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L’Altra Vocazione
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E-book267 pagine4 ore

L’Altra Vocazione

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Il Libro, ambientato in Sicilia, dagli inizi degli anni trenta, ha come protagonista un bambino, Salvatore Alieri, assillato, sin dalla prima infanzia, da visioni ossessive che gli fanno apparire, durante la messa domenicale, il rito del sacrificio eucaristico, come un rituale cannibalistico, officiato dal sacerdote. Dopo le sue prime confessioni con il parroco, Salvatore si ritrova a percorrere la strada del sacerdozio, in pieno regime fascista. Nel frattempo, i militi del paese sono impegnati a scovare i pedofili responsabili dello stupro e uccisione di un bambino, Mario Lupino, violentato, ucciso nei pressi di una miniera di zolfo. Questo delitto scuote gli alti gerarchi della milizia. I due pedofili, arrestati, con l’aiuto della mafia, processati, sono fucilati a Caltanissetta. Il piccolo Salvatore Alieri e il fratello Giovanni, assistono prima al processo, poi all’esecuzione capitale dei due pedofili. Salvatore, e Giovanni poi, entra in seminario, dove egli si rivede con un suo amico, Enrico Giunna, figlio del capitano della milizia. L’infanzia di Salvatore matura in un ambiente familiare rurale e pastorale, in cui è centrale il ruolo del nonno materno e dei genitori. L’esordio del libro è caratterizzato da vicende belliche dello sbarco degli alleati, efferati stupri di soldati, vendette dei siciliani. I fatti vengono anche a intrecciarsi con crimini mafiosi, ambientati sia in Sicilia sia negli Stati Uniti, scontri tra la banda di Salvatore Giuliano e Forze dell’Ordine, fatti di nobiltà d’animo di questo noto personaggio. Ancora nell’esordio, e nell’epilogo del libro, emergono emozionanti vicende che s’intrecciano con l’ascesa politica del protagonista, Salvatore Alieri. Epilogo: in questo contesto storico, emerge il perché in Italia, A causa dell’ Altra Vocazione, cioè propensione alla corruzione e discriminazione, si è Cristiani senza Chiesa, Socialisti senza Partito, Cittadini senza Patria. Il libro è ricco di profonde riflessioni dei personaggi. L'autore va alla radice per comprendere misteri, vicende di quella Sicilia, dell'Italia, travagliata dal trapasso dall'epoca fascista a quella repubblicana, sino ai nostri giorni, al fine di esplorare realtà di una terra sempre ricca di misteri, per comprendere il perché, in Italia, si è sfociati nel modo di far cattiva politica. Per fortuna che c’è sempre uno più puro di noi che ci epura con le sue buone azioni e il sacrificio: altrimenti verrebbe sempre il peggio.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2014
ISBN9788891135575
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    L’Altra Vocazione - Salvatore Lisi

    Salvatore Lisi

    L’ALTRA VOCAZIONE

    YoucanprintSelf - Publishing

    Titolo | L’Altra Vocazione

    Autore | Salvatore Lisi

    In copertina foto dell’Autore

    ISBN |9788891135575

    Prima edizione digitale: 2014

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 – 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

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    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Riconoscimenti Letterari di Salvatore Lisi:

    Ai miei figli Giuseppe e Antonella

    L’Umanità, la Legalità, l’Uguaglianza hanno

    fondamenta quando c’è qualcuno più puro che ci epuri.

