiva realtà negli spazi controllati dai Savoia nel corso della loro lunga dominazione. Inoltre – e questo ci pare dirimente – essa fu l’espressione con cui gli stessi sovrani sabaudi definirono i propri domini sino al 1848. Solo allora, con lo Statuto, si ebbe il passaggio da «Stati» a «Stato».

    Dal punto di vista istituzionale, in effetti, gli Stati sabaudi erano una monarchia composita, un aggregato di territori che trovava la sua unità esclusivamente nella persona del sovrano e nel tipo di patto che era stato stabilito con la dinastia regnante. Ciò costituiva un’evidente diversità rispetto al Regno di Francia; ma le differenze erano radicali anche con le altre realtà statuali italiane.

    Innanzitutto il duca di Savoia, unico fra i sovrani italiani, era stato riconosciuto come principe germanico: il Ducato di Savoia, infatti, era divenuto parte del Sacro Romano Impero, vedendosi concedere di poter inviare suoi rappresentanti nella Dieta.

    Elemento di unicità sulla scena politica della Penisola era rappresentato dal fatto che i Savoia non derivavano il proprio potere – in tutto o in parte – dal papa, come, invece, i Medici, i Farnese, gli Este e i Della Rovere. Solo nel 1741, quando ormai il Papato aveva perso in gran parte forza politica, i Savoia ottennero da Roma il dominio feudale sopra alcune piccole giurisdizioni dell’Astigiano e sul principato ecclesiastico di Masserano e Crevacuore, nel Biellese, garantendo in cambio il tributo simbolico d’un calice d’oro all’anno (paragonabile alla chinea del re di Napoli).

    Altra importante caratteristica, sulla scena italiana, era costituita dal fatto che gli Stati sabaudi avevano accolto al loro interno l’unica énclave protestante tollerata nella Penisola, se pur dopo diverse stagioni di persecuzione: i valdesi delle valli Pellice, Chisone e Germanasca.

    Parte del Sacro Romano Impero, pluri-linguistici, pluri-nazionali, pluri-religiosi, gli Stati sabaudi d’antico regime non furono, dunque, uno Stato nazionale nel significato che la cultura tardo-settecentesca, ma soprattutto ottocentesca, ci ha inculcato. Tanto meno furono uno Stato italiano, nel senso che la contemporaneità attribuisce a quest’espressione. Come ha scritto Jean-Claude Waquet: «la naissance médiévale d’une structure composite, la permanence dans le temps d’une organisation reposant sur l’aggregration de patrie sans identité citadine, reliées au souverain sur un mode contractuel, la présence insistante d’une dimension négociée dans l’exercise du pouvoir, l’emergence précoce, enfin, d’un groupe d’officier royaux aux-quels revint la difficile tâche d’assurer la cohesion de l’ensemble: tous ces traits réunis renvoient à une expérience – au reste multiforme – d’émergence de l’État qui se joua à l’echelle du continent, et non d’une seule de ses parties, et qui donc gagne à être appreciée dans son cadre d’ensamble». Alla domanda «Peut-on vraiment parler d’un Etat italien?», egli risponde: «Il pourrait, au fond, être plus raisonable de parler d’une sorte d’Etat du milieu, italien, français et germanique à la fois, faisant charniére entre des univers politique, géographiques et linguistiques différents»⁶.

    Non a caso, quando i Carignano, saliti al trono nel 1831 con Carlo Alberto, decisero di sviluppare una politica nazionale e italiana, questa portò alla scomparsa della realtà statuale su cui il ramo principale della dinastia, estintosi con Carlo Felice, aveva regnato per otto secoli. La sostituzione, come ideale capostipite dinastico, del tedesco Beroldo con l’italiano Umberto Biancamano non costituì, in tal senso, uno sterile problema d’erudizione storiografica, ma un cambio di mito fondatore, dal carattere schiettamente politico.

