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Tre minuti trentuno secondi: Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore
Tre minuti trentuno secondi: Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore
Tre minuti trentuno secondi: Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore
E-book193 pagine3 ore

Tre minuti trentuno secondi: Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore

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Info su questo ebook

Le “picconate” dal Quirinale come tributo ad Aldo Moro, il Maestro che non era stato in grado di salvare. È il punto di partenza di questo ritratto di Francesco Cossiga, arricchito da autorevoli e diverse testimonianze.
A dieci anni dalla scomparsa, il racconto della parabola politica e umana davvero fuori dall’ordinario di una delle figure più importanti e controverse della nostra storia repubblicana.
Simbolo di una stagione consapevole della complessità delle scelte e dell’urgenza di doverle motivare mettendo in conto di non ricavarne immediato consenso.
Senso delle istituzioni e fede religiosa; sapere teologico e spirito polemico; passioni e depressioni: tutto è convissuto nella personalità di Cossiga, con la stessa forza nel suo fragore e nei suoi silenzi.

Prefazione di Mario Segni
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2020
ISBN9788865127285
Tre minuti trentuno secondi: Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore

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    Anteprima del libro

    Tre minuti trentuno secondi - Giampiero Guadagni

    strappano.

    Prefazione

    La richiesta di Giampiero Guadagni di scrivere la prefazione di un libro dedicato a Francesco Cossiga inizialmente mi ha suscitato grandi perplessità. Per la nostra famiglia Francesco non era un amico: era un familiare. Coetaneo dei miei fratelli, compagno di scuola di uno di loro, Francesco è sempre presente nei miei ricordi di bambino. Frequentatore degli stessi ambienti, delle organizzazioni cattoliche che ruotavano attorno a monsignor Giovanni Masia – figura emblematica del mondo cattolico sassarese e parroco, come si sa, di due Presidenti della Repubblica – Francesco è stato uno di noi.

    Ma proprio la familiarità, e quindi la profonda conoscenza della sua personalità, così complessa come ben sappiamo, rende difficile un discorso e un giudizio ragionati. Ho detto di sì alla richiesta solo quando Guadagni ha specificato che il mio avrebbe dovuto essere un intervento soprattutto politico: approfondire e raccontare gli effetti politici della lunga milizia di Cossiga, spiegare in che modo la sua lunga e spesso tormentata attività ha influito sugli anni turbinosi in cui si è svolta.

    Mi si affidava cioè un compito che non ha nulla di personale. Compito difficile, ma di grande interesse. Lo affronto volentieri, nell’ambito delle mie conoscenze, dei miei ricordi e delle mie possibilità.

    Nella parte iniziale della sua attività politica, prima di affacciarsi alla ribalta nazionale, Cossiga fu protagonista di una delle vicende più importanti della vita politica isolana. Nel congresso provinciale della Democrazia cristiana sassarese, nel 1956, fu capolista di un gruppo di giovani dirigenti che inaspettatamente batté il vecchio gruppo di notabili che dieci anni prima, assieme ad Antonio Segni, aveva creato il partito. Si trattava di un gruppo di persone notevoli sul piano culturale e politico, di ispirazione dossettiana, con i quali negli anni precedenti aveva collaborato il primo dei miei fratelli, Celestino. Furono chiamati i giovani turchi. La loro presa del potere segnò una svolta decisiva nella storia di tutta la Dc sarda, grazie al peso dominante che nella politica isolana aveva allora Sassari. Realizzarono immediatamente il nuovo modello di partito che rapidamente si impose in tutta Italia, efficiente, organizzato, aggressivo. Nasceva la Repubblica dei partiti che per decenni avrebbe segnato l’Italia, con tutti i pregi ben noti, e anche con i limiti e le pesantezze che ben presto si rivelarono, prima fra tutte la partitocrazia. Si trattava comunque di un gruppo di alto livello. Da esso vennero tre importanti Presidenti di Regione: Paolo Dettori, Nino Giagu e Pietro Soddu; nonché il futuro ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu. Fu certamente l’atto più importante fatto da Cossiga sulla scena politica isolana. La sua attività e i suoi interessi furono ben presto, e cioè da quando nel 1958 entrò alla Camera dei Deputati, rivolti alle questioni nazionali; e il legame con la Sardegna fu solamente di natura personale ed affettiva.

