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Il Sesto Passo
Il Sesto Passo
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E-book485 pagine6 ore

Il Sesto Passo

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Info su questo ebook

Alessandra Banti è una stimata dottoressa italiana che ha passato gran parte della sua vita tra l’insegnamento universitario e il lavoro per un’importante attività comunitaria. Grazie alle sue competenze giuridiche e la sua decennale esperienza viene scelta per partecipare ad un summit della Fusion Foundation a Tel Aviv, un’occasione che capita una volta nella vita e che lei non ha intenzione di lasciarsi scappare. 
Tuttavia, dietro questo viaggio sembra esserci molto di più… Possibile che le storie sulla Fusion siano vere?

Nicola Piovesan è nato a Vicenza nel 1966. Laureato in Farmacia, ha affrontato l’esperienza giornalistica scrivendo per il quotidiano Sport Vicentino. Ha pubblicato L’ombra del destino (2014), Il dossier Urania (2015), La battaglia degli anticorpi (2016), Primo (2016), Il sesto passo (2020). Ha ricevuto il primo premio assoluto al Concorso Letterario Nazionale Nero su Bianco (2016) e al Concorso Letterario Nazionale Vittorio Alfieri (2017). Ha ottenuto importanti riconoscimenti dall’Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma (2016), al Premio Nazionale di Arti Letterarie di Torino (2016) e agli Holmes Awards di Napoli (2017).
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2020
ISBN9791220102186
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    Anteprima del libro

    Il Sesto Passo - Nicola Piovesan

    Ende)

    PROLOGO

    Roma, 20 settembre 2016

    Lo studio sapeva di vecchio. Forse emanava lo stesso profumo di chi l’abitava in quel momento, l’essenza di un’età che non perdona, avanzata inesorabilmente, influenzando tutto ciò con cui l’uomo entrava in contatto.

    Il presidente Tagliapietra ripose il cordless sulla base. La telefonata che qualche minuto prima Dolores, sua segretaria da una vita, gli aveva passato sulla linea privata, era terminata con un epilogo che neppure lui, dall’alto della sua esperienza, poteva prevedere. Si accasciò su una poltrona che aveva probabilmente i suoi stessi anni e attese che la mente metabolizzasse le parole appena ascoltate, frasi che appesantivano ancor più le già dense nubi sull’organizzazione, facendo vacillare le solide basi su cui era costruita.

    «Qualche ingranaggio si è inceppato e sta rallentando pericolosamente la macchina» gli aveva detto l’altro in tono sibillino. Non aveva aggiunto molto per questioni di riservatezza. Lungi da lui provare a contraddirlo. L’aveva già fatto una volta, pentendosene amaramente. Doveva solo accettare, suo malgrado, la decisione che gli era stata imposta.

    Angelo Tagliapietra era un uomo dall’aspetto severo ma dall’indole tenera. Lo sguardo malinconico era incastonato nella pelle di un volto cosparso da fitte ragnatele di rughe. Le più profonde custodivano ricordi di una vita non sempre facile, quelle più superficiali gli conferivano, al contrario, un fascino ancora vivo al cospetto dei settantadue anni appena compiuti. Prese a camminare tracciando un percorso perpetuo lungo i tappeti persiani disseminati sopra il parquet dello studio, muovendo morbido la sua elegante figura longilinea. Sostò davanti alla finestra osservando dall’alto l’andirivieni di turisti accalcati in Piazza di Spagna che a quell’ora – le undici del mattino – si prestavano splendidamente a scattarsi un selfie davanti alla scalinata di Trinità dei Monti o alla Fontana della Barcaccia. Il suo pensiero navigava però oltre quell’afflusso di persone, con l’eco ridondante degli ultimi avvertimenti. Da oltre vent’anni dirigeva l’organizzazione sul territorio italiano e mai, fino a quel momento, aveva dubitato di aver operato con limpida serenità al servizio degli altri. Riteneva poco rassicuranti i piccoli segnali che giungevano da altre sedi internazionali ed egli stesso, alla luce delle recenti novità, si sentiva messo in discussione.

    «Signor presidente» si era appena sentito dire «Fra circa un mese ci troveremo per fare il punto della situazione. Abbiamo bisogno che la Fusion Foundation mandi, e riceva al tempo stesso, segnali forti e chiari. Per questo motivo ho bisogno di chiederle un aiuto concreto».

    Nel corso della telefonata, ascoltando le direttive, Tagliapietra si era limitato a rispondere a monosillabi riflettendo sulla remota possibilità di opporre un rifiuto.

    «Forse si è già organizzato per il summit mondiale del 17 ottobre. Intende partecipare personalmente?» gli aveva chiesto l’interlocutore, senza lasciargli tempo di rispondere. «Ascolti il mio consiglio, presidente: lasci perdere e si prenda un po’ di meritato riposo. Conosco la sua situazione, so di sua moglie. Comprendo il suo stato d’animo e proprio per questo la invito a staccare la spina, almeno per un po’».

