Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il bambino intermittente
Il bambino intermittente
Il bambino intermittente
E-book748 pagine11 ore

Il bambino intermittente

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il piccolo Berg vive in una città del Nord con la madre professoressa. Ha molti nomi inventati e da un certo punto in avanti anche una sorella – vera o immaginaria? Ha un padre con un maggiolino giallo a pois rosa che gli insegna i nomi degli alberi e dei funghi. Ha dei nonni di città che gli insegnano l’uso filosofico degli agnolotti e la contemplazione del Meccano. Ha dei nonni di mare che lo accompagnano nella crescita, da una cucina con finestra sul mare e da uno sga- buzzino magico.
Berg cresce rimodellando la realtà, in un travaso continuo di immaginazione, e in tal modo attra- versa l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Da bambino, conosce man mano il pericolo me- tafisico degli oggetti, l’inesorabilità dei pensieri altrui, gli anni di piombo; da ragazzo – stupito e incredulo – l’amore e il risveglio di un’intera città industriale; da adulto la forza e l’abbandono, l’affollamento muto e una solitudine che continua a sfrigolare con le sue decine di voci interiori.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2021
ISBN9788833861760
Il bambino intermittente

Leggi altro di Luca Ragagnin

Correlato a Il bambino intermittente

Titoli di questa serie (21)

Visualizza altri

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il bambino intermittente

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il bambino intermittente - Luca Ragagnin

    (326,1)

    parte prima. ignorare il vero

    00

    chi sei tu?

    Buca del suggeritore

    00 Chi sei tu? Buca del suggeritore (sei qui, ora).

    0 Cerca di ricordarti. Equivalenze, raggruppamenti e caratteristiche utili.

    1. Sei un bambino intrappolato su un seggiolone. Maneggi un biberon, cresci di un paio d’anni e scopri l’angolo dei trucchi di mamma. Scegli un’arma e buchi le sedie imbottite.

    2. Cresci ancora: adesso sei un bambino in cerca di un biglietto da visita. Scopri le prese di corrente e che una vicina di casa ti spia. Ricevi in regalo un tavolo speciale: chi sarà il tavolo?

    3. Sei un bambino in cerca di una sorella e di una coda.

    4. Sei un bambino che va all’asilo e rischia di restare amputato.

    5. Continui a crescere, ti tocca. Sei un bambino con un mappamondo luminoso e un’automobile buffa. Impari i nomi degli alberi, dei funghi e dei cavalli, e sei felice.

    6. Sei un nipotino che osserva la preparazione di un cibo con le corsie e riceve un altro regalo bellissimo: un plastico gigantesco.

    7. Sei un bambino che va in campeggio e fa amicizia.

    8. Sei un bambino alle prese con le piscine vuote e i cieli affollati.

    9. Sei un bambino che ha bisogno di un ripasso generale.

    10. Sei un bambino che mette in ordine le simpatie, le antipatie e le paure.

    11. Sei un bambino che non sa disegnare e fa fatica a comprendere gli insiemi.

    12. Sei un bambino telefonista e aiuti mamma a capire gli altri bambini.

    13. Sei un bambino visionario, ma non lo sai. Non riesci proprio a immaginarlo.

    14. Adesso sei un ragazzo con mezza barba e ti fidanzi.

    15. Vorresti essere un toreador o un artista famoso, ma sei soltanto un ragazzo alle prese con la sua prima vacanza senza mamma o papà. Sei anche un sedicenne mistificatore innamorato che non sa se abbattere il sostantivo o l’aggettivo.

    16. Sei un ragazzo che decide di imparare a soffiare dentro un flauto traverso d’argento mentre tutto intorno, gli anni, sono di piombo.

    17. Sei un diciassettenne e vieni ammesso in una famosissima società segreta locale.

    18. Sei la metà di una coppia di esploratori dell’occulto, ma una statua ti richiama prontamente alla realtà.

    19. Sei un giovane proprietario di una casa di villeggiatura che si domanda come e dove sarà il suo primo appartamento in solitaria, se mai ci sarà, e che vita sarà.

    20. Credi di essere un Giotto psichedelico, o il bambino che non sei più, o un giudice che indica le entrate e le uscite (soprattutto le uscite), ma, come al solito, sei solo il deposito torbido di un processo di immaginazione.

    21. In attesa di sapere se riuscirai a formare un complesso musicale, sei un ragazzo (solista) che entra inconsapevolmente nella sala prove di un complesso a tonalità affettiva.

    22. Sei un piromane.

    23. Ti senti un traghettatore invisibile, ma stai solo sognando.

    24. Sei sempre un diciassettenne e vieni ammesso a una storica raccolta vetri, dopo il passaggio assetato di un gruppo di future celebrità.

    25. Sei un diciassettenne che torna sul luogo di una futura malinconia.

    26. Sei un diciassettenne che esce da una famosissima società segreta locale, non prima però d’aver appreso l’arte di intitolare un disco.

    27. Sei quasi maggiorenne e non sai se diventare un dark, un polemista politicizzato o un sarto controcorrente.

    28. Sei un ragazzo immaginario che si esercita, senza saperlo, nell’arte del Nyotaimori.

    29. Adesso sei tornato a essere un bambino piccolo che scopre come all’interno di un pomodoro si nascondano le insidie della vita, ma anche alcune promesse di felicità. Diventerai, per caso, un pensatore nutrizionista, quando i tempi storici saranno propizi?

    30. Sei un bambino appena più grande, ma la crescita non ti aiuta. Ti perdi nei paraggi di casa tua e, se avessi una coscienza e un’esperienza adulte, leggeresti nella tua disavventura la favola senza lieto fine che racconta come il mondo del lavoro possa diventare un inferno (per gli altri).

    31. Riprendi a crescere, dopo il brutto quarto d’ora trascorso, e questa volta, se esci, ti accompagna la mamma, oppure rimani in casa e fai altre scoperte, apparentemente più sicure, quali, ad esempio, il funzionamento dei pensieri di un pokerista. Conosci anche una Contessa d’altri tempi, che vive in una casa d’altri tempi e che gioca con delle carte speciali, senza i numeri, ma con figure paurose.

    32. Sei ancora troppo piccolo per giocare a poker e non possiedi nemmeno un mazzo di carte, ma riesci lo stesso a inventarti alcuni passatempi numerici ad alto quoziente di difficoltà. Diventerai, per caso, un matematico di chiara fama, quando i tempi anagrafici saranno propizi?

    33. Sei un fratello maggiore, ma ancora piuttosto piccolo. La cosa non ti impedisce, però, di intrattenere un rapporto esclusivo con Dio e con i nomi veri delle persone, i nomi interiori, quelli che svelano l’intima costituzione di un essere umano. Non ti starai per caso mettendo in testa di diventare un teologo di chiara fama, tempi d’attesa permettendo?

    34. Sei un bambino di otto anni che fa la comunione e valuta, perplesso, i consigli ricevuti da sua sorella minore.

    35. Sei un bambino che frequenta l’oratorio e che, grazie ad alcuni amici più grandi ed esperti, fa il suo primo incontro con la musica giusta.

    36. Sei un quattordicenne arrabbiato con i preti e con i tuoi coetanei (ah, ecco: non diventerai un teologo di chiara fama), nonché un adolescente in rotta di collisione con tutto e tutti, e non manchi di comunicarlo a papà, tanto per incominciare.

    37. Sei un osservatore di criceti in gabbia, ma non diventerai un etologo di chiara fama.

    38. Sei un bambino in vacanza al mare, un nipote di nonna, un nipote di zio, un balenottero in erba e un eroico combattente che difende la propria cittadella e respinge il tentativo d’invasione del nemico.

    39. Sei un ventiquattrenne recalcitrante che fa il servizio militare.

    40. Sei un ventiquattrenne visionario che parla con un caro estinto, senza l’ausilio di alcuna droga.

    41. Sei un dodicenne capobanda e guidi i tuoi prodi alla cattura di un altro capobanda, molto più importante di te (l’impresa fallisce).

