La seconda morte del Negro Varela
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Anteprima del libro
La seconda morte del Negro Varela - Mauricio Rosencof
Table of Contents
Mauricio Rosencof - La seconda morte del Negro Varela
Mauricio Rosencof - La seconda morte del Negro Varela
La seconda morte del Negro Varela
Glossario
Un mondo nel quartiere
Profilo biografico
Mauricio Rosencof - La seconda morte del Negro Varela
titolo originale: La segunda muerte del Negro Varela
traduzione di Diego Símini
La pubblicazione di questa traduzione è stata sostenuta dal Programa IDA
© Mauricio Rosencof, 2015
con autorización de Literarische Agentur Mertin Inh. Nicole Witt e. K., Frankfurt am Main, Alemania
Musicaos Editore, 2020
Via Arc. Roberto Napoli, 82 | 73040 Neviano (Le)
tel. 0836618232 | info@musicaos.it | www.musicaos.org
Musicaos Editore
Settembre 2020 | Vela Latina, 3
Progetto grafico | Bookground
Isbn 9788894966916
Isbn ebook 9788894966930
Mauricio Rosencof - La seconda morte del Negro Varela
a cura di Diego Símini
La seconda morte del Negro Varela
A vederlo per primo fu lo Sciancato Pérez, vicino confinante, dal predellino del carretto, su cui saliva con crescente difficoltà, per via del bacino. Taciturno, lo Sciancato, rispettoso, brav’uomo.
L’Aquino era pronto tra le stanghe e con i paraocchi.
La dimora dello Sciancato era un casermone diroccato che non diventava rudere perché c’erano troppe stanze. Viveva come tutti: solo.
Dall’alto, prima di dare il segnale «avanti, Aquino», lo Sciancato era solito guardare da una parte e dall’altra, nel caso ci fosse qualcuno da salutare: cortesia allo stato puro.
Vide la catapecchia del Gallego Menéndez.
Proveniente dalla Spagna, il Gallego era arrivato nel quartiere in qualità di guardiano notturno di una squadra che apriva strade. Avevano costruito un hangar e si erano messi a fare la strada: giù cemento, marciapiedi con mattonelle e una linea di delimitazione in blocchi di granito che faceva imprecare lo Sciancato perché impediva il passaggio del carretto.
Quando la squadra se ne andò a dare fastidio da un’altra parte col cemento, Menéndez rimase, eleggendo domicilio nell’hangar degli attrezzi. Sistemò una branda, si procurò galline, e a forza di vanga – gliene avevano lasciata una – si mise a coltivare il terreno.
Guardando da quella parte, lo Sciancato non vide altro che galline batarazas e, verso il fondo dell’appezzamento, il tartagal, piccola selva con radura, dimora vegetale del Negro Varela, che ne conosceva tutti i meandri.
L’attenzione dello Sciancato fu richiamata da qualcosa di simile a una testa appesa alla cariola del Negro, che sporgeva dal folto della vegetazione. Lo Sciancato si alzò sul suo carretto e osservò il tartagal, tenendo a mo’ di visiera la mano libera dalle redini, la destra.
– Don Varela! – gridò.
Quella era la testa del Negro. Le braccia penzoloni, le gambe inerti, un piede scalzo.
– Don Varela! – tornò a gridare Pérez, che lo prese per assopito ma non morto.
– Don Varela… – mormorò chinandosi e prendendolo adesso per morto.
Gli avventori del Caffè e Bar Parco degli Alleati, vedendo arrivare lo Sciancato Pérez, senza carretto e senza Aquino, decisamente pedestre, con la sua solita andatura sbilenca e a velocità massima, si affacciarono sul marciapiede.
Succedeva qualcosa.
Lo Sciancato non si fermò prima di arrivare al tavolo da gioco. Si bloccarono tutti con le carte in mano. Rimase in mezzo al tavolo la lattina che a suo tempo era stata di piselli Cololò, all’interno della quale, tra una partita e l’altra, riposavano le carte, appoggiate sui fagioli delle scommesse, grossi, bianchi, che avevano sostituito i chicchi di granturco, perché altrimenti Meléndez se ne portava via una cifra per le galline, mi spiego?
Saltando il «buongiorno», Pérez esalò, tra un fiatone e l’altro:
– Non risponde.
Fu fatto accomodare con una birra ghiacciata davanti e a quel punto si mise a raccontare.
Così si seppe che si trattava del Negro Varela, morto in croce sulla cariola.
– Lo chiami ma non risponde – sentenziò il nuovo arrivato.
Quando arrivarono («Di qua, ecco... qui… di qua… là, là!»), Aquino, il purosangue dello Sciancato Pérez, se n’era già andato. Costeggiarono la selva dopo essersi ripresi dallo spavento per l’agitazione delle galline batarazas: non erano abituati a tutto quel movimento, tutto quello scuotere le ali e chiocciare.
Lo videro. Lo videro e quando lo videro, rimasero come pali conficcati in terra. Era proprio come era stato descritto dallo Sciancato Pérez. La testa crespa, con pochi fili bianchi, riversa, sfiorava l’unica ruota, malridotta, della Scevrolé, come Varela chiamava il suo veicolo.