    Gli aveva ricordato un lutto che faceva ancora fatica ad accettare. Un incidente stradale gli aveva portato via Maria e, allo stesso tempo, una buona fetta di voglia di vivere.

    La voce aveva poi continuato, calma ma incessante: «Ha dei validi sostituti; la persona che verrà in sua vece sarà in grado di rappresentarla degnamente. In questo momento non deve pensare ad altro che a riposare. Lo stress da lavoro può essere letale, in certe circostanze».

    Tagliapietra aveva assimilato in silenzio ogni concetto, abbandonando qualsiasi sforzo di ragionare ancora su quella questione. Avrebbe accettato il consiglio. Si sedette sul grande seggio. Escluse l’idea di chiamare Dolores per incaricarla di scrivere al suo posto e iniziò a battere sulla tastiera del computer.

    CAPITOLO 1

    Roma, 24 settembre 2016

    La missione della Fondazione Fusion è consentire ai soci di promuovere la comprensione, la buona volontà e la pace nel mondo migliorando le condizioni sanitarie, sostenendo l’istruzione e alleviando la povertà. La Fondazione è un’organizzazione senza scopo di lucro finanziata esclusivamente dalle donazioni dei soci e di altri sostenitori che ne condividono la visione di un mondo migliore. Questo sostegno è indispensabile per la realizzazione dei progetti finanziati dalle sovvenzioni della Fondazione, in grado di offrire miglioramenti sostenibili alle comunità bisognose.

    Alessandra Banti rilesse per l’ennesima volta le parole poste a frontespizio della guida che da qualche giorno conservava in bella vista sul tavolo dello studio, quasi a volersi sincerare che la sua adesione al sistema Fusion assumesse il naturale significato riepilogato in quella breve introduzione. Allontanando, quindi, dai suoi pensieri ogni dubbio tramandato nell’ultimo secolo sulla Fondazione.

    Una Loggia Massonica. Era al corrente di quanto si vociferasse sull’organizzazione fin da quando era sorta, il 3 maggio 1906: quel lontano giorno i quattro fondatori statunitensi si erano riuniti a Detroit, stabilendo la fusione d’intenti e di principi. Da allora la Fondazione era cresciuta sotto i migliori auspici basati sull’altruismo, l’impegno ad abbracciare entro i propri ingranaggi l’universalità delle nazioni, delle razze e delle culture e le filosofie di tecnocrazie, mondialismo, filantropia ed eccellenza.

    Ma fin dagli albori in molti vedevano il fusoniano come un iniziato non uno qualsiasi – facente parte di un élite tradizionale, tanto esclusiva quanto misteriosa.

    Alessandra riteneva quelle superficiali considerazioni solo ciance, chiacchiere tramandate nei decenni e ormai prive di senso. Naturale che, facendo una ricerca sui libri e sul Web, avesse ottenuto conferma che alcuni fusoniani del passato, tra cui Capi di Stato, Principi, storici, filosofi, scienziati di livello internazionale fossero in realtà dei massoni. Era altrettanto innegabile che la Chiesa aveva pubblicamente accusato in epoca fascista la Fusion di para-massoneria, affermando che la sua morale non era altro che un travestimento di quella massonica. Ma la realtà più recente era assai diversa da quella che la moltitudine ignorante percepiva con tanta negatività; era la stessa storia a insegnarlo.

    Alessandra era una fusoniana convinta e aveva fatto pressione per essere ammessa nell’organizzazione in virtù di sani principi, delle sue idee, e non per merito del suo passato, noto a molti. All’età di diciotto anni aveva partecipato, trionfando, al concorso di Miss Italia e da allora si portava appresso un’etichetta difficile da scrollarsi, soprattutto per via di una peculiare bellezza che non sembrava sbiadire col passare del tempo.

    Per sua fortuna, a convincere i veterani, più che il fisico snello e proporzionato, era stata la sua esperienza in campo giuridico e la determinazione nell’utilizzarla per nobili fini. Appena formalizzata la sua adesione, aveva contribuito a cementificare il rapporto della Fusion con l’ONU, la Lega degli Stati Arabi e l’Unione Europea stabilendo connessioni che avevano indubbiamente migliorato la visibilità e la rete globale delle sue risorse. In quegli ultimi anni, sotto la sua stessa supervisione, la partnership della Fusion con le Nazioni Unite aveva portato alla vittoria nella battaglia contro la poliomielite, riducendo, grazie agli investimenti della Fondazione, la malattia del novantanove per cento in tutto il mondo. Non era solo il tripudio degli ideali. Le stesse persone che componevano il suo distretto, il 1122 di Roma, e quelle con cui aveva stabilito legami in tutto il mondo, si erano rivelate attive, propositive, unite per raggiungere obiettivi prestigiosi – aiutare le popolazioni più bisognose – e ambiziosi: favorire un equilibrio di pace nel mondo.