    42. Sei un diciottenne che si guarda le linee della mano e poi saluta tutti con la musica.

    43. Due playlist per chi ha paura del silenzio.

    0

    cerca di ricordarti

    Equivalenze, raggruppamenti e caratteristiche utili

    Giorgio Santacroce, Giovannino Maltagliato, Bambolo, Bambino Parentesi, Giorgio Santacroce Maltagliato, Ragazzo

    Intermittente, Bambino Zero A Zero, Cacicco, Bando, Chicco, Nini e Berg sono la stessa persona.

    simbolo-ok

    Zio Liberio e zio Libeccio sono la stessa persona.

    simbolo2-ok

    Donato, Mitodonato e Mitonato sono la stessa persona.

    simbolo3-ok

    Pongo, Mazeltov, Foxy, Biancosuperga e Bando sono un gruppo di amici cantautorali.

    simbolo4-ok

    Stetson, La Stangata, Hackett, Gianca e Broggi sono un gruppo di amici d’azzardo.

    simbolo5-ok

    Pol, Xyper, Bananabilly, Albedo e GG sono un gruppo di talenti assetati.

    simbolo6-ok

    Dalia, Giacinto, Gelsomina e Ortensia sono un gruppo di coltivatori e cuochi diretti.

    simbolo7-ok

    Kyoko è pervasiva.

    simbolo8-ok

    Greta è anticipatoria.

    simbolo9-ok

    1

    La maggior parte della mia vita, mi rendo conto ora, si è svolta dietro, intorno e, qualche volta, sotto un tavolo.

    Mi piacerebbe porgervi un biglietto da visita con stampato, sotto il mio nome e cognome, in caratteri più grandi e in grassetto stampatello, la rassicurante esplicitazione: falegname, ma non posso farlo perché dichiarerei il falso e mi parrebbe di lavorare ancora, e dato che ho appena presa la decisione di appendere a un chiodo il mio campionario di frasi contraffatte e di storie adulterate, non mi sembra il caso.

    Non ero un falegname – ne esistono ancora? voi conoscete un falegname di persona, per caso? – ma nemmeno un delinquente. Oddio, un falsario lo sono stato, poche scuse, ma di un tipo del tutto particolare, e senza ritorno economico.

    Io ero un falsario dei fatti della vita.

    In assenza della benché minima versatilità, mi sono limitato a mettere sotto torchio una vita soltanto, la mia. Più che sotto torchio, a essere precisi, direi sotto una lente deformante.

    Le altre le ho lasciate perdere, con un certo rimpianto, certamente, come quando da una mongolfiera decisa a tutti costi a schiantarsi si lancia nel vuoto una valigia metallica piena di lingotti di criptonite. La scelta diventa obbligatoria: o l’impatto letale in preziosa compagnia o la solitudine delle alte sfere, nessuna mappa, nessun disegno, nessuna meta, nessun bagaglio, e il naso all’insù, come il più felice degli idioti.

    La mia è stata una vocazione decisamente precoce e fu un piano d’appoggio a rivelarmela, una mezzaluna di plastica azzurra sulla quale mia madre, stanca di provarci con esiti disastrosi, una mattina appoggiò il mio biberon e mi voltò le spalle.

    Avevo all’incirca diciotto mesi e quel seggiolone era il mio primo tavolo. Da quel che posso ricordare, starci incastrato dentro non mi creava nessun problema, anzi, mi sentivo protetto e, se ne avessi avuto cognizione, se avessi intuito all’epoca cosa prova un pilota di Formula Uno l’istante prima dello spegnimento del quinto sole, avrei certamente fatto il verso del motore rombante, con la bocca piena di cibo buonissimo. Sarei stato l’infante più felice del mondo, insomma. Invece, ancora oggi non so perché, mi agitavo manifestando la più infelice delle condizioni e facendo pericolosamente oscillare l’intero abitacolo.

    Be’, oggi lo so il perché, almeno credo.

    Ha a che fare con l’essere un uomo senza alcun talento, e con la sensazione che qualsiasi sforzo per costruire un valore, un’idea, un’opera d’ingegno o un oggetto casalingo, sia destinato a fallire, cadendo ai miei piedi come il corpicino di un insetto senza nome, che poi qualche entomologo del futuro battezzerà Memoria.

    Tanto vale sparigliare le carte, nascondersi dietro le storie degli altri, appostarsi per degli agguati che mi consentiranno di rubarle e di indossarle.

    Avevo ben poco da rubare, quel giorno, lasciato improvvisamente da solo in cucina, baciato da una forte luce proveniente dalla finestra – o forse erano i cinque soli della Formula Uno ancora accesi? – e con, di fronte a me, la segnaletica verticale, un piacevole indicatore della vita, che conservo ancora oggi: un biberon sterilizzabile Chicco, tappo azzurro, stampa blu su plastica trasparente, la figura di un bebè con il pannolone, due ciuffi sparuti di capelli su una testolina per il resto calva, uno sulla fronte in prossimità dell’occhio sinistro e l’altro dietro l’orecchio destro, come un alettone e, a terminare l’abbellimento del cilindro, una stampigliatura: « Chicco. Plast trasparente. art sana ».

    Lo custodisco in una vetrinetta, dietro un cesto di vimini dentro il quale sono accatastati reperti di varia inutilità: pile scariche, adesivi per ceramica consumati, alcune carte da gioco, timbri con sagome di animali, che non ho mai usato.

    Lo custodisco per occultarlo, ma con l’orgoglio del trofeo dei trofei, il primo.

    Quel giorno, infatti, non avendo ancora la possibilità di attingere alle vite altrui, pensai bene, con il talento dell’intuito, di aggiustarmi con ciò che avevo a disposizione e di manifestare a mia madre una repulsione indomabile per quella pappa liquida e nutriente di cui, invece, andavo ghiotto.

    Il biberon fu il mio primo colpo vincente.

    Instaurai una battaglia sul lungo termine con mamma e vinsi io (nel mio mondo significa che capitolai senza appello): un adulto trova sempre la maniera di convincere un cucciolo ad assecondarlo per il suo bene futuro.

    « Se non mangi, tesoro, non cresci. E io voglio un bell’ometto in casa… »

    Volevo mangiare ma non volevo crescere.

    Non volevo mangiare e non volevo crescere.

    Volevo crescere per attivare finalmente il potere sugli altri (e affermare con intelligenza: « Mangia tesoro, voglio una bella femminuccia in casa »), ma non volevo mangiare.

    Che cosa volevo?

    Qualcuno poteva suggerirmi la risposta?

    Mi prestate una volontà?

    Il mio primo tavolo, la mia prima falsificazione, il mio primo, disastroso, rapporto con il cibo.

    La cucina, con o senza alimentazione, fu la mia palestra di consapevolezza, a ogni modo. Fu in quella stanza che affinai la sottile arte di sottrarmi alle richieste degli interlocutori senza muovermi di un solo centimetro e parlando fluentemente a respiro quasi trattenuto, come un navigato retore.

    Le cucine sono ben stanze, no?

    La nostra era il prodotto di un certo benessere degli anni Sessanta, sospesa nei suoi colori e fissata per l’eternità come certi film di fantascienza che hanno fatto epoca e che grazie a quell’epoca, oramai superata da almeno cinque decenni, hanno beneficiato degli elisir di eterna giovinezza e per tal motivo saranno sempre e per sempre avanti, cioè freschi e premonitori.

    Imparai a improvvisare, a piegare la mia presunta risolutezza ai capricci della casualità gattonando intorno a un mobilio chiaro, con i pensili laccati e provvisti di manigliette verticali, quasi delle graffe d’alluminio, mentre i territori orizzontali erano ricoperti con la floridezza dei verdi Douglas che, nel caso specifico delle seggiole (gli alberi della mia foresta), si arcuavano spinti da sotto dall’imbottitura di skay spessorato.

    Digerivo quotidianamente il contenuto del biberon, crescevo – volevo crescere sì o no? non riuscivo ancora a decidermi, ma intanto il mio corpo procedeva senza attendere – e nel frattempo cercavo di smascherare i nemici silenziosi, gli invisibili, quelli che, al di là delle esortazioni di mia madre, pur essendo sprovvisti di parola, erano i veri responsabili degli ordini che la vita m’impartiva.