    L’attività politica di Francesco Cossiga si divide in relazione alle cariche pubbliche assunte in periodi diversi. Possiamo quindi esaminare quella svolta da ministro dell’Interno; quella svolta da Presidente del Consiglio; e infine quella relativa alla sua Presidenza della Repubblica. Va aggiunto che nel decennio successivo alla sua uscita dal Quirinale incise in diversi momenti sulla vita politica nazionale.

    Nel primo periodo da ministro dell’Interno Cossiga deve fronteggiare una grande emergenza: il terremoto del Friuli. Grazie alla bravura di Zamberletti, che gestisce l’azione di Governo in loco, e ad alcune felici uscite televisive Cossiga acquista una ampia popolarità. Nelle elezioni politiche che si svolgono poco dopo, nel giugno del 1976, è rieletto con un numero altissimo di preferenze, oltre 170 mila. Né Antonio Segni né Antonio Maxia, i più votati in Sardegna nelle elezioni precedenti, si erano avvicinati a un simile livello.

    Convinto sostenitore della linea di solidarietà nazionale promossa da Moro, Cossiga inaugura una gestione del Ministero strettamente collegata al Partito comunista. È in questo quadro che realizza la riforma più importante del suo Dicastero, la smilitarizzazione della polizia. Personalmente non ho mai condiviso questa riforma, né ho mai compreso la sua utilità sul piano generale. Fu certamente la spinta comunista, e la speranza di questo partito di occupare dentro la polizia posizioni di controllo attraverso la sindacalizzazione (che per fortuna si sono poi realizzate meno del previsto), la principale ragione del suo varo. Pur ispirandosi alla strategia di Moro, nel rapporto col Pci Cossiga in quel periodo andò oltre la linea morotea. Assolutamente convinto della necessità di raggiungere un accordo di governo col Partito comunista, Moro era altrettanto determinato a mantenersi fermo sulle riforme sostanziali, soprattutto per quanto riguardava i temi dello Stato. Dubito che la smilitarizzazione della polizia, con il forte rischio di inquinamento politico del corpo e del conseguente indebolimento dello Stato, fosse da lui condivisa. Una volta Zamberletti mi mostrò un biglietto autografo in cui Moro la definiva una riforma scellerata. Più tardi, nel 1977, lo stesso Moro bloccò in una riunione della Direzione democristiana una proposta di Cossiga di riorganizzare le forze dell’ordine secondo un criterio che dislocava la polizia nelle città e i carabinieri in campagna. Si racconta che disse lui stesso in quella occasione: Ma se i comunisti decidono di dare una spallata al Governo con che cosa ci difendiamo, con la polizia di Lama?. Nemmeno le roventi polemiche con Occhetto degli ultimi anni della Presidenza spostarono invece Cossiga da un giudizio positivo sulla complessiva strategia comunista.

    Cossiga ereditò un sistema di forze dell’ordine sconvolto dalle vicende degli anni precedenti, dallo scandalo delle schedature Sifar alle lotte intestine dei militari alle polemiche per la smilitarizzazione. In queste condizioni ridare ordine ed efficienza non era facile, e Cossiga non vi riuscì. Al momento del sequestro di Moro i sistemi di sicurezza mostravano, anche pubblicamente, i segni di una crisi e di una disorganizzazione profonda. È in questo aspetto, e non in presunte e fantasiose ricostruzioni di trame internazionali, che vanno ricercate molte delle difficoltà incontrate nel tentativo di salvare Aldo Moro.

    Tutti conosciamo il dramma che si pose alla classe politica dopo il sequestro. Tutti intuiamo il dramma personale ancora più acuto di Cossiga, stretto tra la difesa dello Stato che imponeva la fermezza e il dramma umano che ne scaturiva. Ma è insensato attribuire a chi governava allora colpe nella tragedia. I sospetti avanzati più tardi sulla presunta volontà di non avere voluto fare abbastanza per salvare Moro sono assurdi. Le singole scelte operative, naturalmente, sono opinabili. Ma non esistono regole e pratiche sicure in circostanze così eccezionali. Si può discutere sulla scelta politica che sta a monte di tutto, e cioè la scelta della fermezza e il rifiuto di trattare. Ma anche su questo in realtà le cose sono di una tragica semplicità.