    PREMESSA

    A tutti capita, nell’infanzia, di crearsi un modello di vita: pensare di diventare, da grande, un prete, un dottore o qualcos’altro. C’è chi pensa di farsi medico; poi, però, si ritrova macellaio; c’è chi, crescendo nella macelleria del padre, vorrebbe ereditarne il mestiere, mentre, in seguito, diventerà un bravo chirurgo, sotto lo stimolo, sin dall’infanzia, d’aver visto sezionare bovini o altro. A qualcuno è capitato anche sognar di diventare Prete, spinto dall’amore verso il prossimo, mentre realmente è diventato Onorevole. Quanti seminaristi hanno deviato i loro studi teologici verso altre discipline? Quanti di loro sono diventati Onorevoli? Sicuramente tantissimi. Stalin fu un seminarista. Anche capimafia hanno studiato in seminario. I motivi della devianza dai loro studi sono tanti: perdita di vocazione, sopraggiunti problemi sociali o economici, esigenze di famiglia, nuove esperienze di vita maturate durante il corso degli studi. C’è invece chi, a un certo momento della vita, si rende conto che un prete distribuisce l’ostia ai fedeli, pascendo il suo gregge, mentre un onorevole distribuisce appalti o posti del pubblico impiego ai suoi elettori più influenti, pascendo il proprio elettorato. Alla base di questa logica c’è la teoria del pascolo, con la conseguenza che alcuni, nella società, ottengono di più mentre altri di meno o addirittura proprio niente. Seguendo questa logica, in una nazione, si generano figli e figliastri, a scapito della legalità, dell’uguaglianza sociale. Uno Stato caratterizzato da questa realtà è fondato sulla corruzione. Per fortuna che c’è sempre qualcuno, più puro di noi, che ci epura con buoni esempi, con il sacrificio, altrimenti verrebbe sempre il peggio.

    L’Autore

    Salvatore Lisi

    PROLOGO

    Era domenica, caldo giorno di Luglio del 1938; l’afa siciliana sempre in agguato. Come tutti i bambini della sua età, sette anni, Salvatore Alieri andò alla messa delle undici. Aveva, in Maggio, già fatto la prima comunione. La chiesa di San Rocco brulicava di fedeli. Fra tutti, seduti davanti, si distinguevano i gerarchi fascisti del paese, Zetura, nella provincia di Caltanissetta: tutti ammutoliti, lo sguardo alzato, dissuasivo, gli occhi fissi verso l’altar maggiore, vestiti con l’impeccabile uniforme fascista. I bambini sedevano, ai due lati di quel pittoresco tavolo liturgico. Il piccolo Salvatore Alieri, colto d’ossessioni, restò a fissare, sin dall’inizio della messa, il crocefisso. Quando il parroco, don Salvatore Ferro, arrivò a pronunciare le sacre parole dell’eucarestia - Prendete e mangiate: questo è il mio corpo! Prendete e bevete: questo è il mio sangue! - il piccolo Salvatore Alieri, all’istante, ossessionato, identificò il capo di Gesù con la testa di quell’agnello macellato, che lui aveva visto, il giorno prima, esposto fuori, appeso a un crocchio, di lato alla porta del macellaio, don Giuseppe Farruggia. Sotto lo stimolo di quelle parole, egli incominciò a fissar le altre statue di santi. Tutte gli sembravano pecore appena macellate: l’addolorata, con il suo pugnale conficcato al petto, la identificò a una pecora, alla quale il suo macellaio avesse lasciato il coltello al cuore. Osservava le facce serie di tutta quella gente che assisteva alla messa: le persone gli sembravano, con i loro occhi penetranti, a volte indolenti, burberi, dritti al Parroco, le orecchie tese a quelle sacre parole, delle bestie affamate, pronte a divorare l’Agnello di Cristo. Il Podestà, l’avvocato Giuseppe Strapperi, che fu il primo a mettersi in fila per la comunione, seguito dalla moglie e dagli altri gerarchi della milizia fascista, gli sembrò, di colpo, la bestia famelica che avanzasse qualche pretesa in più per aver la parte più prelibata dell’Agnello di Cristo, appena macellato, squartato dal Parroco, secondo il suo incubo. Finita la messa, le persone, qualcuno asciugandosi la fronte sudata per la calura repentina di Luglio, uscivano dalla chiesa salutandosi, lieti sorrisi, calorose strette di mano, scambi referenziali di cortesie fra le signore, consorti dei gerarchi. In queste scene, tipiche della struttura sociale interclassista monarchico fascista, adattata all’ambiente rurale, erano di primo piano gli inchini dei nobili alle signore, qualche bacio di mano delle umili massaie alle nobildonne, che, tutte coperte di cipria, ventaglio in mano, rossetto alle labbra, lussuosi, sbiancanti veli in testa, non disdegnavano di porgere la loro mano destra. Essi, visi sorridenti, gaudenti, tornavano alla mente del piccolo Salvatore Alieri come dei cannibali che, appagati, dopo il banchetto, dalla carne del povero Gesù, se ne ritornavano a casa, rilassati. Insieme ai suoi compagni, Salvatore, tutto ammutolito, serio, taciturno, continuava a fissar quella gente: scrutava nei loro animi. I visi delle persone più autorevoli del paese gli tornavano, ancora in mente, come belve fameliche, cogliendone, dal loro aspetto, dal loro carattere, garbo, qualche somiglianza con gli animali che lui aveva visto su in una pagina del suo libro di scuola - frequentava la seconda elementare - intitolata Lo Zoo. Di questa gente, egli, però, non aveva alcuna paura. Verso di loro, tuttavia, incominciò a provar disprezzo: per il momento, essi gli tornavano in mente come cannibali momentaneamente sazi.