    Le parole scritte sul frontespizio della guida, un opuscoletto di una trentina di pagine, avevano aiutato Alessandra a fugare quegli stupidi sospetti. Soprattutto, avevano rinsaldato l’orgoglio provato dopo aver ricevuto quella e-mail.

    Pregiatissima Dottoressa Banti,

    a seguito della Sua richiesta inoltrata presso questo distretto in data 10 settembre 2016, sono a confermarle che la Fusion Foundation nel corso dell’ultimo Consiglio Nazionale ha designato Lei a partecipare al summit di Tel Aviv del 17 ottobre p.v. in qualità di ambasciatrice.

    Al FUSION DAY, dal titolo Armarsi per la Pace, saranno presenti, oltre alle più elevate cariche mondiali della nostra Fondazione, personalità del Governo locale, dell’ONU e dell’UNESCO. RicordandoLe l’importanza dell’avvenimento, il Consiglio si congratula con Lei e Le augura buona fortuna.

    F.to. Il Presidente Fusion Italia - D.1122: Angelo Tagliapietra.

    Era emozionata. Come membro delle Nazioni Unite aveva preso parte numerose volte a congressi mondiali, ma sempre da semplice spettatrice. Questa volta le era stato assegnato un lavoro di alta responsabilità nell’ambito di uno degli avvenimenti più attesi dell’anno.

    A quarantacinque anni, venti dei quali dedicati a un’attività comunitaria mondiale, oltre che all’insegnamento universitario, riconosceva l’incarico come opportunità da non lasciarsi sfuggire; l’avrebbe sfruttata al meglio.

    Raccolse i neri capelli all’indietro e si appoggiò sullo schienale della sedia, ascoltando il silenzio del suo appartamento vuoto.

    In quello stesso istante, il presidente della Fusion Italia, Angelo Tagliapietra, era seduto in completa solitudine a un tavolo del ristorante Alla Rampa. Era ormai per lui un’abitudine, da quando aveva perso la moglie, cenare nel rinomato locale, a metà strada tra Piazza di Spagna e via Sistina – dove abitava – prima di chiudere la giornata. Si sentiva consumato, un po’ dall’età, un po’ dalle ultime vicissitudini. Era una condizione ricorrente, in continua crescita e, a suo modo di vedere, inarrestabile. Quella sera, comunque, la stanchezza si faceva sentire più di altre volte.

    «Signore, il suo liquore». Un giovane cameriere l’aveva distolto dai pensieri, consegnandogli il bicchierino di amaro. Era tipico da parte del titolare ringraziarlo, con quel semplice omaggio, della sua assidua presenza nel suo locale.

    «Sei nuovo? Non ti ho mai visto prima». Si rivolse al giovane che portava una camicia bianca stirata di fresco.

    «Sono in prova per questa settimana» rispose il cameriere, evidenziando un lieve accento straniero.

    «Mi sembri bravo, buona fortuna» gli disse, distogliendo lo sguardo dal giovanotto e tuffando le labbra nel liquore ambrato.

    Il cameriere lo salutò con riverenza e continuò a servire altri avventori.

    Tagliapietra si alzò da tavola subito dopo, ma non riuscì a fare che pochi passi, prima di stringersi il petto e crollare a terra con un gemito soffocato.

    CAPITOLO 2

    Gerusalemme, 30 settembre 2016

    La giovanissima donna era entrata timidamente nell’ambulatorio. Un’infermiera l’aveva accompagnata alla porta invitandola ad accomodarsi, mentre la dottoressa Cohen concludeva la relazione del test appena effettuato sul proprio computer. Tamar Chen era poco più che una ragazza, sui vent’anni, con un fisico snello e due occhi da cerbiatto. Si sedette nascondendo quell’impazienza tipica dei giovani, non del tutto convinta che la strada intrapresa un paio di settimane prima fosse quella giusta. Si sforzò di darsi un contegno, interessandosi alla serie di diplomi appesi alle pareti, ma la dottoressa si mise subito a sua completa disposizione.

    «Allora?» domandò, impulsivamente.

    Elizabeth Cohen era la responsabile del laboratorio analisi situato nel quartiere di Jaffa, in pieno centro a Gerusalemme: un autentico fiore all’occhiello nel panorama medico nazionale, dotato di avanzate tecnologie di ricerca tanto da competere per efficienza col più grande e rinomato Hadassah Hospital. Di fatto, la dottoressa Cohen era una ginecologa molto quotata in tutto Israele.

