Il taccuino del diavolo
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Oltre che una travagliata e intensa storia d’amore, la narrazione offre acuti spunti di riflessione su fatti e situazioni che vanno dalle disuguaglianze economico-sociali e territoriali ai danni, anche drammatici, di quella che oggi si chiama ludopatia, dal conseguimento dell’Unità al dramma del brigantaggio, dall’eterno conflitto tra bene e male all’irrisolvibile problema di una vera giustizia.
Mario Gabriele Giordano, impegnato sui due versanti dell’insegnamento e della ricerca critica, ha fondato e diretto per circa quarant’anni la Rivista di Cultura e di Attualità “Riscontri”, tuttora attiva per la direzione di Ettore Barra. Quale opinionista ed elzevirista, oltre che ad altre testate, ha in particolare collaborato con “L’Osservatore Romano”. Stimato saggista, è tra l’altro autore della voce Alessandro Manzoni per Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Storia e Politica - edito dalla Treccani, 2013.
Oltre ad aver curato numerosi «Atti» di convegni e opere collettanee, ha pubblicato i seguenti volumi: Lo studio critico della letteratura italiana in 4 tomi, coautore A. Pavone, 1970/75; Inchiesta sulla poesia italiana in prospettiva duemila, coautore A. Frattini, 1987; Aspetti e figure della letteratura italiana dell’Ottocento, 1988; Il Verismo, Verga e i veristi minori. Storia testi e critica, 1992; Prima della luce. Racconti brevi brevissimi minimi, 1992; Il fantastico e il reale. Pagine di critica letteraria da Dante al Novecento, 1997; Elogio dell’intolleranza, 1998; Leopardi e l’altro Vesuvio, 2003; Il tramonto dell’intellettuale, 2009; Parole dal tempo. Liriche, 2014; La lettera di presentazione. Racconti, 2016; Una lanterna accesa. Aforismi vagabondi, 2017; Un mondo senza padri, 2019.
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Anteprima del libro
Il taccuino del diavolo - Mario Gabriele Giordano
www.ilterebintoedizioni.it
Capitolo I
Piazza della Libertà, ad Avellino, è una grande piazza, eppure quella sera appariva quasi angusta tanta era la gente che vi stazionava. Dalla Sala delle assise, al primo piano del Palazzo di Giustizia, l’antica residenza dei Caracciolo con i suoi attenti leoni di pietra a vigilarne l’ingresso, giù per l’ampia scala e per l’atrio, si stendeva una folla pressoché compatta. Rifluendo sulla piazza, essa la invadeva quasi interamente sgranandosi in una mossa frangia solo all’estremo opposto, lungo la Chiesa di San Francesco. Anche la sottostante scala della ‘Ferriata’ era occupata come una tribuna e, a turno, vi si andavano a sedere un po’ tutti, stanchi della lunga attesa.
I giurati si erano ritirati in Camera di consiglio quando lo gnomone della meridiana marmorea che biancheggiava sulla facciata del palazzo proiettava la sua ombra sulle quattro del pomeriggio e la calura ardeva nell’aria ferma e inesorabile. Ora invece scendeva dai monti una frescura umida e densa. La fiamma delle lampade ad acetilene della pubblica illuminazione oscillava in un nugolo di moscerini e di falene facendo piovere dall’alto una diffusa luce azzurrognola. In basso, qua e là, spiccavano intanto i lumi degli improvvisati venditori che non si erano lasciata sfuggire l’occasione per piazzare nei punti più strategici le loro bancarelle e bandire ad alta voce le loro ghiottonerie:
O melone! O melone! Bello e frisco è o melone! Rinfrescatevi o cannarone!
Pollanchelle, pollanchelle! Belle e tenere so’ ’e pollanchelle. Io ’e tengo pe’ ogni gusto. So’ bollìte e songo arrusto!
Vardàte che bella trippa. Bella e callosa è a trippa mia! Ma tengo puro o musso, o musso co’ limone. Sentìti che bell’addòra.
Qua ci sta o gelato, ci sta pure o spumone e v’o faccio co’ limone. Vinìti qua, vinìti: v’o faccio bello e frisco. V’o faccio ’nnanzi a vui.
«Sembra quasi una festa!» esclamò a un tratto guardandosi intorno un giovanotto dall’aria ottusa ma pretenziosa.
«Bella festa!» commentò ironico un signore che gli era accanto mentre continuava a pulirsi attentamente gli occhiali col fazzoletto. «Bella festa!» Poi, sgranando gli occhi miopi verso il giovane e accennando con la mano a una lapide posta a lato del portone del palazzo, ne lesse l’iscrizione beffeggiandola col tono della voce:
«A Giuseppe Garibaldi il popolo di Avellino, 19 giugno 1882». E, mimando con la mano un assolutorio segno di croce, aggiunse: «Requiescat in pace. Ecco. Dopo tante speranze, questo ci ha portato Garibaldi».
«Che c’entra Garibaldi?!».
«Quando dico Garibaldi voglio dire tante altre cose».
«Ma non è stato mica Garibaldi a portare qui da noi la smorfia. Soprattutto i napoletani per le loro giocate l’hanno da sempre consultata come si consulta la Bibbia».