    L’avvento al trono del ramo cadetto dei Savoia-Carignano con un personaggio quale Carlo Alberto, la cui educazione s’era compiuta quasi interamente al di fuori della tradizione sabauda, fu veramente un punto di svolta nella storia della dinastia e dei suoi Stati: sino ad allora, infatti, i Savoia erano stati attenti a non aderire mai in maniera esclusiva a un principio di nazionalità (in particolare Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele i si definirono sempre principi tedeschi), mentre Carlo Alberto fu promotore d’una svolta italiana, che iniziò con una rivoluzione storiografica, tanto forte da negare storie, costumi, pratiche e riti seguiti per secoli: un processo necessario per porsi alla testa dell’impresa d’unificazione italiana, ma che fu lacerante per il rapporto fra Savoia e Piemonte. Si trattò di una rottura, con aspetti in parte anche drammatici, che il 1860 avrebbe solo ratificato sul terreno politico.

    È significativo che gli Stati sabaudi non avessero prodotto una compiuta e unica carta costituzionale. La promulgazione dello Statuto nel 1848 rappresentò, anzi, la fine di una consuetudine a raccogliere «costituzioni», come si vedrà nelle pagine seguenti, mai completamente esaustive in materia di governo (esemplare fu il caso delle reticenze a lungo mantenute intorno alle materie ecclesiastiche e militari, proprio per lasciar spazio a una ripetuta contrattazione e a un’estensione delle decisioni sovrane sempre mediata e declinata sulle singole situazioni). Trattandosi di una monarchia composita, il codice storiografico di corte, elaborato dalla dinastia fra Quattro e Seicento, svolse, in un certo senso, quella funzione.

    Nel Settecento gli Stati sabaudi assistettero certo a un fenomeno di nation building, ma rimase un processo incompiuto, segnato dalla presenza di due forze, opposte e contrastanti. Da una parte erano le élites culturali piemontesi, riunite nel tessuto accademico che si diffuse nei territori subalpini nella seconda metà del secolo, che miravano alla trasformazione degli Stati in uno Stato italiano con una nazionalità propria: un «grande Piemonte» nel quale avrebbero dovuto identificarsi anche quei pays che non solo non erano piemontesi, ma non si sentivano neppure italiani (Savoia e Valle d’Aosta). Dall’altra parte stavano le élites di questi due spazi, che, negli stessi anni, avevano alimentato un nuovo sentimento di sé elaborando una rappresentazione della propria storia in opposizione non tanto a quella dinastica, quanto all’azione dei suoi governi, trovando nella montagna un elemento peculiare e originario per la costruzione di identità collettive nei pays⁷. L’Académie de Savoie, nata a Chambéry nel 1770, costituì la prima timida espressione pubblica di questa linea, non disponibile a riconoscersi e fondersi in un Piemonte sempre più italiano, ma ad auspicare uno Stato bilingue, distinto sia dalla Francia sia dall’Italia, in cui la parte francofona e quella italofona potessero incarnare due realtà di pari rango e dignità, se pur differenti per numero di abitanti e per ricchezze.

    Si trattava di linee divergenti, che trovavano nella fedeltà alla dinastia la forza e la ragione per non esser inconciliabili.

    Su questa situazione si abbatté la lunga vicenda dell’occupazione napoleonica, che gli Stati sabaudi vissero in modo diverso. In Piemonte le giovani generazioni spostarono l’oggetto del loro processo di nation building dal Piemonte all’Italia, trovando nel mito di Vittorio Alfieri (un mito, peraltro, assai inventato e distante dall’originale) e nella sua spiemontesizzazione la propria bandiera; la Savoia assistette al definirsi di un’identità francese che andava contro ciò che il Ducato era stato sino ad allora, per otto secoli. Il ritorno dei Savoia negli «Stati di Terraferma» sembrò, poi, pur con alcune difficoltà, garantire il ritorno al principio sovrannazionale degli Stati sabaudi.

    L’avvento al trono, nel 1831, del ramo dei Carignano (che va considerato un’altra dinastia rispetto ai Savoia del ramo primogenito, né più né meno rispetto agli Orléans di Luigi Filippo, che non erano i Borbone di Carlo x) segnò la progressiva fine di tale realtà. Da allora, infatti, la scelta italiana della dinastia divenne sempre più chiara, sino alla cesura del 1861, costruita peraltro (almeno per quel che riguarda la Savoia) da una serie di decisioni politiche che avevano avuto nel 1848 il loro zenith. La trasformazione degli Stati sabaudi nello Stato sabaudo portò alla definitiva riduzione dei pays alpini (per secoli cuore degli Stati) a periferia di minor peso politico: un fenomeno certo iniziato prima, ma che giunse allora a conclusione, con forme anche evidenti di marginalizzazione.

