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Tradizioni di Natale
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E-book335 pagine4 ore

Tradizioni di Natale

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Info su questo ebook

Un momento magico da trascorrere circondati dal calore della famiglia, dai sentimenti genuini, dall’essenziale che torna almeno una volta l’anno ad insegnarci perché il Natale riesce meglio di qualunque altra ricorrenza a scandire i momenti della nostra vita.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2020
ISBN9791220235853
Tradizioni di Natale

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    Tradizioni di Natale - AA.VV.

    AA.VV.

    Tradizioni di Natale

    Tradizioni di Natale

    AA.VV.

    © Idrovolante Edizioni

    All rights reserved

    Director: Roberto Alfatti Appetiti

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – dicembre 2020

    www.idrovolanteedizioni.it

    idrovolante.edizioni@gmail.com

    ictus

    di Monica Acito

    Dicono che ictus in greco significhi pesce. Io lo scoprii al ginnasio, tra le pagine di un manuale di grammatica sgualcito, e oggi quelle pagine ingiallite avvolgono i miei pensieri come coperte stropicciate, rimandandomi l’immagine di una ragazzina che si domandava perché un pesce dovesse essere associato a un ictus. Dicono che ictus in greco significhi pesce: io lo scoprii guardando mia nonna Lina. Lo scoprii guardandola in quel letto del quinto piano dell’ospedale San Leonardo di Salerno il giorno di Natale, e sembrava che la mia nonna Lina avesse branchie per respirare e squame d’argento.

    Mia nonna Lina era un pesce, una piccola alice, una trota del nostro fiume Calore.

    Mia nonna Lina era diventata un pesce, perché mia nonna non poteva più parlare. L’afasia, il mutismo era stato il regalo del suo ictus, era stato il suo regalo di Natale. Dicono che ictus in greco significhi pesce. Ecco perché mia nonna Lina, dopo aver avuto quell’ictus il 24 dicembre, si era chiusa nello stesso silenzio che hanno certi banchi di pesci trasparenti che nuotano strisciando la pancia sul fondo del mare. Ecco perché forse dicono che ictus in greco significhi pesce, perché mia nonna Lina faceva per muovere le sue labbra di piccola bambina rugosa e non usciva nulla, se non il respiro strozzato di una piccola acciuga catturata dai pescatori. Dicono così, che ictus in greco significhi pesce, perché forse i pesci non possono urlare come urlava lei una volta, che ci chiamava tutti a tavola per mangiare gli struffoli e i roccocò di Natale preparati da lei: nonna Lina iniziava già dalla mattina della vigilia a impastare e friggere, e riempiva la casa con l’odore pungente della cannella e dell’anice stellato. La voce di mia nonna Lina la ricordo bene, quando chiamava tutti noi nipoti per dire Venite a provare, prima che si raffredda! anche se non posso più udirla: è registrata in quell’angolo di me dove sono depositate i suoni dei vecchi carillon che suonavano Tu scendi dalle stelle. La voce di mia nonna Lina era il suono delle vecchie bambole che metteva sotto l’albero a me e alle mie sorelline, il suono di una donnina piccina come una bimba dell’asilo che camminava in punta di piedi per allungarci i soldi in una busta di carta, che aveva quella vergogna antica di chiederti addirittura di poter usare il bagno.

    I suoi capelli corti e soffici sembravano le piume di un pulcino marroncino, e usava decorarli con un cerchietto che toglieva soltanto per andare a dormire. La sua voce era lo spirito del Natale, della nascita di un bambinello a cui lei ci faceva credere, con i suoi modi aggraziati che sembravano usciti da un libro delle fiabe. Quando tornavamo dalla messa di mezzanotte e poi andavamo tutti a dormire, lei scompariva sotto le coperte, e spuntava solo la sua testolina col suo ciuffetto di capelli, e sembrava una di quelle bimbe di cinque anni che aspettano il bacio della buonanotte della mamma, ma la sua mamma era salita in cielo tanti anni fa e lei la cercava nel volto della Madonna di Costantinopoli. Dicono che ictus in greco significhi pesce. Ecco perché le parole di quel medico del San Leonardo a Salerno ci erano sembrate così dure. È afasica. Che significa dottore?, avevamo risposto noi tutti. Non può più parlare. L’ictus ha interessato la principale arteria del cervello. Ha anche la parte destra del corpo bloccata. Muove soltanto la gamba e il braccio sinistro. Dicono che ictus in greco significhi pesce, ma mica i pesci sono rimasti bloccati come te, nonna? Dovremmo cambiare la definizione su quel dizionario di greco antico Rocci, perché i pesci guizzano, nuotano veloci in grandi banchi, tu invece sei crocifissa nella tela di un pescatore, la parte destra del tuo corpo è stata infilzata e non puoi più mettere i regali sotto l’albero per noi tutti.