    Il capitano Luigi Giunna, così, con il suo fisico robusto, la faccia ossuta, truce, dissuasiva, lo paragonava a un leone; il podestà Giuseppe Strapperi, robusto, con il viso arrotondato, gli tornava in mente come un orso famelico. In realtà, si trattava di gente siciliana, non proprio tanta cattiva, che aveva partecipato alla marcia su Roma. Gente che viveva rarefatta nell’esaltazione, nelle emozioni di quell’epoca fascista, che, in Sicilia, però, aveva le sfumature di una dittatura da operetta. Una tirannia, quindi, non proprio, brutale come quella dell’Italia Settentrionale; ma, all’occasione, solo qualche sfumatura violenta, come le legnate, manganellate, date, nella caserma del littorio, a qualche ladruncolo di derrate agricole, covoni di fave, grano; o a qualche ragazzo che sparava qualche pernacchia al loro passaggio. Erano essi quei fascisti che, quando si arrabbiavano, sebbene fossero non privi di crudeltà, facevano, a volte, più ridere che paura. Alcuni di essi portavano, in petto, qualche medaglia della prima guerra mondiale. Il piccolo Salvatore Alieri, era vestito alla marinara. Faceva parte, nella gerarchia fascista, dei Figli della Lupa, come tutti i bambini della sua età. I gerarchi fascisti del paese erano alle prese con un brutto evento, che aveva scosso le coscienze, non solo della gente del paese ma anche di tutta la Sicilia: era stato brutalmente assassinato, vicino alla vecchia miniera di zolfo, un bambino che si chiamava Mario Lupino. Il suo corpicino fu trovato nel fiume Faggio, a circa tre chilometri dal paese. Mario, prima d’esser ucciso, fu violentato. Il referto della scientifica giunse in paese proprio quella mattina; e, in poco tempo, il contenuto di quella lettera fece il giro del paese. La gente, in particolare i militi fascisti, provava disprezzo per quel fattaccio, che aveva angustiato, in pochissimo tempo, tutta la provincia di Caltanissetta. Nella caserma fascista, il capitano Luigi Giunna, terminata la messa, aveva riunito frettolosamente i suoi militi.

    ESORDIO ED EPILOGO

    «Camerati» disse il capitano della milizia Luigi Giunna, voce ardita, autoritaria, sguardo truce, i suoi militi sull’attenti ad ascoltarlo, in quella casa del littorio, al centro della piazza Dante, «a prima mattina, io sono stato chiamato dal Federale, generale Giulio Erimaldi, che mi ha esposto il suo rammarico per il delitto del piccolo Mario. Quest’omicidio, così brutale, egli mi ha detto, voce dura e decisa, ha fatto notizia fra i nostri alti gerarchi di Roma. Questo è un delitto che offende l’orgoglio, la morale fascista. Il Federale mi ha ordinato di scovar gli assassini, di affidarli alla giustizia fascista nel breve tempo possibile, affinché sia dato un duro monito a tutti i balordi d’Italia! Il Federale ha deciso che fra due giorni, quindi martedì pomeriggio, al suo rientro da Roma, sarà qui, da noi, per questo fatto orrendo, per esser presente al funerale del piccolo Mario Lupino! Ora, noi cercheremo subito, con la massima riservatezza, di darci da fare per trovar gli assassini! Se c’è qualcuno che ha notizie, parli subito!»