    Non rispose subito alla paziente, iniziando invece a scartabellare uno schedario cartaceo. Tamar si schiarì la voce, quasi a voler rendere nota con maggior fermezza la sua presenza in quella stanza.

    «Adesso ti spiego tutto, non essere impaziente».

    La dottoressa continuò a far scorrere gli occhi vivaci da una parte all’altra dei documenti. Aveva almeno il doppio degli anni della ragazza seduta davanti a lei, ma il suo aspetto era alla pari fresco e dinamico. Si aggiustò una molletta sui capelli biondi per raccogliere qualche ciocca ribelle e quindi estrasse un foglio, quello che cercava, liberandosi in malo modo di tutte le altre carte sul tavolo.

    «Non siamo sicuri del risultato del test» disse, freddando l’attesa di Tamar Chen.

    «In che senso… non siamo sicuri

    «Nel senso che non ci è possibile attribuire con certezza la paternità del bambino».

    «Avete ricevuto i suoi campioni, vero?» chiese la giovane, quasi mettendosi a piangere.

    «Sì. Colui che ritieni essere il padre di tuo figlio, dopo la richiesta del tuo avvocato, si è sottoposto a un prelievo. Il sangue è stato esaminato ma…»

    «Ma?»

    «Incrociando i risultati non siamo giunti alle stesse conclusioni che ci aspettavamo dopo l’analisi della saliva e del bulbo pilifero».

    «Sta scherzando? Lei sa benissimo che è lui il padre. Mi aveva detto che l’esame biologico sarebbe servito solo come conferma».

    «Generalmente è così. Purtroppo però, da un punto di vista legale, fa testo l’esame sul sangue. E questo non ha fornito i risultati sperati. Mi dispiace…»

    Sul volto della Cohen spuntò per la prima volta un’espressione più morbida.

    «È lui… non ci devono essere dubbi. È lui! Pensa che mi sia inventata tutto?» Tamar stava esplodendo in tutta la sua rabbia. «Lo sapranno tutti, lo rovinerò…»

    «Tamar, calmati!» la dottoressa le prese una mano, cercando di tranquillizzarla. «Non puoi».

    «Non posso cosa?» singhiozzò.

    «Non puoi accusare quell’uomo di averti sfruttata, mettendoti incinta, se non hai le prove che questo sia realmente accaduto».

    «Io ho le prove! Le mie prove hanno quindici mesi, più altri nove di gravidanza!»

    «No, non basta. E scagliare la tua rabbia contro un personaggio di questo livello farebbe solo del male a te e a tuo figlio. Comunque…» la Cohen lasciò in sospeso il discorso, sfoderando un inatteso sorriso.

    «Comunque?» a Tamar era improvvisamente rinata la speranza.

    «Abbiamo una seconda opportunità. Io sono sicura che dici la verità, così come sono certa di quel che ho visto dopo le prime analisi. Questo porta a una sola conclusione: che il campione di sangue è stato in qualche modo manomesso, o sostituito. Quello stronzo si è impuntato affinché il prelievo fosse effettuato dal suo personale di fiducia, e non da una commissione istituita dal tribunale come si usa fare in questi casi».

    Tamar spalancò gli occhi di fronte alla parola stronzo. Rimase ad ascoltare, piena di aspettative. La dottoressa Cohen era chiaramente dalla sua parte.

    «Purtroppo i dirigenti di questa struttura sanitaria, considerata l’importanza del soggetto, hanno acconsentito che ciò accadesse. Io giurerei che ha corrotto qualcuno affinché i campioni venissero manomessi».

    «Quindi? Cosa possiamo fare?»

    «Possiamo bluffare anche noi. Non è molto deontologico, ma in certi casi…»

    Alcuni minuti dopo Tamar Chen usciva dal policlinico, lo sguardo perso nel nulla. Di fronte a lei la strada di Jaffa era priva di automezzi, a esclusione del tram che portava dritto alla città vecchia. Sotto il sole cocente il viavai di turisti che si muoveva dentro e fuori i negozi suscitava una spontanea allegria tra gli abitanti del quartiere, ma lei non riusciva a percepire nulla di tutto questo. Prima di allontanarsi dal laboratorio, davanti ai suoi occhi, la dottoressa Cohen aveva stilato un rapporto in cui dichiarava l’impossibilità di eseguire il test di paternità per uno sventurato errore nella manipolazione iniziale dei campioni biologici. Aveva altresì chiamato il direttore, chiedendo esplicitamente che, come da termini di legge, l’esame fosse ripetuto con procedura d’urgenza specificando che, considerati i presunti errori già commessi, lei stessa si sarebbe occupata dell’intero procedimento, dal prelievo del campione fino all’analisi conclusiva. Il direttore non avrebbe potuto far altro che accettare la richiesta, informando gli avvocati delle due parti.

    Tamar si gettò tra i passanti, col cuore pieno di speranza.