    Il Natale ti ha fatto proprio un brutto regalo, nonna. Il 24 dicembre dell’anno scorso eri nel tuo orto e c’era il sole, avevi anche chiuso il recinto delle galline e dei conigli, quei conigli che non stavano mai fermi e che ti sferravano sempre dei sonori calci nelle gambe. Quella mattina, prima di scendere nell’orto avevi iniziato a preparare l’impasto per gli struffoli e bevuto una camomilla con il miele; poi, avevi pulito anche le seppie e i calamari per il cenone della vigilia, ti eri vestita e avevi dato da mangiare ai tuoi tre cagnolini. Sei scesa, forse hai barcollato un po’ mentre hai fatto le scale, aggrappandoti saldamente alla ringhiera; sei arrivata nell’orto, e da lì è stato un attimo. Due passi incrociati, un raggio di sole che ti ha ferito la fronte, un ronzio di libellule e di mosche, e un’onda d’acqua nera e torbida si è riversata nelle tue pupille: in un attimo, non è stato più Natale per nessuno. Un’onda anomala proveniente dal ventre di non so quale mostro marino ti ha spazzata via dal litorale del tuo orto e ti ha portata al largo, lontano, dove non ci sono né pesci né esseri viventi, ma soltanto l’oblio scuro che copre ogni memoria.

    Sei caduta, come una bambina che segue i pulcini per prenderli in mano, sei caduta sotto lo schiaffo di un’onda che ti proveniva dalla testa, dal cervello, quell’onda ignota che si chiama ictus, che dicono che in greco significhi pesce. Sei caduta, e chissà cosa avrai pensato prima di cadere, sbattere la spalla violentemente e ridurtela a un telo violaceo di lividi e chiazze. Sei caduta, abboccata all’amo. Ti sei dibattuta, nella rete dell’orto, ti sei sporcata di fango e terra, hai chiuso gli occhi e sei svenuta. Forse, prima di svenire, avrai pensato all’impasto degli struffoli che stava riposando, gli struffoli per le tue bimbe piccerelle. Gli struffoli che l’anno scorso, nessuno ha mangiato. Ti hanno ritrovata inerme, con gli occhi e la bocca serrata, come se te l’avessero chiusa con la forza, con i tuoi cani disperati che tentavano di farti alzare, ma tu giacevi per terra come una bambina piccola, minuta, uno sputo di donna, un morso di pesce. Dicono che ictus in greco significhi pesce, e quando ti hanno vista i tuoi figli ti hanno urlato addosso, ti hanno strattonata, ma le tue squame di pesce non riflettevano più il sole che filtrava dai pescherecci.

    L’ambulanza ci ha messo poco ad arrivare, nonostante le strade rotte, zia l’aveva chiamata tempestivamente, e assieme a lei erano corsi anche i vicini. Dicono che ictus in greco significhi pesce. I pesci non hanno gambe e braccia, però almeno loro sono interi. Tu ora sei diventata metà, nonna.

    Una metà di donna, un solo braccio e una sola gamba. Due occhi, celesti e acquosi, che gocciolano l’inchiostro di tutte le parole che non puoi più dire. Nonna, vorrei che tu potessi parlarmi ancora, e ridarmi le nenie che mi cantavi la notte di Natale, con quella voce chiara come il petto di una colomba.

    Dicono che ictus in greco significhi pesce: i pesci dormono, placidi e argentati, come tante tessere d’alluminio.

    Non sanno che accanto a loro ci sei tu, che sei una bambina di rughe e tenerezza, che ha sempre cercato di rendere gradevole e meno dura la vita di chiunque, con i tuoi struffoli di Natale che nascondevano anni di sofferenze e lacrime ingoiate tra una canzoncina e un impasto alla cannella. Oggi è Natale, nonna, siamo tutti davanti al camino.

    Tu non puoi ancora parlare: quest’anno è meno brutto dell’anno scorso, è vero, ma non ti sei più ripresa dall’ictus dello scorso Natale.