    «Capitano» disse il milite Angelo Lupo, annuendo, alzando la mano, poi sguardo serio, sull’attenti, «io, verso le cinque di pomeriggio, giovedì, ultimo giorno in cui fu visto Mario, mentre rientravo dalla campagna, ho visto due minatori, Antonio Salasabiano e Alfonso Sacca, che guardavano attentamente, come quando le volpi osservano un coniglio prima di aggredirlo, il povero Mario Lupino, mentre questi era intento, ingenuamente, a raccogliere capperi selvatici, nei pressi della miniera».

    «Bravo! Camerata Angelo Lupo!» rispose, prima con atteggiamento fiero, poi del tutto autoritario, il capitano Luigi Giunna. «Il pretore Antonio Navarro e io siamo pienamente convinti che l’omicidio sia stato commesso da qualche pedofilo che lavora nella nostra miniera. Già noi avevamo iniziato a seguire questa pista, ma, fra più di mille minatori, non ci è venuto ancora alcun sospetto su chi potesse essere il colpevole. Il Pretore mi ha detto che, sul corpo di Mario, sono stati trovati moltissimi indizi di violenza sessuale. Per ora, io so solo che in miniera lavorano molti pedofili, e basta! E’ nostro compito scovarli, tutti! Dico assolutamente tutti! Camerata Angelo Lupo, la tua informazione ci ha aperto una chiara pista da seguire tempestivamente!»

    Nel pomeriggio, il Maresciallo dei carabinieri, un certo Ignazio Russo, tipo robusto, paffuto, lineamenti normanni, aveva chiamato in caserma un certo Giacomo Grignina, capomafia del paese di Zetura, per informazioni confidenziali su questo delitto. Il Grignina, costituzione robusta, un po’ panciuto, atteggiamento sempre impettito, folti baffi, era l’uomo d’onore, il più rispettato, temuto in paese.

    «Don Giacomo Grignina» gli disse il Maresciallo dopo che, cortesemente, lo fece accomodare davanti alla sua scrivania con tanto di cappello, lei è sempre stata un uomo d’onore di tutto rispetto, «noi siamo vecchi amici, quindi possiamo parlarci senza mezzi termini; per capirci subito! Quando, qui, in paese, venne il prefetto Cesare Mori, il Prefetto di Ferro, per debellar la mafia, io ho raccomandato a voi, don Giacomo, di collaborar con la giustizia, per arrestare quei criminali, ex combattenti contro gli austriaci, tutti disoccupati, sbandati, che dopo la prima guerra mondiale, vagabondavano per le campagne, rubando equini, ovini, ricattando, uccidendo gente, commettendo razzie d’ogni tipo. Voi avete collaborato; così Voi siete stato graziato, con tutto il nostro rispetto! Voi, don Giacomo, come si dice in paese, avete consegnato alla giustizia la minuta e non la grossa, vale a dire Voi avete collaborato con la giustizia per far arrestare i pesci piccoli, mentre, astutamente, avete protetto i vostri pesci grossi! Pertanto, io da Voi e dai Vostri uomini d’onore, che in questi ultimi anni, con il fascismo, siete diventati ossequenti alle leggi, voglio la piena collaborazione per scovar gli assassini del povero Mario Lupino! Vi dico che già un’ora fa, io ho ricevuto un telegramma. Con esso, sono stato informato dell’arrivo in paese, martedì pomeriggio, per esser presente ai funerali del piccolo Mario, del generale della milizia fascista Erimaldi e del comandante dei carabinieri, colonnello Arturo De Luca. Verrà con loro, anche il professor Nicola Di Martino, criminologo, per indagar sul caso, come disposto dagli alti gerarchi di Roma. Io ho già la percezione che i balordi saranno sicuramente passati per le armi, d’altronde questa è la punizione che essi meritano! A Roma, il camerata giurista Alfredo Rocco, ispiratosi al criminologo Cesare Lombroso, ci ha dato finalmente il nuovo codice penale, che prevede appunto la pena capitale per questo genere di delitto»

    «Certo! Quello che è successo in paese è molto grave! E’ giusto che i colpevoli siano affidati alla giustizia!...» rispose il capomafia, dopo aver ascoltato attentamente il Maresciallo.