    Le quattro sedie intorno al tavolo di formica.

    Erano loro i capi.

    Non m’ingannava la simpatia di quella superficie pastellata, tenue, azzurrina (come il biberon, maledizione, come il biberon, e non doveva certo essere un caso), tenuta in stato di quiete da quattro mazze da baseball cromate, fissate al pavimento dalla parte sottile dell’impugnatura.

    Ma chi credevano d’imbrogliare? Ci doveva per forza essere da qualche parte un motore nascosto e complicatissimo collegato con le mie parti mute, terre docili di conquista da sottomettere con impulsi incomprensibili, e io lo dovevo trovare a tutti i costi. Per farne cosa, però, mi chiedevo: manometterlo? annientarlo? ringraziarlo? Non importava, ci avrei pensato sul momento.

    Intanto mi serviva un’arma. Non si esplorano le profondità degli oggetti con l’allegra spensieratezza di uno scemo disarmato. Che fosse una regola universale, da osservare in special modo con gli esseri umani, lo imparai un po’ più tardi.

    Mia madre, in quel periodo, aveva scoperto quanto mi divertivo a girellarle intorno in religioso mutismo durante il suo misteriosissimo rito del trucco, che si svolgeva in camera da letto, in una porzione di parete accanto alla finestra, davanti a uno specchio ovale dalla dorata cornice serpentina che sormontava una cassettiera in delicato stile veneziano e così, accortasi che i miei silenzi durante quei dieci minuti non preludevano a danni o pasticci imminenti, mi permetteva e anzi assecondava l’osservazione dei suoi movimenti: l’apertura di uno yo-yo bizzarro quanto basta per contenere uno specchietto e un laghetto di polverina color terra chiara che lei accarezzava con un remo in miniatura dalle pale di setolina spennacchiata; l’estrazione da un cilindretto di un secondo miniremo, nerissimo e con l’estremità simile a uno spazzolino da denti (aveva un gemello rosso, quel cilindretto, ma mamma non lo usava mai di mattina, forse era difettoso) con il quale si accarezzava le ciglia con degli impercettibili colpetti di polso; una matita nera dalla punta spessa e grassa che, in assenza di fogli da disegno nei cassetti, passava sulle sopracciglia. Al proposito avevo escogitato di fargliene trovare un plico nell’ultimo dei tre cassetti, quello meno stipato di stranezze, ma non sapevo dove andare a prenderlo in casa né se ce ne fosse uno, poi me ne dimenticai. Nella mia mente rimase però a galleggiare per mesi e mesi un quesito, la cui risposta elaborai a mio modo: se le persone, prima di uscire di casa, si fanno dei disegni sulla faccia significa che non vogliono farsi riconoscere, perché farsi riconoscere, là fuori, nel mondo, è pericoloso. Devo tenerlo a mente: anche io non devo farmi riconoscere. Mamma dice che non ho bisogno della matita nera, che a me non serve, che nessun bambino la usa, che non si fa, ma io non ci casco. E va bene, non la userò, troverò un’altra maniera, diventerò io uno di quelli che mi cercano e li frego tutti.

    C’erano altri oggetti spassosi nell’angolo del trucco: forbicine, spugnette, bastoncini di cotone, persino un temperamatite (per la matita della mimetizzazione, suppongo) e, infine, c’era la cosa che faceva al caso mio. La mia arma. Quella con cui avrei affrontato e sconfitto le quattro sedie in cucina.

    Era un pettine color turchese, leggermente magico, perché se passavi velocemente un’unghia sull’estremità dei denti eseguiva una brevissima canzoncina interpretata, pareva, da una papera a cui avessero tirato la coda. Musica a parte, mi ero concentrato sul manico dello strumento, una sorta di spillone metallico dalla punta acuminata quanto bastava per la mia guerra.

    Attesi giorni, forse settimane, attentissimo a identificare l’istante fatale. Non che mi servisse molto tempo. Lo intuivo e da adulto lo imparai a memoria: per ribaltare le voci di dentro, per cambiare governo ai propri pensieri, la strategia bellica più efficace è il Blitzkrieg. Ma le docce non andavano bene, il bagno in vasca era un’incognita: poteva sempre essere interrotto per una dimenticanza, il sapone, il bagnoschiuma, la pietra pomice a portata di spigolo, per ammorbidire le parti del corpo indurite e spossate dalle continue fughe innanzi al nemico, i vari oggetti insomma che corredavano l’immersione, così numerosi che accorgersi d’averne dimenticato uno, una volta a mollo, mi pareva automatico. Dopo aver soppesato i vantaggi e le avversità di decine d’altre situazioni identificai infine il mio alleato perfetto: il telefono. Lo squillo era men che meno un evento raro in casa nostra, ma le telefonate potevano essere brevi, brevissime o infinite, a seconda di qualcosa che mi sfuggiva. Provai a suddividere mentalmente le fasce orarie per isolare quelle che ospitavano le chiacchierate più lunghe; attesi ulteriori settimane per essere certo dei miei calcoli, averne un collaudo costante e regolare e ridurre al minimo il rischio di contrattempi e, infine, deciso a rompere gli indugi una sera poco dopo cena, mentre mia madre parlava a non so chi di un altro bambino intendendo me e di sé intendendo un’altra mamma (brava mamma, che non ci scoprano, mi raccomando) io correvo in camera da letto e nel buio incipiente, a memoria, raggiungevo l’angolo magico, aprivo il cassetto giusto, prelevavo il pettine e, correndo in punta di piedi, schiena curva, posizione aerodinamica e riduzione dell’ingombro visivo, approdavo finalmente in cucina, brandendo l’arma dello smascheramento, tal quale un generale sul campo che sta per abbassare il braccio e sferrare l’attacco.

    E guerra lampo fu.

    Sotto la mia furia la leggera imbottitura delle sedie cedette ai colpi e la loro liscia superficie divenne in pochissimi, velocissimi e ferocissimi secondi uno scolapasta dopo il passaggio di una foresta di spinaci.

    Mia madre era ancora al telefono (avevo prodotto un rumore minuscolo; molto meno di una ruota che si sgonfia) e perciò ne approfittai per un sopralluogo doveroso.

    Niente, non si vedeva niente. Nemmeno ad appiccicarci un occhio sopra, chiudendo l’altro, quelle decine di fori rivelavano gli ingranaggi che cercavo. Li esaminai tutti, cercando di ingurgitare l’affanno che saliva, ma nulla da fare, solo nero. Morbido al contatto, poroso, in qualche modo accogliente e ancora fumante della sua morte, ma nero e muto.

    Dovetti concludere la conta e l’ispezione con una spaventosa consapevolezza: i nostri pensieri sono neri e muti, chi li comanda è nero e muto; quando una cosa funziona è nera e muta e quando cessa di farlo nera e muta rimane.

    Che guerra rischiosa e inutile avevo condotto.

    Mia madre non ne fu felice, ma dimenticò.

    Io no.

    (al 2 cresco e al 29 mangio un pomodoro)

    2

    Il nero si contrasta con il bianco, deve aver pensato mamma a un certo punto. Anch’io lo pensai, crescendo, e modificai alcune mie convinzioni.

    Lei corse ai ripari, io mi precipitai verso un altro buio, ma con opinioni nuove di zecca, immacolate.

    Ho cambiato opinione sulla faccenda del biglietto da visita, per esempio, e voi ne sarete i primi beneficiari.

    Presentarsi è solo buona educazione e a me piace la buona educazione, profuma gli ambienti.

    Quindi possiamo ricominciare in perfetta letizia. Vi aggiorno, se siete d’accordo.

    Non vivo più sul seggiolone, mi muovo sulle mie gambe con una certa facilità, adesso ho otto anni e mamma, così per ridere, un giorno mi ha fatto trovare sul Catavoletto una scatolina di cartone, bianca, elegantissima nella sua semplicità, un po’ difficile da aprire, a dirla tutta, con il coperchio così aderente alle pareti verticali che mi è venuto subito da ammaccarla, ma pazienza, e dentro, indovinate un po’?, una piletta di biglietti da visita. I miei biglietti da visita! Quanti saranno? Trenta, come i miei compagni di classe? Sono cento, dice mamma.