    Sono accanto a te e ti sbuccio un mandarino, perché l’odore mi ricorda quando me li sbucciavi tu ai tempi dell’asilo: ti imbocco uno spicchio e tu allunghi la mano sinistra, come la zampetta ferita di un usignolo; mi accarezzi i capelli, con la stessa grazia di quando mi facevi la treccia per andare a messa a salutare Gesù Bambino appena nato. Mi stai scrutando e stai piangendo, con lo stesso gemito dei delfini, delle gabbianelle, dei cuccioli orfani e delle fenici, e in queste lacrime sento la cannella, la scorza d’arancia e tutti i profumi del Natale che creavi per noi. .

    Questa mattina, prima di venire a mangiare da te, ho provato a fare l’impasto come me l’avevi insegnato tu tanti anni fa. Voglio restituirti un po’ di tutto il bene e dell’amore che mi hai dato in questi anni: ecco gli struffoli che ho preparato per te, nonna Lina.

    Buon Natale, nonna, anche se non puoi più dirmelo a voce.

    Dove ci sono i nostri struffoli sarà sempre casa, sarà sempre calore, sarà sempre la tua voce di rugiada, di fiume e di cascata, che risuonerà per sempre, per tutta la vita. Ti prego, nonna, non piangere ora: è Natale e dobbiamo sorridere tutti. Dicono che ictus in greco significhi pesce, nonna. Ma forse nessuno le ha mai ascoltate davvero, le lacrime dei pesci.

    la strada dei presepi

    di Gaetano Andretta

    Ricordo che, quando ero un bambino, la festa dell’Immacolata era annunciata dal suono delle nenie dei zampognari.

    Quel suono, per noi bambini, era atteso con impazienza, perché voleva dire che si avvicinava anche il Natale… e… le luci, le feste, i regali….

    In una di quelle mattine, mio padre, nello svegliarmi, mi sussurrò in un orecchio:

    Dai, alzati. Questa mattina usciamo insieme. Ti faccio vedere una cosa bellissima!

    Mi condusse nel centro cittadino di Napoli, nel popolare quartiere tra via Duomo e via Toledo, luogo chiamato San Gregorio Armeno ma universalmente noto come "la strada dei presepi".

    Le case, per la maggior parte vecchie e malandate, si affacciavano in vie e viuzze strette e anguste. La giornata era serena, ma la luce del sole non riusciva a toccare la strada: di conseguenza le zone in ombra dominavano incontrastate.

    I locali a piano terra ospitavano, nella maggior parte dei casi, piccole attività commerciali o artigianali. Ecco la bottega del salumiere, a suo fianco quella dell’arrotino, lì quella del falegname. Più avanti una sarta, china su una macchina a pedale, era intenta a cucire un abito. Questo era il pescivendolo, quello il macellaio, poi l’osteria e il banco dell’ortolano. All’angolo una vecchia, seduta su uno sgabello sgangherato, vendeva castagne appena abbrustolite su un braciere nero come la pece; di fronte un ciabattino, seduto sull’uscio della sua bottega, inchiodava il tacco di uno stivale. Proseguendo più avanti, si avvertiva, da un’altra bottega, la fragranza del profumo del pane appena sfornato. In molte botteghe si affaccendavano uomini, donne e talvolta ragazzi: segno questo di attività svolte prevalentemente a carattere familiare e tramandate da padre in figlio.

    Spesso, però, l’uscio si apriva su una modestissima stanza a piano terra che accoglieva da un lato un grande letto matrimoniale e un armadio, al centro un tavolo con poche sedie, sull’altro lato una madia e un fornello: erano "i bassi", le dimore della gente più umile e povera. Altre volte il locale in questione era addirittura privo di finestre: l’uscio d’ingresso costituiva l’unica apertura. Di conseguenza, chi aveva la sfortuna di abitare in quei tuguri, se voleva avere una boccata d’aria o un filo di luce naturale, era costretto, tra le altre cose, a rinunciare alla benché minima riservatezza domestica, ponendo la sua persona e la propria famiglia in una sorta di palcoscenico all’aperto.

    Guardando quelle scene, capii di essere un bambino fortunato: io ero nato in una famiglia borghese, che viveva in una bella casa. Che differenza tra la mia casa e quei bassi!

    Mio padre si fermò presso alcune botteghe.