    Tuttavia, questa divisione fra gli antichi Stati non scomparve certo per incanto con il 1848-1849. Nel 1850, per esempio, alla contessa Provana di Collegno, la milanese Margherita Trotti Bentivoglio, il «piccolo regno» sabaudo appariva composto da «quattro province senza alcun sentimento comune», di cui il Piemonte era «la sola parte sana»; mentre la Savoia sognava di restaurare una monarchia assoluta e rigidamente cattolica, la Sardegna era «solo a metà incivilita e sotto il dominio dei preti» e Genova era pericolosa, perché piena di «incendiari, violenti democratici». Una monarchia che più che composita le appariva, quindi, assai male assortita. Un pensiero, quello della nobile milanese, che insieme ad altri, espressi negli stessi anni, mostra bene, come ha notato Viarengo nella sua preziosa biografia di Cavour, che si era «ben lontani dall’immagine tradizionalmente trasmessaci di un Regno di Sardegna monolitico, raccolto attorno al suo sovrano, militare e burocratico»⁸.

    Ma se lo Stato aveva vinto sugli Stati, così aveva vinto anche la retorica destinata a descrivere tale fenomeno: dagli aneliti nazionali ai furori nazionalistici, fino ai dibattiti che, nel secondo dopoguerra del secolo scorso, hanno scientificamente individuato le componenti della modernità nelle istituzioni statuali europee, per alcuni positive, per altri incrinate da nuove e sempre più invasive forme di disciplinamento⁹. Per questo, realtà composite come l’Impero asburgico o, su scala più limitata, gli Stati sabaudi, eredi, pur in forme diverse, del Sacro Romano Impero, sono rimaste confinate all’immagine di residui politici.

    In anni più recenti, tuttavia, la storiografia ha ripreso le discussioni sulle forme e i tempi delle trasformazioni dello Stato, utilizzando una categoria al plurale – Stato composito – che adottiamo in queste pagine come la più consona per restituire la storia degli spazi sabaudi. Del resto, anche la rappresentazione dell’evoluzione dei territori imperiali, entro equilibri politici antichi e straordinariamente complessi, ha trovato, dagli ultimi due decenni del Novecento, un significativo rinnovamento, generando un dibattito, foriero di risposte non univoche, ricco di significati per la storia tedesca contemporanea e per la lettura di quel processo di unificazione che fu realizzato dalla Prussia di Bismarck e a lungo cantato dai suoi storici¹⁰.

    La conoscenza di tali coordinate storiografiche è, secondo noi, fondamentale non solo per affrontare oggi la storia degli Stati sabaudi, ma anche per comprendere lo strabismo di una storiografia straniera che, se pur comprensibilmente, incontra difficoltà a partire dalla traduzione dell’espressione geo-politica. Mentre, infatti, il concetto di Ducato di Savoia, di Regno di Sicilia, infine di Regno di Sardegna risulta, nella sua periodizzazione ben scandita, quasi automaticamente restituito dalle lingue nazionali straniere, assai meno scontata è la resa d’espressioni che contengano l’aggettivo sabaudo, inclusivo dei riferimenti alla dinastia regnante (i Savoia) e agli spazi da essa controllati (la Savoia, ma non solo). Un significato ha la parola savoiardo, altro la parola sabaudo. Ecco dunque comparire nella letteratura straniera espressioni ibride quali, per esempio, Savoy-Piedmont o Savoyard State, usate dagli anglosassoni, non prive di ambiguità e d’approssimazione. Non ha attecchito, invece, il termine Sabaudian State, meno che mai quello di Sabaudian States, per quanto si parli da alcuni anni di Sabaudian studies per raccogliere le ricerche compiute insieme da diversi storici italiani e da alcuni (non numerosi) studiosi che si sono occupati, in modo più o meno diretto, più o meno ampio, di tematiche legate alla storia degli Stati sabaudi. Questo esercizio di raffronto può essere compiuto anche su altre lingue: sul francese, che si concentra sul termine Savoye (inteso in senso ora globale, ora specifico e cioè regionale), oppure, alternativamente, su quello di Piémont; o sullo spagnolo, che parla pure, in generale, di Saboya.