«Ma che smorfia e smorfia! Cosa c’entra la smorfia? Io parlo della nostra miseria, delle delusioni, delle umiliazioni. E pensare che questa è la piazza dove, come qualcuno dice, spuntò l’alba del risorgimento nazionale
; è la piazza dove durante le ‘Cinque giornate di Avellino’ si riunirono carbonari e patrioti al grido di Costituzione e libertà
. Libertà! Questa è oggi la nostra libertà! Anche questa piazza avrebbero fatto bene a chiamarla ancora ‘Gran Largo dei Tribunali’, perché i Tribunali li vedete: eccoli qua, sono di fronte a noi, in questo magnifico palazzo, ma la libertà la vedete? Dove sta la libertà?».
«Siete per caso un nostalgico, un borbonico?».
«Ecco, voi siete uno di quelli che credono di risolvere le cose dividendo il mondo anziché unendolo. Per voi evidentemente esistono bianchi e neri, borbonici e savoiardi, napoletani e piemontesi. Io voglio dire che tutti noi, quanti ce ne siamo in questa piazza e in questo paese, poveri cristi eravamo e poveri cristi siamo rimasti, schiaffeggiati, mortificati e derisi e voi ve ne uscite col borbonico. Se poi per caso volete anche dire che sono un papalino…»
«E voi volete forse dire che quel contadinaccio di Agostino, o come altrimenti si chiami, quello sciancato detto a giusta ragione il ‘Diavolo zoppo’, non sia un assassino lui e la sua bella cricca?».
«Certo non si tratta di gentiluomini. Ma, per me, qualunque cosa abbiano fatto, sono dei poveri cristi. Come me, come voi. Sì, come me e come voi!».
Il giovane, ritenendosi accomunato a gente che palesemente riteneva disonorevole compagnia, si arrovellò tutto ma, non trovando esca nella remota calma del suo interlocutore, sfogò la sua rabbia solo nel tono della voce e disse con forza: «Quelli là sono il disonore della nostra città e della nostra provincia. Lo sapete o no che tutti ridono di noi? Lo sapete cosa vi dice quando vi incontra un forestiero? Vi dice: Voi siete di Avellino? Siete compaesano del Diavolo zoppo?
e vi ride in faccia».
«E dell’Eremita, che magari è delle sue parti, cosa dice il forestiero dei vostri incontri? Dice forse che questo è un angelo con le ali e quello un diavolo con la coda? Lo sa o non lo sa, e anche voi lo sapete o non lo sapete, che, se non ci fosse stato quell’ ‘angelo’, non ci sarebbe stato neppure questo ‘diavolo’ e aggiungete anche al forestiero dei vostri incontri che non c’è città, non c’è paese, non c’è villaggio, non c’è casa che non nasconda qualcosa di cui vergognarsi e quindi questo forestiero dei vostri incontri cominci a vergognarsi delle proprie vergogne. Il fatto è comunque che tutti siamo miserabili. Tutti poveri cristi. Quanto poi all’onore, ragazzo mio, siamo tutti disonorati. Questa è la verità. Finché siamo poveri e sbattuti siamo tutti disonorati».
Detto questo, l’interlocutore del suscettibile giovanotto, inforcando gli occhiali, si allontanò attraverso la folla. Qualcuno lo salutò togliendosi il cappello:
«Felice notte, Professore!».
«Felice notte».
Questo non era stato il solo battibecco a svolgersi nella piazza. Qua e là tra la folla ogni tanto si sfiorava addirittura la rissa. Per questo, gruppi di carabinieri reali giravano discretamente, si facevano vedere, si fermavano, ammonivano, minacciavano e al Comando della Caserma di Via Irpinia si era in attenta vigilanza. Anche alla Caserma di San Francesco, di fronte al Tribunale, le stanze degli ufficiali erano illuminate come erano illuminate quelle dell’attiguo Palazzo del Municipio. L’impazienza dell’attesa sembrava intanto dilatare il tempo che, di quarto d’ora in quarto d’ora, veniva scandito dai rintocchi dell’orologio dell’antica torre del Fanzago, vanto e simbolo della città.
Al di sopra del tramestio e del crescente brusio si sentivano voci concitate. Dell’Eremita e del Diavolo zoppo, a vicenda, si diceva dell’uno che era un martire o un impostore, dell’altro che era un assassino o una brava persona. E gli argomenti che ciascuno portava a sostegno della propria tesi erano i più disparati; i paradossi più aberranti venivano pronunziati con la massima naturalezza. Tutti ormai in quella piazza si sentivano dei Soloni e sputavano sentenze e controsentenze:
«Che sanno i giudici? Cha sanno gli avvocati? - Avete ragione. Certe cose non le conoscono, non le possono capire perché non le vivono. - E lo Stato? Che fa lo Stato? - Me lo chiamate Stato?! Lo Stato riscuote tasse e condanna, questo fa lo Stato. - Solo questo? E dove lo mettiamo il fatto che, da quando comandano i nuovi padroni, portano via dalle nostre campagne i migliori giovani obbligandoli a fare il militare. Anche questo è lo Stato. - Otto giorni spesi per un processo così semplice. Io, quelli lì, li avrei mandati ai lavori forzati a vita senza processo. - Ma i giudici sono furbi. Non sai che allungando i processi prendono più soldi?. - Siete proprio degli ignoranti. Siamo o non siamo in un paese civile? Bisogna discutere. - Paese civile! Se io fossi giudice, farei le cose presto presto: ‘Tu sei Tizio?’ Sì. ‘Hai fatto