    I banchi erano pieni di statuine di cartapesta che raffiguravano pastori o anche gente intenta a svolgere vari mestieri - come il salumiere, il falegname, la sarta, il pescivendolo, il macellaio, l’oste, la venditrice di castagne, il ciabattino, il fornaio – così come le persone di quell’umile quartiere. Altre statuine di cartapesta, poi, rappresentavano varie specie di animali domestici: pecore, oche, cani, cavalli, maiali, asini e buoi. Il babbo acquistò alcune statuine.

    A cosa servono?, gli chiesi.

    Vieni con me e capirai.

    Ci allontanammo da quei vicoli e giungemmo in via Toledo.

    La strada era larga e affollata: la gente si soffermava a guardare le vetrine, ornate a festa. Dai negozi, belli ed eleganti, qualcuno ne usciva con pacchi multicolori.

    Com’era diversa la scena rispetto alla miseria che prima avevo visto nei vicoli appena lasciati!

    Entrammo in una grande chiesa. Da una delle navate laterali si accedeva alla sacrestia. Da questa un anziano sacerdote ci guidò sino a un’ampia sala ove era stato allestito un enorme presepe.

    In primo luogo mi colpì la monumentale estensione del presepe che si articolava con una forma a U occupando tre pareti della stanza: solo la parete ove si apriva la porta d’ingresso era libera.

    Anche gli altri bambini presenti osservavano estasiati lo splendido presepe. L’anziano sacerdote, che ci aveva condotto nella stanza, prese allora la parola.

    Bambini, come voi potete ben vedere, il presepe è la rappresentazione plastica della nascita del Redentore. L’idea di realizzare il presepe è attribuita a san Francesco d’Assisi. Francesco, figlio di un ricco mercante, nacque come Gesù: in una stalla mentre la famiglia era in viaggio. Divenuto adulto e indossato il saio, nel Natale del 1223, mentre si trovava nell’eremo di Greccio, a poca distanza da Rieti, Francesco volle eseguire una rappresentazione della natività. Costruì una semplicissima capanna, vi pose una mangiatoia con del fieno, vi condusse un asino e un bue, poi si raccolse in una mistica preghiera. Si dice che, mentre ancora pregava, apparve nella greppia per qualche istante un graziosissimo bambino. La notizia dell’evento miracoloso si diffuse in un baleno tra la semplice gente del posto. Fu così che nacque e si tramandò l’usanza di rappresentare con il presepe la nascita di Gesù. La tradizione francescana del presepe si sviluppò in tutta l’Italia e, in particolare, a Napoli. Nelle maggiori chiese della nostra città, infatti, furono allestiti magnifici presepi, vere e proprie rappresentazioni artistiche, come quella che potete ora ammirare, realizzata con statuine d’epoca, risalenti al ‘600 e al ‘700.

    A quel punto, feci notare al buon sacerdote la singolare somiglianza sia tra le casupole del presepe e quelle da me viste nei vicoli, prima percorsi, sia tra le attività in cui le statuine sembravano intente e quelle realmente svolte dalla gente comune.

    Il sacerdote, allora, sorrise e annuì compiaciuto.

    Tornati a casa, ebbi modo di vedere mio padre allestire il presepe di casa.

    Il babbo incominciò una paziente opera che lo tenne occupato sino a sera inoltrata: inchiodò asticelle, segò pezzi di legno, tagliò e incollò fogli di sughero, compose una parte per poi smontarla e ricomporla diversamente. Mi assopii su una seggiola mentre lo vedevo ancora intento a lavorare.

    Al mattino successivo, però, il presepe era pronto, con la grotta, san Giuseppe, la Madonna, il bue e l’asinello, la montagna con i pastori e le pecorelle, le casupole del villaggio con i pastorelli, le tortuose stradine da cui scendevano i re Magi, il ruscello di carta di stagnola, sormontato da un ponticello. Era un bel presepe, anche se, ovviamente, non poteva essere paragonato a quello da me ammirato il giorno precedente.

    Ripensai allora alle bellissime statuine del presepe visto il giorno prima e ricordai la somiglianza tra queste e tutto quanto visto nei vicoli del centro storico.

    Paragonai mentalmente le statuine viste in chiesa alla gente ben vestita e intenta agli acquisti natalizi che affollava la strada ove si affacciava la chiesa, mentre quelle in cartapesta, poste sul presepe di casa, alla povera gente del quartiere visitato il giorno prima.

    Feci presente a mio padre questo strano paragone.