    Cento, capite?

    Cento è un mondo intero, be’, almeno l’Europa.

    E ancora un attimo di pazienza per il Catavoletto.

    Sono felice, mi pare, come mai prima. Sorrido a mamma, sorrido alla stanza e alla finestra, sorrido al mondo di fuori visto da qui, il che non è uno sforzo immenso. Si vede, dal basso verso l’alto: un marciapiede, il pianterreno della casa di fronte (è una finestra interamente occupata da una fluente tenda di spesso tessuto bianco; impiegherò anni per imparare che uno studio dentistico non è un ufficio di spie), il balconcino con relativa portafinestra del primo piano (lì ci abita la signora Lia, una donna di mezza età che mi saluta sempre ed è molto simpatica; impiegherò anni per imparare che la probabilità altissima, vicina al cento percento, di interrompere qualsiasi attività o gioco stia facendo nella mia camera per guardare oltre la finestra e trovare il suo viso triangolare da volpe con gli occhietti fissi su di me non è un segnale di estrema simpatia) e infine un pezzetto del balcone del secondo piano, aggraziato, ogni tanto, da gambe pare femminili che riempiono la luce delle grate di protezione.

    Sorrido a tutto e tutti, cioè mamma e il vicinato, ma innanzitutto sorrido in modalità dentistica a una nuova amica, la più cara, la migliore, la più fedele e leale, ne sono certo: la mia identità.

    giorgio santacroce

    Bambino

    Speriamo che non faccia brutti scherzi. Al momento sembra affidabile: il mio nome è Giorgio, il mio cognome Santacroce e, tecnicamente, sarei un bambino.

    Di certo non sono un falegname.

    Il seggiolone e le sedie della cucina trattate a colpi di manico a spillo hanno evidenziato i miei limiti e un po’ me ne rammarico, ma c’è un altro fatto, un gigantesco impedimento.

    Papà, che capisce le cose prima di me (anche mamma, ma lei non dice niente), due anni fa mi ha regalato questo bellissimo tavolo in legno chiaro, con gli angoli arrotondati, il piano tenuto in equilibro stabile da due cavalletti aperti, molto robusti, sicuri del fatto loro, senza tanti fronzoli: il Catavoletto. Sotto: il vuoto, così posso stiracchiarmi, sgambettare, stare poco attento a come mi muovo e non succede niente.

    L’impedimento è questo: sono goffo.

    Non potrò fare il falegname, il dentista-spia, l’orologiaio, il sarto, il costruttore di modellini e un sacco di altri mestieri. Nemmeno l’aggiustatore casalingo e l’elettricista. Quest’ultimo, poi, apriti cielo. Nell’evo antico in cui la vita era selvaggia e disordinata, e io non avevo nemmeno un biglietto da visita, prima ancora di bucherellare le sedie avevo scoperto, gattonando, che la cucina offriva dei punti di osservazione già bell’e pronti sulla realtà vera, quella che stava dietro l’impostura in cui vivevamo io e mamma. Ce n’erano addirittura tre in quella sola stanza e uno in particolare, accanto allo stipite della porta, offriva un accesso allettante.

    Nonostante mangiassi ancora in modalità circospetta, però, le dita nella presa non entravano, avevo un bello spingere a fondo, niente da fare, erano troppo grasse e la porticina era uno specchietto per allocchi.

    Non fu la presa a fulminarmi, ma la mano a palmo aperto di mamma, quando mi trovò inginocchiato lì davanti, nella posizione della preghiera genuflessa.

    L’imbottitura delle mutande (ecco, avrei potuto in futuro bucherellare anche loro con il pettine, se mamma non m’avesse tolto il pannolone a un certo punto della mia vita) recintò la mortificazione, ma non le mie lacrime.

    Le prese scoperte, le ferite aperte: bei tempi.

    Sì, perché sotto una giovane luce retroattiva, erano quelli i giorni felici. Terminate le curiosità rischiose, si fecero avanti i gesti normali, la locomozione locale e decentrata, i movimenti del vivere insomma, e quelli, io, con sconcertante virtuosismo, li rendevo altrettanto pericolosi. C’era uno spigolo? Ne saggiavo l’acuminatezza entrandoci con il fianco. Volevo fare il galant-bambino e servire il caffè a mamma? Mi bruciavo con il manico, seppur protetto dalla guarnizione di gomma, e centravo la tazzina solo al secondo colpo, inondando di schizzi bollenti i paraggi. Le viti della maniglia di una porta si erano allentate al punto di raggiungere una sarcastica posizione di bilico? Attendevano la mia manina per abbandonare l’alloggiamento e finirmi addosso con tutto il seguito.

    Le curve dell’appartamento le infilavo dritte, i termosifoni attentavano quotidianamente alle mie ginocchia, i bicchieri tintinnavano di panico al mio passaggio, i giocattoli che possedevo, qualsiasi tipo di caratteristica avessero, se interrogati, senza esitazione avrebbero espresso il desiderio d’essere usati in giochi di battaglia veemente, di finire protagonisti di un’invenzione cruenta, un lancio contro il muro, l’annientamento da parte di un qualche altro giocattolo nemico, tutto, pur di non sostare in quiete su uno scaffale, poiché quella quiete sarebbe loro stata letale, più presto che tardi.

    Per non parlare dell’altro mio grande impedimento: la distrazione.

    Ma era ancora distante il tempo in cui avrei riposto nel frigorifero un posacenere appena svuotato o messo in lavatrice un ninnolo dell’infanzia.

    La distrazione proruppe possente solo quando incominciai a concentrarmi.

    A concentrarmi davvero sull’inutilità della mia vita.

    Papà non viveva più con me e mamma da quando avevo due anni (le prese di corrente, la mezzaluna del seggiolone, il biberon e i piccoli nemici, niente a che vedere con quelli di adesso), ecco perché era così lucido e solerte nell’identificare i problemi e risolverli. Io mi fidavo ciecamente di lui. Era il mio eroe numero due. Due come i giorni della settimana in cui veniva a trovarmi. O a prendermi per portarmi ai giardinetti, io e la mia bicicletta arancione con il manubrio alto, la trombetta per evitare gli incidenti e il sellino variabile, sempre e comunque ad altezza giusta affinché l’orlo dei miei jeans a zampa d’elefante s’impigliasse da qualche parte là sotto, tra pedale e catena.

    O a prendermi per portarmi dai nonni, dove da tempo ormai attentavo alla perfetta conservazione di un Meccano originale degli anni Quaranta, sopravvissuto con orgoglio al passaggio di un paio di generazioni, con la sua scatola rossa, il bambino elegantissimo in mocassino, pantaloncini a mezza gamba e calze tirate senza una piega al ginocchio, al comando di una gru imponente, secondo me in grado di sollevare l’intera casa mia e di mamma e di spostarla vicino alla casa di papà.

    O a prendermi per portarmi molto più vicino, appena in strada, proprio sotto la finestra di Volpe Lia, che infatti sta sbirciando da dietro la tenda, dov’è parcheggiato il Maggiolino giallo di papà, che ha qualcosa di diverso sul tetto, mi sembra. Ah, sì, è il portabagagli sotto carico. Per la prima volta, da quel che ne so io. Mantiene in equilibrio il Catavoletto smontato.

    Papà mi dice di dargli un aiuto morale, ma non toccare nulla. In fondo sono soltanto tre pezzi imballati, farà lui. Semmai gli tengo il portone aperto, da dentro, dopo. Riuscirò a non incastrarmi, a non infilarmi il pomello d’ottone nel costato? A estrarre la chiave dalla toppa salvandomi le unghie e le pellicine? Lo vedrò tra poco, per il momento sono occupato a mandare occhiate sarcastiche alla Volpe: tu ce l’hai un papà che ti regala un… uno… una… già, che cosa mi sta regalando papà?

    Una bambina, di certo non è, e poi quella me l’aveva offerta mamma alcuni anni addietro.