    Parlare, così, di Stati sabaudi implica compiere una riflessione attenta sulla cronologia. Il termine ad quem, come si diceva, è rappresentato dalla data del 1848; ma in realtà gli Stati sabaudi non finirono allora, né nella storia né nella memoria. Chiudiamo, dunque, il volume con un breve epilogo dedicato alle vicende che le principali parti che avevano composto il nucleo più antico della monarchia sabauda vissero fra il 1848, l’unificazione e i decenni immediatamente successivi.

    Da pays d’una straordinariamente longeva monarchia composita, diverse province si trasformarono in territori di confine di Stati nazionali. Savoia e Nizza divennero francesi, iniziando un complesso dialogo con la Grande Nation, poco incline alle identità regionali; la Valle d’Aosta innescò un meccanismo di «costruzione della regione» in cui l’Italia svolgeva la funzione di «eterno antagonista»¹¹; il Piemonte fu forse il territorio più penalizzato, trasformandosi da spazio europeo in regione periferica di uno Stato italiano, che si allontanava sempre più da esso e che, dopo il 1946, recise anche il legame rappresentato dalla monarchia. L’eredità degli Stati sabaudi costituisce ancora, perciò, una componente della vita culturale e politica di questi spazi, che ci è sembrato importante ripercorrere a grandi linee con la consapevolezza che si tratti di una storia solo in apparenza lontana e senza strascichi sul presente.

    Ad Angelo Bianchi va un ringraziamento particolare per la pazienza che ha mostrato nell’attendere la conclusione del lavoro e soprattutto nell’aver riposto fiducia in chi scrive. Questo ringraziamento è rivolto, insieme, a Walter Barberis. Nel consegnare il testo, sono stati fondamentali, poi, i suggerimenti raccolti da alcuni attenti lettori, cui esprimiamo tutta la nostra riconoscenza. Li citiamo in ordine alfabetico: Paolo Armand, Juri Bossuto, Paolo Cozzo, Pierangelo Gentile, Isabella Ricci Massabò. Resta nostra, ovviamente, la responsabilità per i difetti che possono essere contenuti nelle pagine che seguono. Per scrivere questo libro abbiamo contratto, infine, un forte debito con nostra figlia Giulia, che ha dovuto condividere lunghe giornate e ancor più lunghe serate in attesa che il lavoro fosse licenziato. Alla sua straordinaria resistenza va la nostra gratitudine più amorevole. Oltre che a lei, il libro è dedicato a due studiosi scomparsi, legati per diverse ragioni e per diversa formazione ai temi di storia sabauda: Enrico Stumpo e Giorgio Lombardi; con entrambi avremmo voluto discuterlo di persona.


    ¹ Per tali opere si rimanda alla bibliografia citata nei capitoli seguenti.

    ² L’espressione è di Giuseppe Cesare Abba, Storia dei Mille (

    i

    ed. 1904). Cfr. M. Ferraris, Il Risorgimento del Belgio, estratto da «Nuova antologia» (1915), 8 pp.

    ³ L. Ripart, Le mythe des origines saxonnes des princes de Savoie, in «Razo. Cahiers du Centre d’Etudes Médiévales de Nice» 12 (1992), pp. 147-161: 161.

    ⁴ In Sardegna per tutto il Settecento fu ancora utilizzato il castigliano e il catalano e nelle comunità walser del Novarese e della Val d’Aosta il tedesco. Nel Regno di Francia, in ossequio alle leggi, ciò sarebbe stato impossibile. Sulla storia linguistica degli Stati sabaudi si veda C. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un confronto liguistico, CSP, Torino 1984.

    ⁵ Per la definizione di questa categoria cfr. H.G. Koenigsberger, Estates and Revolutions. Essays in Early Modern Europe History, Cornell University Press, Ithaca-London 1971, e soprattutto J.H. Elliott, A Europe of Composite Monarchies, in «Past and Present» 137 (1992).

    ⁶ J.C. Waquet, Un état exceptionnellement peu italien?, in Il Piemonte come eccezione? Riflessioni sulla «Piedmontese exception», a cura di P. Bianchi, CSP, Torino 2008, pp. 174-175.