    Il babbo mi sorrise, poi, carezzandomi la nuca, mi disse:

    È vero. Però ricorda che Gesù è nato in una stalla, non in una bella casa. E sai perché? A quel tempo, come ti ha detto ieri il sacerdote, Giuseppe e Maria erano in viaggio: quando, però, giunsero a Betlemme, nessuno volle ospitarli. L’unica possibilità offerta loro fu quella di condividere la grotta del posto, adibita a stalla, con gli animali. Gesù nacque quella notte: fu depositato sul fieno della mangiatoia e scaldato dal fiato di un bue e un asino. Per ninna nanna ebbe la nenia dei pastori, che suonavano fuori dalla grotta le zampogne mentre vigilavano il loro gregge di pecore.

    Ora sono un uomo con i capelli brizzolati, ma quando ricordo gli episodi della mia infanzia, penso che quella frase raccolga in sé il vero senso del Natale, che oggi, purtroppo, abbiamo smarrito.

    Ai nostri giorni, infatti, quando viene il Natale si pensa solo ai regali e al divertimento, così come sarcasticamente affermato - anche se a sproposito - in una nota pubblicità televisiva….

    Fingiamo di non vedere il mendicante che allunga la mano per elemosinare pochi spiccioli; respingiamo i disgraziati che fuggono da miserie e guerre chiedendoci un aiuto. Ci dimentichiamo che, solo un secolo addietro, i nostri stessi nonni si imbarcavano sui piroscafi per sfuggire alla atavica miseria delle nostre terre, con la speranza di trovare in America la possibilità di spaccarsi la schiena per guadagnare pochi spiccioli.

    Dimentichiamo che Natale è amore. Dimentichiamo il vero senso del Natale…

    Pensiamo solo ai regali, alla festa e ai divertimenti!

    Insomma, scegliamo di fare la parte dell’oste e agiamo di conseguenza, così come ha fatto lui nella rappresentazione del presepe verso il pellegrino di turno…

    Chiudiamo la porta di casa in faccia a Gesù, abbassiamo la saracinesca del nostro cuore, poi, per mera condiscendenza, giusto per non scacciarlo via in malo modo, gli indichiamo di andare in una stalla…

    Poi, quando il Natale passa, si fa anche di peggio.

    Si pensa solo a guadagnare, a scalare le vette di un fatuo successo. Si pensa ai soldi, perché si crede che con quelli si ottenga tutto: una bella casa, una vita agiata, divertimenti e felicità. Si punta ad avere di più, sempre di più, incuranti di tutto e di tutti, anche a costo di sacrificare la salute e gli affetti.

    Poi, magari, una volta persa la salute, si spendono i soldi per cercare di riottenerla. Talvolta non ci riesce, ma anche se ciò avviene, spesso perdiamo due volte: le ricchezze che avevamo accumulato e il tempo sottratto agli affetti e che nessuno ci potrà mai più restituire. Si vive nell’ansia spasmodica del futuro nella vana prospettiva di raggiungere mete sempre più alte e si perde la cognizione del presente, tralasciando di vivere quello che abbiamo a portata di mano. Si vive come se il nostro futuro fosse eterno e ci si dimentica che tutto ha un termine.

    Poi quel termine giunge e…

    Ci accorgiamo di non aver vissuto né il futuro né il presente, ci accorgiamo di non aver vissuto…

    un natale incerto

    di Patrizia Antonello

    Luglio 2020

    Anche oggi il mare la fa da padrone, noi come tutti gli altri bagnanti di questa meravigliosa caletta non possiamo che bearci ammirando il suo blu intenso e ascoltando il rumore che proviene dal movimento delle onde che con il loro sciabordio ipnotizzano la mente liberandola da ogni sorta di preoccupazione.

    Ho deciso, nel menù di Natale quest’anno metto un antipasto in più.

    A rompere l’incantesimo è mio marito che mi riporta brutalmente ad essere presente interrompendo la beatitudine di tutti i miei chakra.

    Già perché oltre ad essere sposati, dopo sofferta decisione da parte sua, siamo anche una coppia di ristoratori. Avete presente cosa vuol dire? Portarsi il lavoro a casa e in ogni dove, ecco cosa vuol dire.

    Mi piacerebbe rispondere che questo non è il momento di pensare al lavoro ma poi decido di assecondarlo: È una buona idea, rispondo volutamente assorta fissando le onde, ma cosciente che il trucchetto non funzionerà.

    Dovete sapere che, chi fa il nostro lavoro, ragiona a fasi. C’è la fase uno dove arriva l’idea, la fase due dove prende forma in quell’emisfero del cervello che materializza l’idea avuta e poi per ultima la fase tre la più invasiva: cercare l’approvazione di chi collabora con te.