    Ero entrato da poco in Parlamento e ricordo bene il clima e le vicende di quei giorni. La scelta della fermezza apparve alla grandissima parte drammaticamente necessaria. Due ragioni la imponevano. La prima era la uccisione dei cinque agenti di scorta. Ogni trattativa sarebbe apparsa drammaticamente iniqua verso le forze dell’ordine, chiamate ad affrontare il terrorismo a costo della vita, mentre per un uomo politico, per quanto autorevole, si cercava di trattare con gli assassini. Il secondo riguardava la posizione del Partito comunista, schierato immediatamente sulla fermezza più assoluta. Due erano le ragioni che lo spingevano a questo. Innanzitutto la necessità di accreditarsi come affidabile forza di Governo.

    In secondo luogo la lotta durissima con i terroristi e coloro che li appoggiavano o simpatizzavano. La rottura del Pci in quel momento avrebbe provocato la caduta dell’Esecutivo e una gravissima crisi di governabilità nel momento in cui lo Stato affrontava la prova più dura. In questo quadro le iniziative per la trattativa di Craxi e di Pannella apparivano dettate da motivi tattici e da un senso umanitario rispettabile, ma prive di aderenze alla realtà.

    Cossiga visse questa tempesta con dignità e coraggio. Le sue dimissioni immediatamente dopo la morte di Moro furono esemplari. In varie occasioni, soprattutto in occasione della commemorazione di Moro fatta alla Camera e alla quale non volle partecipare, spiegò in modo chiaro e nobile la sua condotta. I fatti gli diedero ragione. L’uccisione di Moro rappresentò il punto della massima violenza del terrorismo rosso, ma anche l’inizio della sua crisi.

    Stupisce e addolora che molti anni dopo, nel 1991, abbia modificato questa posizione e lo abbia espresso pubblicamente. Lo fece con l’improvvido avvio della procedura per la grazia a Curcio. Ed ancor più con le dichiarazioni sul riconoscimento politico delle Brigate Rosse. Mutamenti così radicali su temi fondamentali suscitano uno sconcerto profondo nella opinione pubblica. Forse hanno anche accentuato la sua sofferenza interna, gettando ombre e dubbi su una vicenda e un comportamento che sino ad allora era sembrato, e a me sembra ancora, lineare e coraggioso.

    Il periodo più noto della presidenza di Francesco Cossiga è quello degli ultimi anni, quello delle picconate. Sulle ragioni psicologiche, personali e politiche della svolta si è raccontato tanto e non intendo dire nulla di più. Aggiungo soltanto che per chi conosceva Cossiga da tempo quella svolta non fu una sorpresa. Tra i tanti volti di quella complessa e multiforme personalità vi era anche quello. Chi ne fu completamente sorpresa fu la classe politica, che di volti ne conosceva uno solo.

    Più difficile è valutare chiaramente gli effetti politici di quel tornado. Uno è chiaro, evidente e di notevole portata: la delegittimazione dei partiti e del sistema politico. Ma il fenomeno era in corso da tempo e aveva provocato la nascita di due movimenti che proprio in quegli anni coglievano le prime vittorie: il movimento referendario e la Lega. Due movimenti, si badi, che si caratterizzavano sul terreno delle riforme istituzionali. Il primo proponeva una trasformazione del sistema politico in chiave europea (inglese o francese). La Lega proponeva addirittura la secessione del Nord.

    In quegli anni le picconate del Presidente e i referendum per cambiare la legge elettorale erano visti da gran parte della pubblica opinione come manifestazioni dello stesso fenomeno. Questo ci aiutava molto. Diversa era la percezione della Lega, non tanto per ragioni politiche quanto per la diversità umana degli uomini dell’apparato e dei loro comportamenti.

    Sono però infondate le critiche dei nostalgici della Prima Repubblica a Cossiga, ai referendum elettorali e a Mani Pulite a proposito del crollo dei partiti tradizionali e del vuoto politico che si creò. La crisi del sistema, con la perdita di rappresentatività dei partiti e la loro crescente incapacità di governo, era già profondissima. Noi ci limitammo a stilare il certificato di morte di soggetti che avevano totalmente smarrito la loro funzione. D’altra parte la caduta del Muro di Berlino faceva venir meno l’architrave su cui si reggeva il sistema fondato sulla Dc: la garanzia di rimanere nell’ambito dei valori e delle libertà del mondo occidentale, di fronte al pericolo portato dal Partito comunista. Non c’era più il pericolo e i garanti perdevano la loro funzione.