    ⁷ Esemplare, in questo senso, la vicenda di de Tillier in Valle d’Aosta. Cfr. M. Cuaz, Accademie in provincia: cultura e istituzioni nella periferia alpina (Nizza, Savoia e Valle d’Aosta), in I due primi secoli dell’Accademia delle scienze di Torino, Accademia delle scienze, Torino 1985, pp. 283-296; A. Barbero, Una nobiltà provinciale sotto l’Antico Regime. Il Nobiliaire du Duché d’Aoste di J.-B. De Tillier, in «RSI»

    cix

    (1997), pp. 5-48.

    ⁸ A. Viarengo, Cavour, Salerno, Roma 2010, pp. 8-9 (da cui anche la citazione della Trotti Bentivoglio).

    ⁹ Per questo quadro storiografico restano fondamentali Lo Stato moderno, a cura di E. Rotelli e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1971-1974, 3 voll.; P. Anderson, Lo Stato assoluto, tr. it. di R. Pasta, Mondadori, Milano 1980 (ried. il Saggiatore, Milano 2014). Cfr. inoltre G.G. Ortu, Lo stato moderno: profili storici, Laterza, Roma-Bari 2001.

    ¹⁰ È appena il caso di citare ricerche come Das Reich in der frühen Neuzeit (1997) di Helmut Neuhaus o le brillanti sintesi The Holy Roman Empire, 1495-1806 (1999) di Peter H. Wilson e The German Lands and the Holy Roman Empire, 1495-1806 (2001) di Joachim Valley, soprattutto la Geschichte das alten Reiches (1999) di Georg Schmidt e Kulturgeschichte des Heiligen Römischen Reiches 1648 bis 1806 (2001) di Peter Claus Hartmann, fino a i lavori di Heinz Schilling. Cfr. H. Schilling, Aufbruck und Krise. Deutschland 1517-1648, Wolf Jobst Siedler Verlag, Berlin 1988 (tr. it. il Mulino, Bologna 1997); Id., Höfe und allianzen. Deutschland 1648-1763, ibi, 1989 (tr. it. il Mulino, Bologna 1999). Sulla vitalità dei dibattiti entro la storiografia tedesca dedicata a questi temi cfr. A. Merlotti, Lo Stato sabaudo e il Sacro Romano Impero: una questione storiografica aperta, in Il Piemonte come eccezione, cit., pp. 79-93.

    ¹¹ S.J. Woolf

    ,

    La Valle d’Aosta: modello di un’identità proclamata, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, La Valle d’Aosta, a cura di S.J. Woolf, Einaudi, Torino 1995, p. 22.

    Parte prima

    Stati

    Capitolo primo

    Dinastia, Stati, territori

    Gli Stati sabaudi furono prima di tutto l’insieme dei domini di Casa Savoia. Alcuni furono soggetti ad altre case sovrane solo nei primi secoli del Medioevo, ai tempi del Regno di Borgogna, come la stessa Savoia, che diede il nome alla dinastia. Altri divennero un pays, con caratteri propri – in primis lingua e cultura – solo dopo il passaggio sotto il dominio sabaudo: è il caso della contea di Nizza¹² e del principato di Piemonte¹³. Altri ancora cessarono d’esser sabaudi dopo un dominio secolare che ebbe un ruolo centrale nella definizione della loro identità: si pensi alla contea della Bresse (sabauda dal 1272 al 1601 e poi francese), o alla baronia di Vaud (dal 1234 al 1536, poi svizzera). Al contrario sul versante italiano, diversi territori divennero sabaudi fra Settecento ed Ottocento, dopo esser stati per secoli o province di Stati soggetti ad altre dinastie (il Milanesado occidentale) o realtà statuali autonome (il Ducato del Monferrato e la Repubblica di Genova). Un caso del tutto particolare è quello del Regno di Sicilia e, soprattutto, del Regno di Sardegna, sabaudi il primo dal 1713 al 1718 e il secondo dal 1720 al 1861. Quest’ultimo, pur garantendo ai Savoia l’ambita corona reale, non s’impose sugli altri Stati, né vide il fissarsi della corte a Cagliari, capitale del Regno di Sardegna, ma mai della monarchia nel suo complesso.

    Affrontando la storia degli Stati sabaudi, quindi, la dinastia costituisce il punto di partenza, perché ne fu elemento ordinatore ed unificatore.

