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Pontescuro
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Pontescuro
E-book187 pagine1 ora

Pontescuro

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Info su questo ebook

Il romanzo si svolge nel 1922, nella bassa padana, e segue una linea narrativa semplice: l’uccisione della bellissima e scandalosa figlia del signorotto locale. Colpevole è il fattore, mosso da invidia sessuale e sociale (quindi, si tratta a tutti gli effetti di un femminicidio ante litteram), ma dell’assassinio viene incolpato lo “scemo del villaggio”. Ragagnin dà voce alla nebbia, al fiume, al ponte, al cadavere della ragazza, a una ghiandaia, a una blatta; oltre al narratore, sono quindi i testimoni innocenti o le vittime a prendere la parola, a rispecchiare il male che alligna intorno a loro e contro di loro. C’era una volta, nella bassa padana, un pontescuro costruito con pietre, sangue e nebbia, in mezzo al vuoto dei campi. Intorno al ponte, sulle due rive che annoda, sono sorti poi un castello, dove abitano da sempre i padroni, e un villaggio, Pontescuro, dove abita da sempre la malora. Ovunque intorno, la nebbia, antica e onnisciente. Nel 1922, anno di marce e violenza, la bellissima Dafne Casadio, la figlia del padrone, viene trovata morta con un nastro rosso intorno al collo. La nebbia, il fiume, la ghiandaia, la blatta sanno chi è stato a stringere quel nastro rosso fino al buio; ma di tutte le anime che vivono a Pontescuro, sarà l’unica innocente a essere accusata del delitto. Pontescuro è il male dove abita l’uomo. Pontescuro è una storia sul male che abita l’uomo. Senza tempo, come la nebbia, senza ragione, come l’assassinio, senza salvezza, forse, se non per chi il male non ha mai abitato.
LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2020
ISBN9788833860602
Pontescuro

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    Anteprima del libro

    Pontescuro - Luca Ragagnin

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    uno

    [ i nomi chiusi ]

    due

    [ la nebbia intenerita ]

    tre

    [ il ponte che collega due nulla ]

    quattro

    [ tutto non si può governare ]

    cinque

    [ le barche severe ]

    sei

    [ i libri mastri di Cosimo Casadio ]

    sette

    [ il primo figlio marcia ]

    otto

    [ il secondo figlio fugge ]

    nove

    [ il terzo figlio disegna ]

    dieci

    [ Dafne Casadio, la quarta figlia, muore ]

    undici

    [ don Antonio appeso a un gancio ]

    dodici

    [ il prete nuovo gira la chiave della dimenticanza ]

    tredici

    [ la nebbia osserva la fine ]

    quattordici

    [ la nebbia fa amicizia con la ghiandaia ]

    quindici

    [ la ghiandaia misura le conseguenze ]

    sedici

    [ il fiume racconta l’arrivo di Ciaccio ]

    diciassette

    [ Làinfondo elemosina il vino e trova un bambino ]

    diciotto

    [ sfamare una bocca nuova ]

    diciannove

    [ l’apprendistato di Ciaccio e Dafne ]

    venti

    [ lo scemo del villaggio e le striscioline di stoffa ]

    ventuno

    [ don Andreino, il prete vecchio, Nella, la serva, e i loro appetiti ]

    ventidue

    [ Zuntura, Ciaccio e gli attrezzi della vita ]

    ventitré

    [ la ghiandaia sa le cose dall’alto ]

    ventiquattro

    [ cosa c’è nella carne ]

    venticinque

    [ la ghiandaia e le vittime di Dafne ]

    ventisei

    [ il ponte delle discendenze segrete ]

    ventisette

    [ cosa è buono e cosa è arrabbiato ]

    ventotto

    [ una storia di avi ]

    ventinove

    [ Sergio scoperchia il trucco dei morti ]

    trenta

    [ la nebbia, la ghiandaia, il ponte, il fiume, la blatta: un oratorio di compassione ]

    trentuno

    [ un consesso di malati ]

    trentadue

    [ macchie nascoste e girotondi ]

    trentatré

    [ una quiete anomala ]

    trentaquattro

    [ le immagini di cera ]

    trentacinque

    [ l’ispettore Eugenio Romanelli sposta il baricentro ]

    trentasei

    [ dietro il portone del tempio ]

    trentasette

    [ dall’altra parte della collina ]

    trentotto

    [ tre segnaletiche per il buio ]

    trentanove

    [ scambiarsi un segno di sangue ]

    quaranta

    [ la processione ]

    quarantuno

    [ la prigione a credito ]

    quarantadue

    [ la colonia salvatrice ]

    quarantatré

    [ la miseria non è pulita ]

    quarantaquattro

    [ addormentare i testimoni ]

    quarantacinque

    [ un puntino nella nebbia ]

    quarantasei

    [ Ciaccio in cammino ]

    quarantasette

    [ oltre Pontescuro ]

    scafiblù

    ( 7 )

    © 2019 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    in copertina: disegni di Enrico Remmert

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di gennaio 2019

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Acqua 180 gr

    Prima edizione digitale: gennaio 2019

    isbn

    978-88-3386-060-2

    Prima edizione cartacea: gennaio 2019

    isbn

    978-88-3386-041-1

    Vivevamo in tempi che erano davvero il racconto di un idiota.