    Il vero limite alla azione picconatrice fu di non avere accompagnato alla critica serrata una altrettanto nitida ed efficace proposta di azione politica di tipo diverso e di riforma: di essersi limitato a delegittimare la vecchia strada senza tracciare la nuova. Fatta eccezione per la idea della Assemblea Costituente, idea bellissima e rimasta purtroppo irrealizzata, non vi fu una strategia di Cossiga per il dopo Prima Repubblica. Non gli era facile farlo da Capo dello Stato, carica che mette comunque, anche a un personaggio ribelle come il Cossiga di quegli anni, confini di azione ristretti. Ma a limitarlo era oggettivamente l’ambiguità della sua posizione politica. Anche nel periodo di attacco più serrato contro le vecchie istituzioni Cossiga mantenne uno stretto legame con Bettino Craxi.

    Vi era in questo legame anche un elemento umano che gli fa onore. Ma è difficile negare che Craxi, vittima certo di una campagna denigratoria oltre ogni limite, fosse comunque un pezzo forte, se non addirittura l’asse portante, di quel sistema di cui Cossiga perseguiva l’abbattimento.

    Considerazioni simili possono essere fatte per l’ultimo periodo di attività politica. Da semplice senatore a vita, sprovvisto quindi di ogni strumento di potere, fu protagonista di battaglie che incisero profondamente sulla vicenda politica nazionale. Ricordo volentieri quella sulla Assemblea Costituente, anche per il significato che assumeva nella opinione pubblica in quel momento. Era con noi Gianfranco Fini col suo partito. Il punto decisivo era la posizione di Silvio Berlusconi; e poiché il Parlamento doveva scegliere tra questa e una delle tante inutili Commissioni bicamerali che sorsero (in quel momento si trattava di quella di D’Alema) la posizione di Berlusconi era determinante. Alla fine la pressione di D’Alema si rivelò più forte della nostra e Berlusconi si schierò per la Bicamerale. Devo dare atto a Cossiga di avere combattuto per molti mesi non solo con determinazione, ma, cosa per lui rara, con grande costanza. Nonostante questo perdemmo. Peccato! L’Assemblea Costituente, in quel momento sorretta da un grande entusiasmo, avrebbe potuto scrivere una bella pagina di storia.

    Ho lasciata per ultima un’annotazione che riguarda gli anni precedenti, e precisamente i due Governi presieduti da Cossiga. Se ne parla poco, anche perché si tratta di Governi di breve durata (un anno tra tutti e due), nati nella fase in cui la crisi del sistema rendeva sempre più fragili gli Esecutivi e debole l’azione di Governo. I due governi Cossiga non si sottraggono a questo corso. Ma c’è una decisione di estrema importanza che essi prendono. Una sola, ma determinante nella storia italiana ed europea: l’installazione degli euromissili, in risposta alla dislocazione avvenuta poco prima dei missili sovietici che spostavano l’equilibrio militare in Europa.

    L’importanza è grande perché l’intera strategia europea è legata alla decisione dell’Italia. Il rafforzamento Nato dovuto ai nuovi missili è l’avvio della prova di forza con l’Urss che si concluderà alcuni anni più tardi con il crollo del Muro di Berlino.

    Sarà vero, come dice lo stesso Cossiga, che la moderazione del Partito comunista facilitò molto la decisione. Ma fondamentale fu il comportamento del Governo, chiaro e risoluto. Posso testimoniare della determinazione di Cossiga nel portare a termine l’operazione e della sua piena consapevolezza che questa era l’unica cosa importante che il Governo dovesse fare. È questa sua calma determinazione che gli valse la stima dei leaders europei, in particolare di Margaret Thatcher.

    Cossiga fu uno dei politici più compresi dei valori e dei principi della cultura occidentale, un appassionato della sua storia, un difensore delle sue regole. È una constatazione che ci dice quanto avrebbe potuto incidere Francesco sul corso delle vicende italiane, se la sua multiforme cultura e la sua straordinaria intelligenza fossero state ancorate a percorsi più stabili e più lineari.

    Mario Segni

    Introduzione

    Qualunque cosa si pensi, o si sia pensata, di Francesco Cossiga, quel pensiero porta comunque a volare alto, politicamente e non solo; e a volte oltre le atmosfere terrestri. Anche, e persino, quando del cielo stellato sopra di te quel pensiero porta a vedere il riflesso fangoso

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