    « Tesoro, se un giorno arrivasse una sorellina saresti con­tento? »

    Scoprii in seguito che domande simili a volte vengono fatte ai bambini unici (giorgio santacroce – Bambino unico, come suonava male!), così i genitori sondano la reazione del primogenito, soppesano i pro e i contro, capiscono insomma se a condire il gradimento arriva una lacrimuccia dolce come zucchero oppure l’accoglienza viene fatta a colpi di pestate sul pavimento, non prima d’aver calzato gli scarponi da sci.

    Io peraltro non scio (scherzate? Non avrei schivato un solo spuntone di roccia o tronco di larice del panorama intero) ma mi feci capire ugualmente.

    « Se un giorno arrivasse una sorellina, la prenderei per i capelli, la trascinerei sul balcone e la getterei giù per strada. »

    Che, tra l’altro, sarebbe stato un modo efficace per comunicare a quella ficcanaso di Volpe Lia l’abbattimento repentino della mia quota di simpatia nei suoi confronti.

    Mamma aveva sorriso e cambiato argomento. Poi non se n’era più parlato.

    « Vuoi vedere, » rimuginavo ora mentre osservavo papà liberare la cosa-trinità dai cavi elastici « che mamma ha aspettato che crescessi ancora un pochino e poi ha ordinato una bambina a papà, dopo avergli però ricordato quella mia reazione giovanile un tantino impulsiva? »

    Sì, doveva essere la giusta spiegazione al mistero che si stava svolgendo e spacchettando sotto i miei occhi (e quelli di Volpe Lia): papà si era preso del tempo per pensarci su e poi, da lontano, dove la vita è più lineare e senza nodi, aveva trovato la soluzione.

    Spargi la voce, chiedi a destra e a sinistra, interpella i colleghi, gli amici, i conoscenti e alla fine l’occasione si presenta. È una legge matematica. Doveva essere andata così.

    Papà stava appoggiando in verticale gli involucri che contenevano una bambina già tagliata in tre pezzi.

    La mia sorellina.

    Un po’ grande di corporatura, in effetti.

    Non importa, le avrei trovato una comoda triplice sistemazione nella mia cameretta.

    « Mangia la pizza al pomodoro? » chiesi a papà.

    « Chi, il tavolo? No, direi di no. Però se vuoi ci puoi fare merenda sopra tu. Con un po’ di accortezza, niente cibi unti, un piatto e un tovagliolo, penso che la mamma ti darà il permesso. »

    Niente, i miei eroi si erano messi d’accordo.

    Per il momento mi conveniva annuire.

    E va bene, fingerò che sia un tavolo.

    Voglio proprio vedere dove credono di arrivare.

    (al 3 si svolge la vita del Catavoletto e si canta una canzone;

    al 33 il Catavoletto rompe gli indugi e diventa mia sorella)

    3

    Se mi volto indietro, se considero la mia vita al netto dell’auto­indulgenza o di una severità impietosa, se, cioè, sradico quel dannato interruttore che ha governato senza mezze misure il mio passaggio sul pianeta Terra, e mi concedo infine uno sguardo disincantato e divertito su ciò che sono stato e che ho fatto, ebbene, direi che mi sarebbe senz’altro piaciuto compiere il periplo di superfici più vaste di quelle d’un tavolo.

    Ma se il meccanismo dell’interruttore è stato davvero la mia personale legge interiore, allora anche in questo caso specifico devo concludere a colpo sicuro che non ho viaggiato quasi mai perché mi sarebbe immensamente piaciuto farlo quasi sempre.

    Sono stato un bambino al contrario? Sono nato con una disfunzione trascurata, anzi, mai rilevata dalle visite e dagli esami di routine dell’infanzia, e che ha tracciato in me quella biforcazione spiritosa che ti fa progettare e desiderare una strada e poi ti pilota verso la direzione opposta?

    O era un organismo sconosciuto, un ospite alieno, un capriccio contorto delle linfe vitali?

    Mi piace mangiare, non mangerò. Mi piace viaggiare, non viaggerò. Mi piacerebbe essere felice, vediamo come funziona l’immersione in una vasca di tristezza.

    Però senza perdere di vista ciò che deliberatamente abbandonavo. Sarebbe stato elementare, banale, binario, Zero e Uno, mentre il mio pensionante era un essere evoluto, un matematico d’alto lignaggio, uno dei generali del popolo nemico.

    Sì, era fondamentale la possibilità di sbirciare il mondo scartato, sotto l’egida di un’altra legge che in genere ha scarso valore per i bambini: ciò che non si vede non esiste. E io, almeno in questo, ero come tutti gli altri bambini. Quella possibilità mi avrebbe consentito di poggiare i piedi sul punto di equilibrio dell’incertezza. Mi sarei accucciato sul dubbio, arrovellato nei secoli dei secoli, mentre crescevo e poi invecchiavo e poi mi ammalavo e morivo, sull’opportunità di diventare o meno un bambino diverso.

    giorgio santacroce

    Bambino indeciso

    Intanto mamma ha preparato il caffè per papà, che è in camera ad assemblare mia sorella.

    « Mamma, posso zuccherare il caffè e portarlo a papà? »

    « Meglio di no, tesoro. Vengo io, tu torna in camera e aiutalo. »

    Non c’è molto da aiutare, in pratica ha già finito.

    Papà ha tolto l’imballaggio al primo cavalletto usando una forbice da giardinaggio (sul balcone abbiamo una foresta di gerani, ogni tanto ne muore qualcuno, nonostante mamma sostenga che siano piante molto resistenti, secondo me è lo sguardo di Volpe Lia che li fa morire), poi è passato al secondo cavalletto, quindi al ripiano – un’operazione un’ po’ scomoda in effetti – che appoggia in verticale sul vetro della portafinestra, non prima di aver misurato con un metro a stecca la distanza degli alloggiamenti per i cavalletti, quindi apre i cavalletti e li posiziona, sempre usando il metro di legno, appoggiato per terra. Mi pare un’operazione bellissima e affascinante: si prende un pezzetto di pavimento, si segna il punto di inizio a sinistra, il punto di fine a destra (perché viviamo in Occidente, questo lo so, se no dovremmo invertire la direzione), e si crea un mondo, tipo l’Italia, ma più stretto e senza tacco; quello che rimane fuori, tutto il resto del parquet, sarà soggetto a tempeste e cataclismi perché non avrà un tetto sulla testa e ci sarà l’estinzione delle razze più deboli, ad esempio le mie macchinine e i soldatini sbiaditi.

    « Papà, potrò passare del tempo sotto il tavolo? »

    Avrei dovuto dire sotto mia sorella ma poi, anche questo lo so, mi avrebbero portato dal dottore, che ha lo studio a tre isolati da casa nostra, accanto alla pizzeria, e ride, ride sempre, cos’avrà poi da ridere tanto lo sa solo lui.

    « La sedia! Mi sono dimenticato la sedia… hai ragione, la settimana prossima andiamo a cercarne una bellissima, dello stesso colore e dello stesso legno. Per il momento puoi prenderne una dalla cucina. O metterti sotto. Certo, perché no. »

    Io e papà delle volte ci comprendiamo in codice. Non sempre, però, perché l’alfabeto della lontananza abbisogna di continui aggiornamenti. Oggi però, sorella a parte, mi sa che ci siamo intesi alla perfezione.

    « Grazie! Evviva! » dico io, pensando a tutti i pericoli cui scamperò con un solo permesso.

    « Evviva! » dice lui, dopo aver incastrato alla perfezione il piano del tavolo sui cavalletti, usando le braccia in modalità apertura alare preistorica.

    « È bellissimo, grazie! Lo chiamerò il Catavoletto, il tavolo con i cavalletti… ».

    « Ottima idea, figliolo. »

    C’è da dire che papà e mamma, i miei eroi numero uno e numero due, sono spesso d’accordo, soprattutto da quando non vivono più insieme, e perciò, anche se non ho ancora ricevuto il beneplacito di mamma, prima ancora di andare in cucina a scegliere la sedia meno bucherellata, sono già lì sotto, nella mia nuova trincea-ufficio-bunker segreto-cubo pressurizzato delle meraviglie e ruoto piano, scivolando come un serpente, faccio anche il verso.