    CAPITOLO 3

    Roma, 5 ottobre 2016

    Era diventato quasi un rituale. Ogni qual volta Alessandra Banti si apprestava a intraprendere un viaggio per una destinazione lontana, aveva necessità di vedere l’amica di sempre per una chiacchierata davanti a un buon piatto.

    In uno dei suoi locali preferiti, La Pariolina, era fissato l’incontro con Isabella.

    Abitavano in due quartieri diametralmente opposti, rispetto al centro di Roma: Alessandra soggiornava in un appartamento ai Parioli, mentre Isabella Vicari viveva e lavorava in quello Ostiense. Eppure, con assidua frequenza, si mettevano a disposizione l’una dell’altra e sfidavano il caotico traffico della Capitale per annullare quella distanza. Così accadde anche quella sera.

    Si conoscevano da circa quarant’anni e, sebbene Isabella avesse già oltrepassato i cinquanta da alcuni mesi, il lustro di differenza tra le due donne non si notava affatto. Anzi, per taluni aspetti, Isabella appariva quasi più giovanile nel modo di proporsi: più robusta fisicamente e di certo meno attraente rispetto all’amica, con qualche grammo di cellulite in più nelle gambe, aveva un carattere allegro e idealista, uno spirito libero da pensieri e preoccupazioni e non aveva remore a scherzare relativamente alla sua quarta misura di reggiseno che di sicuro Alessandra, col suo fisichino asciutto e un titolo di reginetta italiana alle spalle, le avrebbe comunque invidiato fino alla fine dei suoi giorni. Si erano incontrate per la prima volta molti anni prima, da bambine, in un campeggio di Ostia frequentato dai rispettivi genitori. Da allora, in quella località turistica, si sarebbero ritrovate decine di volte, stringendo un’amicizia a detta di loro stesse impareggiabile. Avevano giocato da bambine; si erano raccontate ogni confidenza nel periodo adolescenziale. La distanza anagrafica si era poi magicamente azzerata negli anni universitari quando Isabella aveva deciso di iscriversi, con cinque anni di ritardo e dopo aver tentato la via del lavoro, alla Facoltà di Psicologia col chiaro intento di coronare il sogno di una vita: quello di diventare criminologa investigativa. Era riuscita a far diventare la speranza realtà mentre, di pari passo e in quella medesima sede, Alessandra proseguiva la sua strada alla Facoltà di Giurisprudenza. In quegli anni avevano condiviso un appartamento a Roma, vicino alla Sapienza, e con questo i racconti personali, con annesse gioie e delusioni vissute privatamente nella vita sociale e sentimentale. A cementare ancor più la decennale amicizia aveva contribuito in quegli anni l’ingresso nelle loro vite di Edoardo Marchetti, ragazzo affascinante, amante della musica, conquistato dal sorriso e soprattutto dal seducente fisico di Alessandra. Isabella, per nulla gelosa, aveva caldeggiato il loro rapporto, diventando la migliore amica di entrambi.

    A cedere per prima al grande passo del matrimonio era stata però proprio Isabella che, ottenuta la laurea, aveva conosciuto e sposato dopo meno di un anno di convivenza un professore di Lettere Moderne, più giovane di lei. Nonostante l’arrivo di tre figli, era riuscita a non far cedere di un millimetro il suo intenso lavoro come criminologa, conquistando inattesa popolarità con la partecipazione a format televisivi di attualità in cui le era concesso mettere in mostra tutta la sua esperienza. Le si erano spalancate, così, le porte del giornalismo, con la collaborazione ad alcune importanti testate del centro Italia e, di conseguenza, aveva ottenuto successo come scrittrice con i suoi saggi sulla criminologia.

    Con qualche anno di ritardo, anche Alessandra aveva deciso di fare il grande passo, sposando Edoardo il quale aveva di fatto trovato inattesi e molto remunerativi sbocchi di lavoro negli Stati Uniti come insegnante di Storia della Musica. La naturale idea di seguirlo a Indianapolis aveva però aperto alcune crepe, dapprima nel loro stesso rapporto, quindi nell’ambito lavorativo.

    «Ti sei rimessa dallo shock?»

    Isabella esordì con un sorriso tenero. La notizia dell’infarto che aveva stroncato la vita di Angelo Tagliapietra aveva già fatto il giro della Capitale ed era rimbalzata su tutti i media nazionali.

    «Era un brav’uomo» commentò Alessandra. «Ci eravamo sentiti non più di una settimana fa».

    «Viveva solo?»

    «Era vedovo. Da quando è morta la moglie si era un po’ spento. Però svolgeva egregiamente il suo lavoro».

    «Mi sembri sconvolta. Lo conoscevi così bene?»

    Alessandra rimase in silenzio. Lo sguardo perso nel nulla mentre la sua mente vagava altrove.