    Pieno di frastuono e delitti.

    Zbigniew Herbert

    dello stesso autore

    Musica per Orsi e Teiere

    Capitomboli

    Imperdibili Perdenti

    Agenzia Pertica

    uno

    [ i nomi chiusi ]

    Si chiamavano Giovanni, Tonio, Puccio, Giorgione. Si chiamavano Luigi, Mario, Bandiera, che credeva gli avessero dato un nome da femmina e cercava vendetta. Si chiamavano Guglielmetto, Rico, Luciano. E c’era la grassa, sensuale, infelice Nella. Lei era convinta di aver imparato l’amore, ma non era vero. Si chiamavano Michelino, Franchino, Enrico. E c’erano Paolo di Ca’ Bassa e Paolo di Ca’ Alta, non si potevano soffrire. Poi c’era uno che viveva ancora più in alto di Paolo di Ca’ Alta, si chiamava Cosimo e aveva tre figli maschi e una femmina. La femmina si chiamava Dafne, che significa pianta di alloro, o di lauro. Si chiamavano Gené, che non sapeva cosa sono i pensieri, e si chiamavano Emilio, detto il Zuntura, l’aggiustatutto, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore. Si chiamavano Làinfondo, perché il nome non gliel’avevano mai dato e allora indicava dove viveva, e si chiamavano Ciaccio, come il verso degli uccelli, don Andreino e don Antonio perché erano dei preti, e c’era Furàza, la vongola, una cosa che non si può aprire senza il prezzo di ucciderla. C’era il paese e altri che vivevano nel paese, non molti, qualche bambino, un po’ di vecchie, gli animali. Il paese si chiamava Pontescuro. C’era una volta Pontescuro. E tutti, dal primo all’ultimo, anche quelli che non avevano un soprannome, erano simili al Furàza. Si chiamavano in tanti modi, erano tutti chiusi, e ad aprirli morivano. Si chiamavano cielo cieco e terra impregnata e stanca, si chiamavano ponti maledetti e carcasse di barche. Si chiamavano rami spogli, ciottoli, paglia, fango rappreso, stallatico, gelo d’inverno e inferno d’estate. Si chiamavano Eugenio Romanelli, un foresto che non conosceva le regole di Pontescuro. Uno che arrivò un giorno, osservò attentamente e aprì il paese. Era il 1922. Era tanto, tantissimo tempo fa. C’era la nebbia a nascondere tutto.

    due

    [ la nebbia intenerita ]

    Avete presente la nebbia? Dicono che faccia del male alle persone. Sono quelle dicerie che nascono un giorno, non si sa come, e poi quel giorno si perde nel tempo. Nella notte del tempo, anzi, nella nebbia del tempo. E così le origini di un’affermazione così forte, così perentoria, svaniscono, come dire, nel tempo. Rimane l’accusa a navigare sopra le generazioni che trascorrono: i bambini diventano ragazzi, poi uomini, poi vecchi, poi, niente, se ne vanno, e si portano via la convinzione di quell’accusa. Non sto esagerando, sapete? La nebbia, da queste parti è sempre stata molto importante, una di quelle cose impalpabili che però determina, per il solo fatto di osservarla da un punto o da un altro, o di starci dentro, chi sei, perché porti il tuo nome e com’è fatta la casa nella quale dormi, e su quale letto, se è un letto. Non è niente di magico, non temete, è semplicemente la conformazione di questa terra con le sue case sopra, come denti isolati o accavallati o nascosti nella bocca della pianura. Ma non voglio ancora raccontarvi com’è fatto Pontescuro, che poi è il nome del paese, il nome della bocca in cui si è masticata questa storia. Voglio parlarvi ancora un po’ di me. Magari il primo a farsi scappare una frase del genere, La Nebbia Fa Male Alle Persone, intendeva dire una cosa tutta diversa. Forse voleva semplicemente scherzare. Oppure stava tornando a casa con un amico dopo aver fatto prolungare l’orario di chiusura all’oste, e allora erano lì che dal borgo, i denti accavallati, si trascinavano verso le loro catapecchie, due denti isolati, e c’ero anche io, ma poco, io di notte vado a dormire, figuriamoci, e uno dei due ha biascicato all’altro che non era il vino cattivo a mettere i pensieri di morte, era la nebbia. O magari la frase dell’accusa è uscita da una nonna, spazientita dalla nipote, che invece di starsene sotto le coperte continuava a scalciarle e precipitarsi alla finestra, e guardare fuori, nel primo buio del paese, una cosa tutta sua, un particolare, una magia, un ramo o un animale notturno, o una luce, un po’ più lontano, e la nonna deve aver pensato che era la nebbia a incantare la bambina, la nebbia che scivolava via veloce, come le coperte sul suo letto.

    A me gli uomini e le donne, che siano adulti, che siano intrappolati nell’infanzia, fanno tenerezza.

    Le cercano proprio tutte, le ragioni per stare male, e quella cosa la credono l’amor proprio, la chiamano Morte per Te, Vita per Me, e invece non si accorgono che basta respirare per avvicinarsi alla morte.

    Dicono che la nebbia entra nei polmoni e li guasta, dicono che la nebbia fa accartocciare

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