    Per essere veramente al sicuro, però, mi servirebbe un cappello.

    Tutto il mio mondo si mette in movimento (forse sta per cadere una tempesta di meteoriti): mamma arriva dalla cucina con una sedia, la più bucherellata mi pare, io slitto da sotto il Catavoletto e corro a prendere il mio berretto preferito, papà va sul balcone a fumarsi una meritata sigaretta (ci sono delle tendine che si muovono là davanti: come mai a mio papà non punti gli occhi addosso, Volpe Lia?) e la collettività si scombina e si sparpaglia, si sfibra e scompare alla vista (ah ah, Volpe Lia, tiè!), per ritrovarsi e riunirsi tra pochi attimi.

    È bella la vita dei bambini come me.

    Io, poi, ho il cappello di Davy Crockett, la mia marcia in più. Mamma lo tiene in camera sua, nell’armadio, in un cassetto al gusto di caramelle forti, perché sostiene che lì è più al sicuro da incidenti d’ogni sorta e che quando voglio posso andare a prenderlo senza chiederle il permesso, infatti è lì che sto correndo e nulla mi fermerà, be’, forse qualche spigolo.

    È strano ora come non ricordi il giorno in cui mi è stato regalato e da chi. Non è trascorso molto tempo, tre anni, grosso modo, almeno credo.

    Ma come mai mi dimentico le cose importantissime? È una prerogativa dei bambini, vero? Da grande non dimenticherò più. No, sbagliato: da adulto sarà ancora peggio.

    Comunque, eccomi qui, un Davy Crockett avventuriero a puntino. Via sotto il tavolo, subito.

    Come sto? Che ve ne pare?

    Non disturbatevi a rispondere, sono domande retoriche, sto benissimo, lo so da me.

    Non ho il Winchester né il cinturone, ma ho la coda.

    Non ho gli stivali con lo sperone o la cintura-cartucciera, ma ho la coda.

    Non mi chiamo Davy Crockett (o forse sì), mi chiamo Giorgio Santacroce, il mio biglietto da visita lo attesta (o forse no), ma ho la coda. E che coda!

    L’aspetto fondamentale, quello che rende ai miei occhi il cappello di Davy Crockett il capo d’abbigliamento migliore da indossare nei secoli dei secoli, non è tanto l’essere appartenuto al mio attuale eroe numero tre, un bambino nato povero, picchiato dal padre (non sarà, per caso, stato papà a fare a pezzi mia sorella e travestirla da tavolo?), considerato un buono a nulla (io questo no, però non posso più accedere all’angolo dei trucchi di mamma), diventato cacciatore di orsi (io nemmeno volendo, nel circondario ci sono solo volpi), poi, in ordine, esploratore, colonnello, deputato, scrittore e vecchietto simpatico e riverito da tutti (io sono esploratore di sicuro, colonnello ogni tanto per scherzo, ma mi annoio subito, deputato non so cosa voglia dire, scrittore non mi piace e vecchietto perché no, ma c’è tempo, spero), non è niente di tutto questo, ma la coda di opossum o di tasso (non c’erano le volpi, ai suoi tempi?) del suo cappello magico.

    Nonostante i miei otto anni

    Senza indugio e senza affanni

    Io con una fucilata

    Di Volpe Lia ne fo frittata.

    Poi ritorno ad ottant’anni

    Tutto acciacchi, ohi ohi, e malanni

    E con coda da pioniere

    Io divento giardiniere.

    Ah, no, la coda è di procione, mi sa tanto. E anche che non divento giardiniere. Ad esempio, i gerani del nostro balcone, che piacciono tanto a mamma, a me fanno starnutire.

    Ho sfogliato un libro con le figure, l’ho anche letto qua e là, ecco perché so tutte queste cose su Davy Crockett, e sono rimasto tanto colpito dalle immagini degli animali che si sono contesi il privilegio di diventare il cappello con la coda. Mi dispiace ma credo proprio che abbia vinto un procione, il più carino da vedere, con la sua mascherina di pelo sugli occhi, un po’ come Batman, e la zampina che saluta (ma è quasi una mano umana!). Anche il tasso non è male (ha le strisce verticali della Juve su tutto il muso), solo che quando spalanca le fauci mi fa paura. L’opossum invece mi farebbe perfino tenerezza se non fosse per la coda nuda da topo (una volta, vicino alla stazione, andavamo a prendere una zia di mamma che vive in campagna, ne ho visti a decine entrare e uscire da un tombino, in pieno giorno; topi, eh?, non opossum, e il tombino era coperto da una siepe fitta e le macchine parcheggiavano fino a toccare con i fanali la siepe. Avrei voluto avvertire gli automobilisti, di stare attenti quando uscivano dall’auto, ma mamma mi ha trascinato verso l’atrio della stazione, eravamo in ritardo).

    Il mio cappello di Davy Crockett con la coda di procione mi piace tanto per motivi che non hanno nulla a che fare con gli indiani d’America o i mammiferi e i roditori, gli orsi e i gerani, e nemmeno con il freddo, cioè la ragione principale per cui qualcuno a un certo punto me l’ha regalato. Figuriamoci, in casa lo indosso persino d’estate (quando mamma è a scuola). È nella coda il segreto: mi aiuta a orientarmi, mi impedisce di sbattere dappertutto, mi protegge dai nemici, mi ricorda chi sono, quando lo dimentico. Calcarlo sulla testa o tenerlo in mano dall’attaccatura della sua appendice per me è lo stesso, anzi, quest’ultima modalità quasi la preferisco. È come avere una bacchetta da rabdomante o da mago (un po’ meno da direttore d’orchestra, anche se mi è capitato di seguire una canzone alla radio dirigendo la melodia con la coda), con la differenza sostanziale che non cerco il petrolio o un pozzo d’acqua, né l’oro o le pietre preziose, per non parlare delle persone disperse. Cioè, una persona dispersa, una sola, in effetti la cerco, come attività collaterale alla trasformazione della coda di procione in contorto serpente volante al comando dei miei colpi di polso: me stesso. E mi trovo, probabilità cento percento. Con la coda di Davy Crockett mi trovo.

    Mamma ha detto che per il momento devo tenermi questa sotto il sedere. Solo pochi giorni. Non la vedrà nessuno e in cucina sta così male, sembra una sedia-scolapasta, chi ci si accomoderebbe mai, io glielo so dire?

    Papà, che nel frattempo è rientrato dal balcone ma che ha sentito tutto, mi lancia una nuova offerta.

    « Se pensi a un trattamento simile per il tavolo, dimmelo in tempo, così la prossima volta ti porto l’attrezzo adeguato. Occhio e croce direi un trapano elettrico, o un’ascia. »

    Mi piace quando papà mi prende in giro. Quasi sempre. Adesso però, mentre spingo la sedia ferita sotto il Catavoletto, mi concentro su quel Non la vedrà nessuno di mamma, indeciso se offendermi o interpretare.

    Il cappello di Davy Crockett è sulla mia testa perciò decido per l’interpretazione: nelle mie attuali condizioni pelose non posso perdermi di sicuro.

    Mi piacciono gli altri bambini, sia i compagni di classe che gli amici dell’oratorio (io e mamma abitiamo davanti a un oratorio dei salesiani; dalla finestra della cucina si vede il campetto da calcio), quindi non sono un bambino problematico (ma mi rifarò abbondantemente da adulto).

    Questo volevo puntualizzarlo subito, per me e per voi.

    Vedete forse scritto sul mio biglietto da visita

    giorgio santacroce

    Bambino problematico

    ?

    Bambino problematico , l’ho imparato da mamma, è un bambino che, terminata l’ultima ora di lezione, ha ridotto mamma a un fascio di nervi.