    «In verità non sto attraversando un gran bel periodo» disse poco dopo, cambiando argomento. «Non ce la faccio più con Edo».

    Le parole, uscite spontaneamente dalla sua bocca, avevano all’improvviso riaperto una lunga serie di chiacchiericci rimasti in sospeso tra le due amiche a riguardo.

    Isabella conosceva la situazione di Alessandra e per quanto avrebbe preferito discutere d’altro, capì in quel momento che era stata chiamata dall’amica per liberarsi di un peso. Abbandonò le posate sul piatto, lasciando raffreddare la pizza appena servita, attendendo che lo sfogo prendesse forma in tutti i suoi aspetti.

    «Hai deciso di mollarlo?»

    Si appoggiò su un gomito col sorriso a metà, spostandosi una ciocca di capelli biondi dal volto.

    «Lo sai benissimo che tra noi è finito tutto da molto tempo» rispose, quasi stizzita.

    «Lo so, Ale. È da almeno cinque anni che mi racconti che è finita tra di voi, ma che non vuoi lasciarlo; e poi che gli vuoi bene, ma vorresti una nuova vita… questa sera hai però lo sguardo diverso dal solito, quasi ti sentissi in colpa per qualcosa».

    «Edoardo e io ci siamo parlati chiaramente. Non sono solo io ad aver bisogno del mio spazio. Anche lui ha il diritto di farsi una nuova vita per ottenere ciò che non posso dargli».

    «Ti riferisci al fatto che non avete figli?»

    Isabella liberò una risata quasi di scherno. «Cazzate! Conosci il mio pensiero. Sappiamo bene entrambe che ha un conto in banca senza fine, che potrebbe ottenere tutto quello che desidera ma che finora non ti ha mai mollata per il semplice motivo che vuole stare con te».

    «Isa… lui potrebbe averne se si mettesse assieme a un’altra meno…»

    «Vuoi dire meno sterile?». Attese che passassero quei pochi istanti prima di proseguire: «E secondo te lui meriterebbe una donna migliore solo per il semplice fatto che potrebbe, teoricamente, dargli un figlio?».

    Alessandra scosse la testa. «Non è solo questo».

    «Ale, immagino non sia l’unico problema tra voi due. Ciò che mi lascia perplessa è che non ti ho sentita una sola volta in tutti questi anni dire che lui non ti ama più. Mi hai sempre raccontato che vive per la musica, per il suo lavoro, che non ti dedica abbastanza tempo, che viaggia troppo, ma mai che non gli vai a genio e che vuole separarsi da te».

    «Veramente è stato lui a chiedere la separazione» ribatté Alessandra.

    «Ma dopo avergli detto che volevi tornartene a Roma. Per sempre!»

    «Certo! Non ho forse diritto ad avere delle ambizioni? Anch’io ho un lavoro, dei genitori, degli amici. Dovrei restarmene a Indianapolis per fare la mogliettina che aspetta il marito al ritorno dalle sue esperienze musicali» mimò sarcasticamente con due dita le virgolette «per raccontarmi i suoi progressi nella composizione armonica?»

    «Lui ti ha chiesto di fare questo?»

    «In un certo senso…»

    Isabella prese con le mani un quarto di pizza, la piegò a triangolo e se la infilò in bocca lasciando sedimentare alcune riflessioni che, già lo sapeva, Alessandra non avrebbe mai ascoltato. La conosceva troppo bene: non era convinta di quello che stava dicendo, probabilmente neppure del fatto di voler chiudere ogni rapporto con suo marito. Però era una testarda, e lei non aveva cartucce a disposizione, se non quelle della solidarietà e del rispetto, per far cambiare decisione alla sua migliore amica. Osservò che l’altra pizza su quel tavolo era ancora quasi intera.

    «Non hai appetito?» le chiese.

    «Non tanto».

    Isabella decise allora di cambiare argomento.

    «Ehi! Se non sbaglio noi ci troviamo a mangiare qualcosa prima che tu parta per un viaggio».

    Conquistò il suo sorriso.

    «L’ultimo omaggio di Tagliapietra, prima di morire. Mi ha scritto una mail, seguita da una lettera» disse Alessandra, manifestando una punta d’orgoglio.

    «In quale buco di culo del mondo ha deciso di spedirti il vecchio, prima di andarsene?»

    «Non è un buco di culo, come dici tu, e non mi piace che lo chiami vecchio».

    «Scusami».

    Isabella riconobbe la mancanza di sensibilità. «Mi sembri eccitata da questa cosa, racconta».

    Alessandra desistette dall’ingoiare il boccone e raccontò a Isabella di Tel Aviv: il programma Armarsi per la pace e il summit della Fusion nel cui ambito avrebbe partecipato attivamente in veste di ambasciatrice italiana.