    «Don Giacomo» gli rispose il Maresciallo interrompendolo nel discorso, sguardo focoso, occhi sgranati, gesticolando con la mano destra, voce subito adirata, «io voglio da lei notizie rapide, perché, martedì sera, dopo il funerale, ci sarà in municipio, una riunione fra le autorità del paese con queste alte personalità! Prima di quel giorno, io voglio, in qualunque modo, arrestar gli stupratori!»

    Don Giacomo Grignina, si rese subito conto che era opportuno collaborare affinché questi alti dirigenti non si mettessero in testa d’isolare gli abitanti nel paese, come, a suo tempo, fece il prefetto Mori, per ritorsione, al fine di aver la collaborazione della gente per scovare i mafiosi locali. Il Capomafia quindi percepì che questa storia doveva esser chiusa al più presto. Egli già sapeva che c’erano dei sospetti su Antonio Salasabiano e Alfonso Sacca, i due minatori. Voleva però esserne certo. Poi, essendo pure lui una camicia nera, egli aveva avuto anche la percezione di dover informare pure il capitano Luigi Giunna della milizia fascista. Egli, così, intelligentemente, ebbe una fulminea percezione, e disse:

    «Maresciallo, giusto il tempo che io faccia delle indagini; e, questa sera stessa, lei avrà notizie certe!»

    «Si prenda più tempo: svolga meglio le sue indagini! Sono sicuro che Voi, don Giacomo Grignina, aiuterete molto la giustizia a risolvere questo caso! Venga quindi domani sera!»

    «Come desidera lei, comandante Russo!» terminò don Giacomo, alzandosi, stringendogli la mano prima di congedarsi.

    Il capomafia, quando arrivò a casa, sellò subito la sua giumenta e andò, uscito dal paese, a tutto galoppo verso la campagna, alla fattoria di massaro Silvestro Bellomo. La fattoria di don Silvestro era a tre chilometri di distanza dal luogo in cui era stato trovato il corpo di Mario Lupino, il ragazzo violentato e poi ucciso. Quando il Boss arrivò, don Silvestro che stava seduto al fresco, davanti alla porta della sua abitazione rurale, subito disse, alzandosi gentilmente dalla sua sedia non appena vide arrivare il suo amico:

    «A cosa devo l’onore d’averti qui, Giacomo Grignina, amico mio? Sediamoci un po’ al fresco, a berci un bicchier di vino!»

    «Volentieri, Silvestro, anche perché io sono venuto da te per aver informazioni su chi sarebbe potuto esser l’assassino del figlio di Ciccio Lupino».

    «Giacomo, perché? Non mi dir che tu ancor non ci sei arrivato?» rispose subito don Silvestro, prima con un leggero sorriso, poi lo sguardo serio, sgranando gli occhi, luccicanti, fissandolo, per qualche secondo, in faccia.

    «Sì, che io ci sono arrivato!» rispose don Giacomo Grignina, sospirando, lo sguardo serio e pensoso, togliendosi il berretto dalla testa, fronte e colletto della camicia bagnate dal sudore, grattandosi il capo; e, subito dopo, sputando, tutto adirato e nervoso, per terra. Stritolò poi, col piede destro, con violenza, la sua saliva sul terreno, sollevando polvere, come espressione di disprezzo per quel fatto orrendo. Dopo qualche secondo, disse ancora: «Si tratta di Antonio Salasabiano e Alfonso Sacca! Entrambi sono stati visti mentre trascinavano il bambino dentro il burrone; ma io vorrei esserne più sicuro! Vorrei anche esser certo che, con loro, non ci fossero stati anche altri a violentarlo!»

    «No, Giacomo» gli rispose massaro Silvestro Bellomo, strizzandogli l’occhio sinistro, «non ci sono stati altri con loro due! Ho visto proprio tutto io; ahimè, con tutto il mio rammarico, purtroppo, di non aver potendo far niente di più di quello che io abbia potuto fare per evitar questo barbaro assassinio! Ora, tu, Giacomo, stammi solo ad ascoltare! Ti racconterò proprio tutto!»