    Nella sua classe, mi ha raccontato, ce ne sono due e mezzo, che in totale dà il risultato di mamma a due fasci di nervi più mezzo fior di pelle. Non è bello, per me, quando ritorna a casa. Per fortuna il terreno minato del pranzo (e della cena, quando ci sono le lezioni serali) l’ho risolto a modo mio. Rimangono alcune zone delicate, come il riposino e la correzione dei temi. Il riposino è un’attività breve che si svolge con le tapparelle abbassate e rilassa mamma, purché non la assilli con domande sulla vita dei bambini che mi vengono lì per lì, durante quella mezz’ora, e che non sia in grado di tenere buone buone sotto la lingua fino al suo risveglio. La correzione dei temi è un’attività che distrugge in pochi secondi il risultato dell’attività precedente.

    Quindi il problema non è la compagnia degli altri bambini, il problema è come divento io in presenza dei miei coetanei.

    Da adulto, qualcuno (forse la prima fidanzatina, non ricordo) mi dirà Ansia da prestazione e butterà la frase lì, come uno scultore dell’aria, facendola seguire da un silenzio simile a quello che rimane sulla banchina quando il treno è partito e parenti e conoscenti si sono dileguati. Mancano ancora molti anni, ma vorrei correggere il futuro: non è affatto vero, non è questo il punto. Il punto è che vorrei creare un ambiente tranquillo, gentile, dove tutti si comprendono e sono superflue le decine, le centinaia di frasi che invece tocca spendere per non offendere nessuno, per non farlo sentire escluso. Le persone, anche i bambini, a maggior ragione i bambini, perfino se le inviti a giocare con te, a casa tua, di pomeriggio, e mamma prepara una crostata di mele e il succo d’arancia, stanno sempre sul chi va là, temono di essere prese in giro, o di essere escluse da un gruppo speciale di amici, di compagni di scuola, di tesserati dell’oratorio, e sono permalose, competitive, aggressive, fintamente docili (talvolta) e (in linea più infallibile) docilmente finte.

    Non mi piace. Non mi piace perché anch’io divento esattamente così.

    Ecco perché nessuno vedrà la sedia bucherellata: il motivo è che non prego più mamma di invitare a casa il compagno di banco o l’amico del cuore. I cuori sono finti, a partire dal mio. Quest’ultima conclusione, però, la tengo per me.

    Devo studiare, taglio corto.

    Mamma non è convinta.

    Ho idea che, quando papà porterà la compagna perfetta del Catavoletto, questa sedia finirà in cantina.

    È un reperto archeologico di una delle mie guerre con il nemico.

    La sedia nuova, invece, sarà come il giorno della prima comunione.

    Non la mia, io l’ho già fatta.

    Quella di mia sorella.

    (al 4 ancora un po’ di Catavoletto;

    al 34 arriva una comunione di beni spirituali)

    4

    Da grande, quando non potrò più rifiutare l’organizzazione di festicciole casalinghe con i compagni di classe o gli amichetti dell’oratorio, perché avrò smesso di frequentare le une e l’altro, cambierò gli oggetti esplicativi della problematica personalità multiple e non potendo più parlare con il mio antico cappello di Davy Crockett, che mamma, sotto forma di una massa schiacciata di pelo maleolente, a un certo punto della mia adolescenza getterà nella spazzatura a mia insaputa, chiacchiererò amabilmente con una scatola di fiammiferi giganti da sigaro o carbonella.

    Dirò così: « Non fumo il sigaro e non possiedo un giardino con griglia in muratura, però un giorno ti ho acceso per allegria e adesso sei un fiammifero usato. Non ti posso più offrire a nessuno. Anche io sono un fiammifero usato agli occhi di alcuni esseri umani (in genere quelli che mi interessano maggiormente) però, proprio come te, posso diventare un altro oggetto, intonso e bellissimo. Ad esempio, e senza cambiare di una virgola il mio livello di usura, sono un bastone da passeggio, adesso. Miniaturizzato. Per gli elfi o gli animali del bosco. Anche per le ragazze di bassa statura, andrò bene anche per loro. Purché non le conosca già. Ecco, se conoscerò una ragazza di bassa statura potrò svettare nella sua zona d’attenzione in qualità di bastone da passeggio con pomello antiscivolo. Guarda, ragazza, c’è anche la polvere per il sudore, sul manico, l’ho messa io. Puoi impugnarmi in sicurezza, non cadrai, non incapperai in incidenti di percorso. Con me, cioè, con lui, potrai inoltrarti nei boschi più fitti e pericolosi. E mi sentirò davvero così: un paladino, una persona speciale, un bravo ragazzo da progetto famigliare. Fino a quando non incontrerò per caso il mio passato. Che dirà a tutti: vi state confondendo, non è un bastone da passeggio, è un fiammifero usato.».

    Eccetera, eccetera. Gli intrecci del rimuginante solitario.

    Per fortuna sarò tanto, ma tanto distratto, e i pensieri mi scivoleranno via. Ma c’è tempo per quella vita. È presto.

    Adesso il tavolo reclama un arredamento.

    Papà ci saluta, deve andar via. Lo accompagniamo alla porta.

    « Trapano, ascia o sedia? » mi chiede, sorridendomi.

    Chissà che tipo di bambino sono, per lui. E io, se fossi al suo posto, come mi guarderei? Sono domande interessanti, mi intrigano, mi distraggono (sono le prime volte, avrò modo di perfezionare l’arte) e mi impediscono di rispondere con prontezza.

    « Va bene, faccio io. Sarà una sorpresa. »

    Mamma lo ringrazia e io ritorno nella mia cameretta.

    Non ci voglio mettere niente sopra, solo i gomiti. E il cappello. Sei contenta?

    Devo averlo pensato ad alta voce perché sento la voce di mamma dietro le spalle che dice: « Contento, con le due O di Giorgio del tuo biglietto da visita, come un vero maschietto. Come te. Oppure pensavi a una scrivania ? Però la scrivania, in genere, ha i cassetti. Tesoro, volevi un tavolo con i cassetti? Perché non l’hai detto subito? »

    Mamma è talmente abituata alle interrogazioni dei suoi ragazzi ammutoliti che per lei è la norma far seguire una seconda domanda a una prima ancora senza risposta. Nei giorni particolarmente veloci riesce a fabbricare una matriosca di frasi che attendono responso come, secondo me, nemmeno in Russia ne fanno di così grandi.

    Ora, non posso mica rivelarle il segreto di mia sorella a pezzi travestita da tavola, soprattutto dopo avere espresso quella volta là una ferrea risolutezza di praticare lo sport del lancio dalla finestra dell’ultimogenita: sono cose che non si dimenticano.

    Mamma, poi, non dimentica nulla. Non è come me. Ecco perché ogni tanto soffre, è triste, e io me ne accorgo. Anche papà non dimentica nulla, a modo suo. Quindi io da chi ho preso? Lo so, lo so. Pensavate di farmela passare brutta, con tutti quei comandi silenziosi, e i dispetti, ma non siete stati perspicaci e, attaccandomi, avete usato le armi sconsideratamente, tutte quelle a vostra disposizione, compresa la granata a gas simpatico, che come tutti i bambini sanno, fa dormire e dimenticare.

    Mistero svelato, direi.

    E adesso basta parlare con i nemici, c’è il Catavoletto qui, che attende applicazioni. E mamma è allegra.

    Non fraintendetemi, mamma è quasi sempre allegra, persino quando è triste. Quando è triste, l’allegria di mamma non si spande come il profumo di un prato fiorito; è più simile a un deodorante al lampone (esistono, vero?) spruzzato con una mira infallibile appena sopra gli occhi (perché gli occhi patiscono le allegrie, in certi frangenti), diciamo dove incomincia il naso. Gli occhi e il naso, ovviamente, sono soltanto i miei.