    1. La dinastia

    Il processo di costruzione statale dei domini sabaudi si accompagnò passo dopo passo alla definizione e all’aggiornamento d’un codice storiografico, dalla chiara funzione ideologica. Se in tutti gli Stati dell’Europa dei principi la storiografia rivestiva un senso politico, questo era ancora più vero in uno Stato composito come quello dei Savoia, in cui la storia dinastica offriva l’unica ragione dell’unità delle diverse patrie o pays. La nascita della figura dello storiografo di corte fu un effetto diretto di questo processo. Da Jean d’Orville «Cabaret» per Amedeo viii a Emanuel Philibert de Pingon per Emanuele Filiberto sino a Luigi Cibrario per Carlo Alberto: furono costoro i principali registi della propaganda dinastica. Al codice storiografico da essi approntato dovettero adeguarsi letterati e artisti, la cui produzione fu apprezzata dai sovrani tanto più essa fosse capace di attenervisi.

    Uno dei primi provvedimenti assunti da Amedeo viii divenuto duca fu quello d’affidare a Cabaret la stesura delle Chroniques de Savoie per raccontare la storia dei conti suoi antenati, adeguando alle nuove esigenze politiche quanto scritto nelle cronache più antiche, fra cui l’importante Cronique d’Hautecombe (1342 ca.). Inoltre, il duca ordinò ai propri artisti nuovi lavori nell’abbazia d’Hautecombe, sul lago di Bourget, pantheon familiare sabaudo. In entrambi in casi, lo scopo era quello di mostrare l’antichità e la continuità dinastica: sia tramite un testo che voleva essere espressione della cultura cortese sia attraverso la tangibile traccia dei sepolcri dei predecessori.

    Le due opere possono esser considerate paradigmatiche di linee di condotta destinate a proseguire sino alla Restaurazione. Libri e palazzi furono per secoli il principale medium narrativo dei sovrani sabaudi per raccontare la propria storia, o – meglio – l’idea che di questa essi intendevano trasmettere. Non è privo di evidenti significati simbolici che proprio l’abbazia di Hautecombe fosse stata scelta, almeno dal Trecento, per conservare, nella cappella dei principi, i manoscritti delle più antiche chroniques de Savoie¹⁴.

    Va detto che inizialmente questa produzione storiografica non era pensata per esser diffusa al di fuori della corte. La Chronique di Cabaret e quelle dei suoi successori Jean Servion e Perrinet Dupin restarono manoscritte, riservate alla lettura di pochi selezionati funzionari e cortigiani. Ancora nel primo Cinquecento Carlo ii ordinò allo storico milanese Domenico Della Bella, detto il Maccaneo, la composizione d’una storia della dinastia, ma, invece di farla stampare, ordinò che la parte manoscritta sul potere dei conti di casa Savoia fosse dedicata e inviata, in italiano, a papa Leone x, mentre quella sui duchi, in francese, all’«amatissimo e potentissimo nepote» re di Francia¹⁵.

    Le prime opere a stampa sulla storia dei Savoia non apparvero negli Stati sabaudi, ma in Francia, su sollecitazione di esponenti della dinastia che vi si erano stabiliti. È il caso, per esempio, de Les Grans croniques des gestes et vertueux faictz des tres excellens catholiques illustres et victorieux ducz et princes de Sauoye et Piemont, opera del medico lionese Symphorien Champier (1472-1533). Essa, infatti, fu commissionata da Luisa di Savoia, contessa d’Angoulême, quando suo figlio Francesco divenne principe ereditario di Francia. L’opera fu consegnata alle stampe nel marzo del 1515, tre mesi dopo che questi era divenuto re, ed apparve nel 1516 quando, dopo la vittoria di Marignano, Francesco i aveva ripreso la sua politica italiana. Si trattava d’un testo, quindi, che aveva lo scopo di presentare al pubblico europeo dei dotti la dinastia da cui proveniva la madre del re di Francia. Diversi decenni dopo, nel 1560, fu il duca Giacomo di Nemours, nipote di Carlo ii divenuto suddito francese, a patrocinare la stesura dei Sabaudiae principum Genealogia Romanis versibus digesta del giurista francese Julien Tabouet¹⁶. Non sono chiare, invece, le ragioni della stesura della più importante opera sulla storia dei Savoia apparsa nel Cinquecento, la Cronique de Savoye del canonico Guillaume Paradin. Essa uscì a Lione nel 1552, quando il ducato di Carlo ii era ancora in buona parte occupato dai francesi, e riapparve nel 1561 in una versione ampliata¹⁷. Quando Emanuele Filiberto riprese il controllo dello Stato dovette recuperare alla storiografia di corte uno spazio che essa aveva perso ancor prima dell’occupazione francese. Egli affidò tale compito al barone Pingon, uno storico di Chambéry, formatosi però tra Parigi e Padova¹⁸.