    E visto che in ferie con questo genio della cucina ci sono io non posso che seguirlo nel suo mondo fatto di ingredienti, dosi e cotture.

    I ruoli si invertono, ora è il mare con i nostri dirimpettai di ombrellone che assiste al nostro spettacolo, così dopo solo tre ore di discussioni e qualche insulto gratuito il menù del pranzo di Natale è pronto. I piatti della tradizione hanno vinto ancora una volta, farà parte degli antipasti: il vitello tonnato, il cotechino, le acciughe al verde e il flan di topinambur con la bagna couda. Litighiamo ferocemente per i primi piatti per poi decidere di comune accordo l’immancabile panissa e gli agnolotti al sugo della nonna, ricetta della nonna di mio marito, storica cuoca della locanda sino a quando la vista, purtroppo, l’ha abbandonata e ha dovuto lasciare lo scettro a mio suocero. Ma non perdiamoci e torniamo al nostro menù che ormai tutti i vicini di asciugamano vogliono sapere cosa comprenderà e noi sapendo di alimentare (mi scuso per il gioco di parole) la loro curiosità decidiamo di creare una pausa ad effetto andando a rinfrescarci le idee in acqua. Una volta tornati al nostro sdraio abbiamo le idee chiare, come secondi piatti: guancia brasata e fritto misto alla piemontese. A questo punto i nostri nuovi amici non resistono e chiedono una spiegazione dettagliata del piatto. Così, mentre descrivo elencando i vari pezzi da cui è composto e la sua particolarità di unire il dolce con il salato, succede che nella mia mente si materializza la visione del pranzo di natale degli anni precedenti e quasi mi commuovo, la voce si incrina e ringrazio di avere gli occhiali da sole altrimenti le persone che mi stanno ascoltando mi prenderebbero per pazza. Mi dico che è colpa dei chakra che si sono sbloccati troppo e tutti insieme ma, so benissimo, che la colpa è solo della paura.

    Paura di non festeggiare il periodo natalizio nella nostra piccola locanda.

    Il nostro locale si trova in Piemonte, in una zona dove la coltivazione del riso è la risorsa principale del territorio, siamo una famiglia di ristoratori dal 1865 custodi di ricette tramandate da generazioni e divulgatori dell’arte del ricevere. Il nostro è un lavoro tutt’altro che facile, orari assurdi, fatica e stress durante il servizio, adesso che siamo arrivati a cinquant’anni inizia a pensarci eppure durante i mesi in cui siamo stati costretti a stare fermi tutto questo ci è mancato. Devo confessarvi che mio marito avrebbe voluto fare l’elettricista per avere una vita più normale, ma una volta la scuola superiore la sceglievano i genitori e tu ti limitavi a frequentarla, fu spedito alla scuola alberghiera e anche in collegio.

    Per quanto riguarda me, nata e cresciuta in un ristorante, non avrei potuto sposare altri se non un bel ragazzo a cui stava bene la divisa da cuoco.

    Ormai qui in spiaggia abbiamo creato una sorta di ristorante virtuale, ci sono persone che arrivano da varie parti d’Italia e vogliono addirittura che descriva il sapore di questo fritto misto e io li accontento perché in fondo è il mio lavoro saper usare le parole per invogliare a scegliere un piatto sino a quel momento sconosciuto. Descrivo la parte dolce che è composta dalle fette di mela in pastella, l’amaretto, il semolino dolce, il biscottino ripieno di crema pasticcera o di crema al cioccolato. Ed ecco tornare il ricordo delle tavolate di famiglie riunite davanti al vassoio ormai vuoto che si contendono proprio l’ultimo pezzo rimasto.

    Il cibo è convivialità, unione, sorrisi.

    Certe volte al pranzo di Natale si formano tavolate che raggruppano anche quattro generazioni, ecco il motivo del menù di Natale anticipato, i primi che telefonano si assicurano il posto. Una signora con un costume bellissimo mi riporta alla realtà chiedendomi: Ma non vi dispiace lavorare mentre gli altri fanno festa?, rispondo che per noi è normale, è il nostro lavoro ma quello che dico non corrisponde a quello che penso. Anche noi abbiamo una famiglia, due figlie, a cui abbiamo imposto quando erano piccole di passare il pranzo di natale a casa dei nonni senza di noi. Sappiamo che per loro non è stato facile ma tranquilli

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