Il Negro lo adoperava per portare legna alla griglia El Recreo La Carreta, oppure sacchi di carbone a una vicina, talvolta per fare traslochi, in vari viaggi. Era uno spettacolo veder viaggiare un armadio in bilico sulla cariola, in piena vibrazione e con uno sportello oscillante, non quello con lo specchio, che era stato fissato con i chiodi, per ogni evenienza.
Allora il Tito Payuca – capelli biondastri e spettinati, dotato di una certa esperienza nel settore perché era stato autista di riserva in un’impresa funebre che poi chiuse i battenti per via dell’arrivo della penicillina –, il Tito, dico, si fece avanti e disse:
– Bisogna constatare.
La frase ruppe l’immobilità e il silenzio, perché ognuno la vedeva a modo suo: «prima di constatare bisogna confermare», «che differenza fa», «c’è il prete di turno a Terra Santa», «Padre Padrín», «meglio un dottore», «Bruni».
Ecco: bisogna chiamare Pedro Bruni. Dove lavora? All’università. Un luminare. Veterinario.
Nel frattempo il Gallego Menéndez aveva subìto un ritardo dovuto all’oste della Bocciofila Aldea, sul viale Italia, zona di piccoli poderi. Il taverniere lo aveva visto dalla finestra che illuminava il bancone e gli era andato incontro sul marciapiede con l’espressione corrucciata, perché vedere un abitante di un altro quartiere che poco ci manca sfila militarmente con una zappa in spalla non è roba di tutti i giorni.
Menéndez, la coppola calata fino agli occhi, sorretta da un cespuglio inestricabile di sopracciglia tra il biondo e il canuto, vedendosi comparire davanti l’oste – non è normale incontrare un oste sul marciapiede –, bloccò il passo, valutò la situazione, soppesò il sopraggiunto, il quale, senza un «buongiorno, vicino», gli lanciò, come si lancia la merda nel fiume, un autoritario e intransigente:
– Senta, lei, per chi semina?
Il Gallego sapeva che se un terreno non è di nessuno è di tutti. Seminare senza recinti è a beneficio di tutti e non fa danno a nessuno. Lo aveva imparato da ragazzo nel suo Paese guerriero, quando dissero e si dissero che se il padrone non la pianta, piantiamo noi, tutti insieme. E allora arrivarono i fucili e i morti ammazzati, cazzo, per aver seminato il grano.
Menéndez abbassò la zappa e con il manico toccò la spalla dell’oste per farlo scostare. Continuò la sua strada, borbottando tra le gengive (di denti gliene rimanevano pochi):
– Ma che domanda, porca miseria! Per chi semino!
– Di morte naturale – fu la diagnosi di Pedro Bruni e, davanti al silenzio e all’aspettativa dei presenti, precisò: – Constatare, no.
Poi, guardandoli ad uno ad uno, sentenziò:
– Non è il mio settore.
Allora il Tappo Lamas, calvo come Yorick quando ritrova il Principe, mormorò con disappunto:
– Morte naturale, eh?
Perché lui aveva azzardato una sottospecie di ipotesi relativa a un possibile omicidio «per questioni contingenti», ipotesi suggerita dall’assenza di Menéndez. «Dov’era, eh?».
Lamas, impiegato presso la Ragioneria Generale dello Stato, così si presentava, era uno spirito ribelle. Tanto da pisciare a ogni piè sospinto nei vuoti della Coca Cola, come puro gesto antimperialista. Garello, anche lui indomito, commentava «come puro gesto da sporcaccione» e aggiungeva, lui, linotipista in pensione che aveva avuto perfino il saturnismo: «ma, disgraziato, non si rende conto, disgraziato, che quelle bottiglie si riciclano e ci bevono i bambini, disgraziato?».
Poi, guardando il Tito Payuca, concludeva: «quel ragioniere come minimo ha la gonorrea».
Ma prima che il sospetto potesse serpeggiare, si sentirono i passi contadini di Menéndez – passi dai piedi alzati per non inciampare sulle zolle – che si avvicinavano dall’estremità del terreno. Menéndez avanzava, stupito dalla folla insediata sul suo territorio e dalla voce suadente del Dr. Bruni:
– Menéndez, è morto Varela.
– Varela, una perdita?
– In fede, con osservanza.
La processione avanzò lenta. Lasciarono i terreni vaghi, le macchie di cespugli, aggirarono il cordolo del marciapiede e, sul recente selciato della via Humaitá, percorsero il mezzo isolato mancante per raggiungere il viale Garibaldi, da poco così nominato, perché prima era semplicemente il sentiero Garibaldi, il che fu causa di un problema catastale per lo Sciancato Pérez, la cui vecchia costruzione rurale affacciava sul viale Garibaldi e non sulla via Humaitá. Ecco perché non ha mai ricevuto una lettera, se mai qualcuno gliel’ha mandata.
La cariola procedeva davanti. La testa di Varela sembrava addormentata, adagiata su di un guanciale di piuma a due piazze, fornito appositamente da Albita, di Acconciature Albita. Il cuscino era legato con lo spago alle braccia del veicolo, guidato solennemente, anzi, severamente, dal Gallego Menéndez, in pieno possesso del suo diritto naturale di vicino viciniore.
Menéndez aveva avuto poco prima un acceso diverbio con il padre Pedrín, accorso al richiamo di Teresita. Il prete, per abitudine, si era piazzato in testa al corteo con la