    Autore delle prime storie a stampa di Torino e della Sindone¹⁹, Pingon scrisse due importanti opere di storia della dinastia: i Sabaudae Historiae libri xii (1572-1581) e le Imagines Ducum Sabaudiae²⁰, destinate a restare manoscritte. Pubblicò, invece, l’Inclytorum Saxoniae Sabaudiaeque Principum Arbor Gentilitia, albero genealogico dei Savoia²¹. Tema centrale della sua opera era l’esaltazione delle origini sassoni della dinastia, problema che sarebbe stato oggetto di discussione politica sino al Novecento e sul quale è ora il caso di soffermarsi perché cuore dell’identità della dinastia sabauda e dei suoi Stati.

    La tesi era stata introdotta, pare, da Cabaret, che aveva presentato quale capostipite dei Savoia un certo Beroldo, nipote di Ottone iii, imperatore del Sacro Romano Impero. Cabaret ed i suoi immediati successori ne avevano fatto l’«héros d’une suite d’aventures des plus incroyables», un personaggio dalla «vie romanesque», «cheminant par monts et par vaux, resulè de se comporter en bon chevalier»²². Servion aveva provato a presentare la tesi della discendenza dei Savoia da Ottaviano Augusto e dalla Gens Julia: legando in tal modo i Savoia al mito delle origini troiane, all’epoca rivendicato dai Visconti e poi fatto proprio anche dai re di Francia²³. Non a caso le sue Chronique furono scritte intorno al 1465, quando il Ducato era ormai nell’orbita francese ed i rapporti con l’Impero erano ridotti. Ma fu un progetto effimero. Quando, tra Quattro e Cinquecento, il legame con l’Impero tornò ad esser centrale, la tesi sassone riprese forza. Ciò emerse bene negli anni in cui il Ducato fu occupato dalle truppe francesi (1536-1559/1563). Il duca Carlo ii ordinò al suo ambasciatore presso l’imperatore, Giovan Tomaso Langosco di Stroppiana, d’intervenire sugli storiografi tedeschi perché riportassero nelle loro opere la tesi dell’origine sassone dei Savoia. Langosco riuscì a convincere della tesi Georg Agricola, forse il miglior autore tedesco dell’epoca, che stava allora lavorando alla Sippschaft des Hauses zu Sachsen e la cui opera fu poi continuata dal suo allievo Georg Fabricius. Questi, nei Saxoniae Illustratae libri novem, dedicò un libro alla storia dei Savoia, riconoscendo tale tesi²⁴. Nel 1557 Emanuele Filiberto scriveva all’elettore di Sassonia, presentandosi a lui come «vero e buon tedesco di sangue»: in forza di ciò egli chiedeva all’«amato cugino» di poter inserire nel proprio stemma le armi sassoni, quale rappresentazione dell’origine della dinastia. L’elettore non solo diede il suo assenso, ma fece disegnare lo stemma a Dresda e lo inviò ad Emanuele Filiberto, che da allora se ne servì come stemma ufficiale, a partire dal trattato di Cateau Cambrésis, dove fece forse la sua prima comparsa in un trattato internazionale²⁵.