    Gli occhi di mamma sono da sempre oggetto di discussione tra i suoi colleghi di scuola, io lo so perché la scuola di mamma è lontanissima da casa nostra e non abbiamo la patente di guida e quindi nemmeno un’automobile (io ho le mie macchinine, ma quelle non contano), così mamma ha trovato una soluzione: un asilo per me, lontanissimo anche lui, ma in pratica attaccato alla scuola dove insegna lei. Al mattino prendiamo un taxi giallo e facciamo due tappe, prima l’asilo appunto (il tassista si ferma e lascia il motore acceso, mamma scende e mi consegna all’ingresso) e, dopo, la scuola di mamma, poco distante. Durante la prima manche non è raro che l’autista (anche se non è un collega di mamma e non può discutere e litigare con altri colleghi di mamma) attenda il secondo o il terzo semaforo rosso per alzare lo sguardo verso lo specchietto retrovisore e affermare con una certa enfasi: « Ma che begli occhi che ha signora! Azzurrissimi! » oppure « Complimenti per i suoi bellissimi occhi verdi, signora! »

    A scuola, invece, i colleghi veri, mi ha raccontato mamma, e non solo i professori e le professoresse ma anche i bidelli e i segretari, discutono animatamente e a volte si danno degli stupidi, degli accecati o dei daltonici (ho imparato che non è una parola-western, ma significa non saper distinguere i colori, anzi, non vederli proprio; solo il bianco e nero, come gli erbivori. Il mio tasso Davy Crockett era un carnivoro, ora è un cappello).

    « Verdi! »

    « Azzurri! »

    « Verdissimi! Come il mare dalle mie parti. »

    « Azzurrissimi! Come il mare dalle mie parti. »

    Mamma ride, contenta. In casi simili io penso si possa felicemente ridere persino senza essere vanitosi.

    Tra l’altro, mamma non sa nuotare.

    Niente bracciate e testa a pelo d’acqua e niente cambi di marcia e parcheggi di misura. Per me va benissimo, i taxi sono divertenti e al mare me la cavo abbastanza bene.

    Comunque, gli occhi di mamma sono Verdi e, se dovessi dirne qualcosa di più (da grande diventerò un maestro della descrizione degli occhi delle ragazze; imparerò decine di sottilissimi aggettivi e procrastinerò il momento della loro sconvolgente scoperta: è un ragazzo vuoto, con dei nemici immaginari al centro del vuoto, via di corsa e grazie di tutto, p.s. passate parola) aggiungerei Grandi, Molto Espressivi, Intensi, Antico Egitto. Come Cleopatra nel mio libro illustrato.

    Ora passo ai capelli. I capelli di mamma sono castani con le onde, lunghi fino a metà del collo. Non è una mamma molto alta, diciamo quanto basta.

    L’Antico Egitto, con Cleopatra, i faraoni, le mummie, il fiume Nilo e le piramidi, è un argomento che le piacerebbe insegnare meglio a scuola e invece è costretta dal programma ministeriale (vuol dire un ordine dall’alto) a passarci il più in fretta possibile, un po’ come Mosè e i suoi amici quando gli egiziani li inseguono e le acque del Mare della Bibbia si aprono, e allora ha raccontato a me tutta la storia per filo e per segno, e un giorno ha perfino portato a casa un volume con le figure e ha ricominciato a spiegarmi.

    All’asilo i libri sono proprio diversi. Intanto i colori devi metterceli tu, poi hanno le pagine spesse come bistecche e secondo me questo significa una sola cosa: laggiù i bambini non li amano per niente, anzi, li trattano da stupidi.

    Prendete me: ho idea di non essere tanto benvoluto dalla maestra. Me lo dimostra con mille smorfie oppure, quando la chiamo per sbaglio, finge di non aver sentito.

    Le spiegazioni sono molteplici, ad esempio lei sa che mamma è una maestra-professoressa e i suoi allievi non hanno bisogno di essere accompagnati in bagno. Che fortuna svergognata, chi la paga? La pago io. Oppure. Il bambino arriva nientedimeno che in taxi, ma chi è, un principino?, la deve pagare. Oppure. Forse non le piace la mia faccia, leggermente ovale, liscia e chiara, gli occhi azzurri (azzurri o verdi? Azzurrissimi come il mare dalle nostre parti; verdissimi come il mare della nostra regione; ma ha preso dal papà o dalla mamma?), il naso regolare, i capelli con un accenno di frangetta, biondo scuri. Che faccia di svergognata fortuna. Sì, potrebbe anche essere. Le facce hanno una grande responsabilità, se te ne capita una sbagliata è un pasticcio; perfino a essere il migliore di tutti i bambini dell’asilo e del mondo intero, la vita diventa una giungla.

    Le spiegazioni sono tante, ma il risultato è uno solo: la mae­stra è un nemico.

    Prendete l’altro giorno, subito dopo il pranzo. All’asilo funziona così: al mattino ci sono le attività cosiddette didattiche. Si svolgono individualmente e tutti insieme, con l’ausilio di pennarelli, fogli giganteschi, pastelli imbrattadita, cartoncini, plastiche varie e trasferelli (sono fogli particolari, con le lettere dell’alfabeto e i numeri che si staccano e si depositano dove vuoi tu a patto di premerci sopra una punta; una qualsiasi va bene, anche le unghie. Non il pisello, però: la maestra si arrabbia tantissimo. Che tra l’altro, che cosa ci fanno usare i trasferelli a fare, visto che la maggior parte di noi non sa ancora scrivere. Comunque.), più altri oggetti freddi e molli, la creta, per dirne uno. Il pongo, no: il pongo non va bene perché non rientra nella tabella merceologica dell’apprendimento. Come l’Antico Egitto nella scuola dove insegna mamma.

    A ogni modo, è un’attività stancante, i bambini schiamazzano, la maestra è scontenta (disegni la tua famiglia in vacanza? È scontenta. Un riposante panorama con albero, casetta e sole sorridente? È scontenta. Le fai il ritratto? È scontenta), i banchi, che per l’occasione sono stati disposti a semicerchio così da poterci vedere tutti in faccia e sorriderci e tirarci gli oggetti d’uso volante (la gomma, le caccole del naso, il tappo di un pennarello), tendono a spezzare la curvatura e a slittare verso un pericolosissimo centro ipotetico del caos (mamma direbbe l’occhio del ciclone ; me l’ha spiegato perché ogni tanto le tocca insegnare anche la geografia, che non le piace); insomma, noi bambini siamo centripeti e il nostro è un mondo centripeto, che fa rizzare i capelli alla maestra. Così si arriva allegramente e afoni all’ora del pranzo (dopo il pranzo ci sarà il riposino con la testa sul banco protetta dalle braccia a cesto, e poi un supplemento di baraonda fino alla campanella). Se i bambini mangiano gli adulti rifiatano, giusto? No, sbagliato. Intanto non è un gran bel mangiare. Per dire, lo spessore di una bistecca decente si è appunto trasferito nella pagina di un libro da colorare, mentre quello di un foglio da disegno a4 presta la sua inconsistenza alla fettina di carne, accompagnata immancabilmente da un purè giallognolo o da fiammiferi di carote. I bambini mugugnano, e mugugnando ingurgitano, mi pare il minimo, dimenandosi e scucchiaiandosi l’ingegno alla ricerca di un qualche scherzo, compensatorio di tanta miseria gastronomica. Ora, non che mi voglia tirar fuori dall’evento per superiorità o snobismo, ma ho un rapporto vagamente screziato con il cibo, perfino a casa, figuriamoci qui. Quindi, per riprendere il racconto, ero al mio posto che cincischiavo con il piatto quando dall’altro lato del refettorio ho visto alzarsi dalla sedia Giovanni, un bambino con un problema piuttosto comune da queste parti: domandarsi in continuazione chi è che lo sta prendendo in giro. Giovanni ha gli occhi neri, i capelli neri e lunghi fino alle spalle (la maestra è scontenta) e le unghie delle mani con le stesse caratteristiche dei capelli. Non gli sto simpatico, lo so dal primo giorno, anche se stento a identificare un motivo che abbia una forza maggiore del mio essere nel complesso cromaticamente al suo opposto (mamma mi spiegherà che i colori di fondo delle persone innescano spesso delle reazioni violente).

    Non lo stavo prendendo in giro, io non prendo in giro nessuno, ho già i miei bei problemi con gli esseri invisibili. Facevo delle boccacce al cibo nel piatto, tutto qui. Chissà, deve avere una vista da falco, Giovannino, e forse suo papà ha una coltivazione enorme di carotine bollite e di patate in poltiglia, insomma, si

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1