    «Ero con le mie pecore proprio sopra quella montagna» incominciò a raccontare don Silvestro Bellomo, alzando prima la mano destra per additare quel luogo, poi per far cenno al suo amico di sedersi per bere insieme quel bicchier di vino: «Io mi trovavo lì, in vetta a quella cima, in sella alla mia giumenta, quando sentii gridare a valle. Vidi che, proprio a cinquecento metri dal fiume, questi due balordi trascinavano il ragazzo dentro il burrone, dandogli forti ceffoni per stordirlo. Il ragazzo era già in quel luogo, come avevo visto un’ora prima. Egli raccoglieva capperi. Alle quattro del pomeriggio, dalla miniera uscirono i minatori che avevano terminato già il loro turno di lavoro. Il Salasabiano e Sacca erano tra questi. Loro due restarono, mentre gli altri minatori si avviarono verso l’autobus per ritornare in paese. Quando io capii che quei balordi stavano per iniziare lo stupro, sparai subito in aria due colpi con la mia doppietta; ma io notai che i due non capirono il significato dissuasivo dei miei due spari…; e iniziarono a stuprarlo selvaggiamente. Allora dissi subito a Peppe Trinca, il mio servo pastore, di badare alle pecore, perché io sarei sceso a valle per prestar aiuto a quel ragazzo, che gridava a squarciagola chiamando aiuto. Sparai in aria altri colpi; ma i due erano accanitamente intenti a violentarlo. Il sentiero che percorrevo entra fra quelle due collinette, per un tratto di dieci minuti, dal quale non si vede più nulla a valle. Quando uscii da questa gola, io vidi che i due si dileguavano, mentre il ragazzo era per terra; stramazzava, delirante. Io ero ancora molto distante. Capii che ormai non c’era più niente da fare; mi feci il segno della croce; pregai il nostro Dio che il ragazzo fosse vivo. Quando ritornai indietro, Peppe Trinca, mi raccontò quello che lui aveva visto dall’alto della montagna. Dopo che i due ebbero finito di stuprarlo, il ragazzo gridò di raccontare tutto a suo padre e di denunciarli. Allora, il Salasabiano gli diede un forte ceffone, mentre il Sacca impugnò il coltello;… e, al ragazzo, tagliò, misera freddezza criminale, la gola!»

    «Ucciderei questi bastardi come loro hanno assassinato il piccolo Mario, ma i carabinieri vogliono i colpevoli vivi!» disse il boss Giacomo Grignina, gli occhi arrossati, le lacrime, stritolando i denti, mordendosi poi la mano destra.

    «Solo i Carabinieri? Perché i militi no?» gli rispose poi don Silvestro Bellomo. Qui ci sono stati, proprio un’ora fa, il capitano Luigi Giunna e alcuni dei suoi militi. A loro, in nome della camicia nera che anch’io indosso, come te, caro Giacomo Grignina, ho raccontato quello che ora io ho narrato a te. Io penso che loro già stiano cercando quei balordi; se non li hanno già arrestati?!»

    «Silvestro, ma perché tu non mi hai fatto sapere prima di questi particolari dell’omicidio?» gli domandò don Giacomo Grignina, alzando la voce, innervosito.

    «Perché, da buon siciliano, io ho ritenuto giusto dar tempo a Ciccio Lupino di vendicare la morte del figlio Mario! Ciccio Lupino è stato informato dei nomi degli assassini del figlio Mario proprio dal mio servo pastore, Peppe Trinca, che ha assistito a questo crimine più di me, come già io ti ho detto prima. Tu, Giacomo, devi sapere che Peppe Trinca è figlio di una sorella di Ciccio Lupino; ed è proprio primo cugino del ragazzo ucciso. Io ho saputo che, in famiglia, Ciccio Lupino e Peppe Trinca già stanno preparando la loro vendetta!»

    Il capomafia, sentendo quelle parole, dopo aver bevuto il bicchier di vino, montò subito sulla sua giumenta: fece un rapido ritorno in paese per andar subito a raccontar tutto al Maresciallo dei carabinieri. Quando egli arrivò in caserma, il Maresciallo era ancora nel suo ufficio, a interrogare persone. Chiese subito al carabiniere di piantone di dover parlare con urgenza al Maresciallo. Il Comandate arrivò subito; e, in un’altra stanza, don Giacomo gli riferì quanto avesse saputo da don Silvestro Bellomo; gli disse che gli effimeri assassini erano, senza dubbio, il Salasabiano e il Sacca. Allora il Maresciallo chiamò subito due carabinieri: disse a loro di seguirlo per

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