    «Capisci, Isa? Hanno scelto proprio me! Potrò esporre le mie idee di fronte al gotha delle più importanti organizzazioni mondiali e del governo israeliano. Farò parte del Consiglio! Sai bene da quanto mi sto battendo per la pace nel mondo. Inizialmente Tagliapietra aveva rifiutato la mia richiesta, ma poi ha evidentemente rivalutato le mie argomentazioni, accontentandomi».

    «Sono orgogliosa di te». Isabella le trasmise fiducia, prima di esporre le proprie opinioni. «Anche se sai bene cosa ne penso della Fusion Foundation e di chi la governa».

    «Sono persone speciali, che raccolgono fondi per chi non è altrettanto fortunato come noi» replicò ancora una volta, con convinzione.

    «Sì, immagino ci siano dentro anche persone fuori dal comune come te, ma ai livelli alti… sai, lavorando per la stampa, ne ho sentite di cotte e di crude sulla Fusion».

    «Solo dicerie».

    «Forse. La cosa importante è che continui a credere nei tuoi ideali e che ci sia sempre qualcuno nell’ambiente che frequenti in grado di supportare le tue stesse convinzioni. A proposito, perché Israele?»

    «Come perché?» Alessandra si fece cogliere impreparata. «È la sede del summit».

    «Dai Ale! Ti conosco fin da quando andavi alle elementari e so perfettamente che il Fusion Day più rappresentativo al mondo, dove si prendono le decisioni più importanti, si svolge al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York. Perché hai fatto richiesta proprio per Tel Aviv?»

    «Sei davvero l’unica persona sulla faccia della Terra che mi conosce così bene» arrossì.

    «È almeno carino?»

    Isabella aveva intuito il seguito.

    «Ehi! Non farti strane idee! Sì, c’entra un uomo, ma non è come pensi. Incontrerò Aaron Friedman. È una persona stupenda, ricca di ideali, propositivo e… presidente della Fusion in Israele, e nel mondo».

    «Accidenti! Ne ho sentito parlare, un pezzo grosso! Quindi, non c’entra l’aspetto fisico?»

    «Ha quindici anni più di me e l’ho visto solo una volta dal vivo».

    «Però ti affascina…»

    «Però non è per il suo aspetto che sono felice di incontrarlo».

    Si misero a ridere, coinvolte nel buonumore, proprio nel momento in cui una signorina dall’aria stanca si avvicinò per chiedere se era tutto a posto. Il resto del locale si era svuotato ed era evidente che la cameriera fosse arrivata giusto a sottintendere che la pizzeria stava per chiudere.

    Avrebbero voluto condividere molto di più, quella sera, ma le ore erano trascorse impietose.

    Uscite dal locale si strinsero in un caldo abbraccio, strappandosi la reciproca promessa di sentirsi non appena Alessandra avesse messo piede in Israele.

    CAPITOLO 4

    Londra, 6 ottobre 2016

    Le suole gommate delle scarpe rimbalzavano sui marciapiedi risaltando, come lancette di un cronometro, nella quiete mattutina di Chelsea. Senza allontanarsi per troppi isolati dalla sua residenza, in completo da ginnastica grigio, Sir Sefton Perkins sbuffava anidride carbonica dalla bocca sostenendo un ritmo intenso di corsa, quasi a voler competere con la scorta di due uomini che lo seguivano, secondo ordini prestabiliti, a debita distanza. Nell’abituale ora di footing – rigorosamente compresa tra le sei e le sette – correva per mantenere allenato il fisico aitante prima che le luci grigiastre dell’autunno prendessero il sopravvento sull’oscurità nei cieli di Londra. Solo il bagliore dei lampioni tracciava un percorso ormai conosciuto a memoria dal politico, salito in quegli ultimi anni alla ribalta tra le persone più conosciute del Regno Unito.

    Quarto e ultimo figlio di una numerosa famiglia di Newcastle, nel nord Inghilterra, Perkins aveva coltivato fin da giovane ambizioni politiche. Animo ribelle ai tempi della scuola, all’Università di Oxford era balzato agli onori della cronaca per le sue intemperanze nei confronti della polizia durante una manifestazione contro l’utilizzo di cibo non controllato da parte di alcune note multinazionali. Arrestato, aveva comunque acquistato un certo credito tra i sostenitori della rivolta, ottenendo la fama di vero leader. Conseguita la laurea in Filosofia Politica ed Economica, si era quindi definitivamente schierato col partito dei Conservatori, scalando le gerarchie più per il suo stile personale, ottimista e informale, che per la provenienza sociale. Al culmine della crisi economica che aveva investito il Paese e l’intera Europa si rivelò brillante nell’organizzare il dibattito con la Germania per risolverne le problematiche grazie all’intervento della Bundesbank. Diventato Ministro del Tesoro, a pochi mesi dalle elezioni per i candidati in Parlamento, si ritrovava favorito nel ricco collegio dell’Oxfordshire per l’elezione alla Camera, intravedendo, ad appena quarantatré anni, lo spiraglio in un futuro da Primo Ministro. Ammirato dalla massa per la sua intelligenza strategica e politica, non lo era meno per il caratteristico fascino: sebbene non passasse inosservato il fisico asciutto e costantemente allenato, riusciva a far colpo sulle donne specialmente per il suo sguardo rassicurante e gli occhi azzurri e penetranti. Classico marito e padre ideale, così veniva descritto dalle signore inglesi dai venticinque ai quarant’anni che avevano risposto a un sondaggio sul suo conto.