    Nel frattempo l’opera di Agricola era stata usata da Pingone, che se ne servì per il citato Arbor Gentilitia: per la prima volta la genealogia sabauda era riportata non solo agli Ottoni, ma, risalendo di diversi secoli, sino a Vitichindo, primo re sassone, contemporaneo ed avversario di Carlo Magno. Questo riconoscimento ebbe importanti conseguenze politiche: nel 1579, Emanuele Filiberto ottenne dall’imperatore Rodolfo ii il diritto di precedenza sui Medici in virtù proprio della sua origine sassone; tre anni dopo, nel 1582, il figlio Carlo Emanuele I ottenne, col determinante aiuto degli elettori di Sassonia e Brandeburgo, il riconoscimento della precedenza «ante omnes Italiae principes» in quanto «Vicarius Imperii per Italiam» e «princeps [...] ex sanguine germano Ducum Saxoniae oriundus»²⁶. Quello di vicario imperiale per l’Italia era di per sé solo un titolo onorifico, ma i Savoia fra Sei e Settecento riuscirono, tramite i loro giuristi, ad assegnare a esso competenze sempre più ampie. Non solo, quindi, i Savoia si presentavano diversi dai principi italiani, ma anche tanto superiori da figurare quali vicari dell’imperatore.

    Per i duchi di Savoia era centrale, infatti, non esser assimilati agli altri sovrani della Penisola, molti dei quali appartenevano a dinastie recenti e, in certi casi, dalle origini incerte.

    Nell’Europa dei principi l’Italia costituiva, in effetti, un caso particolare. Nei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano, la formazione degli Stati europei andò di pari passo con la definizione d’un gruppo di dinastie – tutte o quasi d’origine franco-germanica – che con vari titoli – imperatori, re, duchi, etc. – conquistarono e si riservarono per i secoli a venire l’esercizio della sovranità. Nacquero allora dinastie che sarebbero rimaste al trono sino al xx secolo, per le quali fattori come antichità, origini germaniche e continuità erano essenziali. I Savoia, come si è visto, erano riconosciuti come una di tali prosapie, a differenza delle case regnanti italiane nate fra Quattro e Cinquecento, che sarebbero state segnate da vicende più o meno effimere, altre volte più durature. Si pensi, per esempio, agli Sforza, discendenti di un condottiero di ventura d’incerta nobiltà, il cui figlio illegittimo riuscì a diventare duca di Milano nel 1450. Gli stessi Este, che pur vantavano origini antichissime, avevano visto diversi illegittimi salire al trono: pratica che non conosceva eguali nel resto d’Europa. I Medici, nonostante la loro straordinaria vicenda rinascimentale di ricchi mercanti fiorentini, giunsero alla sovranità solo nel 1516, con l’acquisizione temporanea del Ducato d’Urbino. Ancor più recente e oscura fu l’affermazione dei Farnese: una famiglia di feudatari umbri il cui accesso alla sovranità risaliva al 1537, a seguito dell’assegnazione del Ducato di Castro da parte di papa Paolo iii a un suo figlio naturale. Per la cultura nobiliare franco-germanica si trattava di vicende impensabili, possibili solo in Italia a causa della presenza nella Penisola del Papato (il cui ruolo centrale nella promozione di tali casati ebbe non poca parte nelle critiche sollevate dai protestanti).

    Prima di divenire duchi, i Savoia avevano già stretto rapporti matrimoniali con quasi tutte le principali dinastie europee. Il fatto che già nel 1066 Berta di Savoia, figlia del conte Oddone, avesse sposato il re dei Romani Enrico di Franconia (il futuro imperatore Enrico iv) mostra che sin dalle origini i Savoia erano considerati parte dell’inner circle del sistema dinastico europeo²⁷. Se essi si fossero estinti con Amedeo viii, avrebbero potuto vantare fra le loro fila un’imperatrice del Sacro Romano Impero ed una di Bisanzio; una regina di Boemia, una di Francia, una d’Aragona, una di Portogallo e una di Sicilia; un’elettrice del Palatinato, una duchessa di Provenza, una di Bretagna e una d’Austria; una signora di Borbone²⁸. Al contrario, ben poche furono le nozze italiane, tutte coi signori (poi duchi) di Milano o coi marchesi di Saluzzo e del Monferrato: una linea che non cambiò nell’età moderna: la politica matrimoniale dei Savoia fu sempre europea e solo di rado essa guardò alla Penisola²⁹. I sovrani sabaudi, infatti, sposarono quasi sempre figlie d’imperatori o di re. Quando ciò non accadde fu per ragioni contingenti. Nel secondo Seicento, per esempio, poiché le figlie femmine di Luigi xiv morirono bambine, le parenti più strette del re di Francia furono prima le cugine (figlie dello zio Gastone d’Orléans) e poi le nipoti: fu tra queste, quindi, che

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