    Perkins sentì vibrare il cellulare dentro la tasca dei pantaloni Adidas. Non era un amante dei device e avrebbe volentieri rinunciato alla compagnia dello smartphone in uno dei rari momenti di svago che poteva concedersi nella giornata. Riconosceva altresì insensato liberarsi di un mezzo di comunicazione in quel cruciale periodo politico, mentre i suoi informatori erano al lavoro ventiquattro ore su ventiquattro per captare e studiare le mosse avversarie. I sondaggi non lo davano per favorito ma al numero 10 di Downing Street il suo nome echeggiava ancora tra i papabili candidati a poco meno di tre mesi dalle elezioni.

    Guardò il display. Si spazientì mandando metaforicamente a quel paese il mittente della chiamata e se stesso per avergli fornito, a suo tempo, quel numero privato. Il primo istinto fu di riporre il telefono e proseguire, ma presto cambiò idea: quel rompiscatole l’avrebbe tormentato chissà quante altre volte fino ad averla vinta. Meglio togliersi il pensiero disse tra sé e sé.

    «Pronto?» rispose, senza rallentare la corsa.

    «Sono Mizrachi».

    «Sì, ho visto». Perkins si prese qualche secondo sottolineando, con quella pausa, che non sopportava ricevere telefonate a quell’ora del mattino. Tanto meno da uno come Omer Mizrachi. Poi riprese, seccato.

    «Allora? Non ho tempo da perdere».

    «Ho fatto quello che mi aveva suggerito» disse l’interlocutore con tono penetrante. «Nessun risultato».

    «Forse questo significa che non c’era da attendersene».

    «Lei conosce la situazione…»

    «La conosco per come lei me l’ha descritta…» Perkins sbuffò irritato «… e se non ho ritenuto darle credito fino in fondo è per il semplice motivo che mi servono riscontri da parte di chi è più in alto di lei. Signor Mizrachi, questi riscontri non li ho avuti».

    «La segnalazione che le ho riportato è corretta. Ne sono certo. Deve fidarsi di me».

    «Mizrachi… lei è come un canotto di gomma che pretende di spostare una portaerei con una spintarella. Stia attento a non scoppiare. Lasci perdere, è un consiglio da amico». Perkins si lasciò andare a un vanitoso sorriso, auto-compiacendosi del paragone appena concepito. Gli uomini della scorta lo guardavano senza capire.

    «Onorevole Perkins. Io voglio vederci chiaro. Tutti in questo ambiente preferiscono lasciar perdere, ma io no. Dovrei rinunciare ad andare in fondo al problema per timore di cozzare contro qualche potente? Dovrei aver paura anch’io, come tutti?» Mizrachi fece un respiro profondo prima di scaricarsi completamente. «Anche lei è come tutti gli altri! Mi invita a procedere nelle mie ricerche per saperne di più e poi, appena si accorge che tocco qualche nervo scoperto, mi consiglia di… lasciar perdere. Cosa teme, signor Perkins? Di essere invischiato anche lei? O forse è già coinvolto in questa storia?»

    «Basta!»

    Perkins interruppe la sua marcia, ansimante più per il tono della conversazione che non per lo sforzo profuso per l’allenamento. Alle sue spalle, anche le guardie del corpo si fermarono. Quando si convinse di aver arrestato il fiume di parole di Mizrachi, riprese sottovoce.

    «Lo sa che qui in Inghilterra siamo in periodo di elezioni?»

    Prese il silenzio che seguì la sua domanda come un . «Può quindi immaginare che il mio telefono ha elevate probabilità di essere sotto controllo. Sa, di questi tempi ci si appiglia a ogni parola pur di dar contro a un candidato».

    «Immagino che sia così» balbettò Mizrachi.

    «Ma non è tanto questo che mi preoccupa. Io credo che lei sia dalla parte del giusto o quantomeno in buona fede, ma mi sta chiedendo di prendere le sue difese in una caccia alle streghe, schierandomi contro qualcuno che neppure lei sa indicarmi con certezza come responsabile. A che livello è identificabile la perdita? Chi è l’ideatore? Dove sono

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