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Il gioco della verità
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E-book179 pagine2 ore

Il gioco della verità

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Info su questo ebook

“Il gioco della Verità” è un libro prezioso, perché ci permette di vedere con i nostri occhi, per così dire in presa diretta, lo spirito del ‘68. Come se avessimo trovato un rullino di fotografie scattate allora e lo sviluppassimo oggi, possiamo leggere questo romanzo scritto a quattro mani, giorno per giorno, quell’inverno tra 1968 e 1969, da due brillanti ventenni di solide letture e modelli (da Joyce a Kerouac, per fare due nomi). Rimasto sepolto per 50 anni, questo testo ora ci mostra qualcosa di inedito, attraverso i loro occhi. Un’esperienza rara, dato che tutto quello che è stato scritto sul 68 è stato scritto ex post, com’è ovvio.
È così forse possiamo scoprire davvero  e semplicemente come in quei tempi i giovani hanno cambiato il mondo, nella ferma volontà di cambiarlo, ma prima che tutto venisse assorbito e schiacciato dall’ideologia e dalla politica, che pure non manca.
Ragazzi e ragazze per la prima volta liberi, di muoversi, di amare, di sperimentare, di consoscere la vita e se stessi, di operare delle scelte proprie. Decisi a prendersi tutto, o almeno a godersela il giusto.
Il cinquantesimo anniversario del ‘68 ha stimolato reazioni di segno diverso, dalle banali rievocazioni – o commemorazioni – dei bei tempi che furono, delle lotte e ideologie perdute, fino al mero marketing per nostalgici ex ragazzi non cresciuti neppure alle soglie degli –anta.
Il tutto immerso in un brodo unto di retorica che ci riconsegna l’immagine di quell’anno con addosso un peso di responsabilità e storia che lo allontana da noi molto più della sua reale distanza, come se si trattasse di un passato molto più remoto. Leggete questo libro prezioso!
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2018
ISBN9788833860107
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    Anteprima del libro

    Il gioco della verità - Bruno Boveri

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Il gioco della verità
    Oggi come adesso
    Nella mia fine il mio principio
    Due prefazioni postume

    scafiblù

    ( 5 )

    © 2018 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di settembre 2018

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Acqua 180 gr

    Prima edizione cartacea: settembre 2018
    isbn 978-88-99815-91-2
    Edizione E-book: settembre 2018
    isbn 978-88-83386-01-07
    bruno boveri | ermanno gallo

    il gioco della verità

    Il gioco della verità

    Passi. Passi. Seduti sulle nuvole ad ascoltare. Non possiamo più accettare. I richiami lucidi perlati vetrosi si muovono appena spinti arcuati dall’aria leggera che circola. Seduti sulle nuvole. Non possiamo più stare qui ad aspettare. Proust, Moravia… metti chi vuoi. Diresti, te la sentiresti di dire ancora: sì è così? Accettiamo e laviamoci i denti tranquilli di quelle parole.

    Ho una vecchia bandiera a casa. La metterò sotto il letto. C’era avvolto mio nonno quando è morto. Seduti sulle nuvole. Potrebbe qualcosa distaccarsi, un pezzo infinitesimale di galassia, un frammento di chiarezza. Inquietudine. Calma. Calma inquieta. Dove comincia la calma e dove l’inquietudine. Dove finisce il senso delle cose. Cose. Il richiamo degli occhi ancora baluginanti. Giorni lontani… E perché ancora si cerca senza sapere. Palle nel cervello. Palle nell’anima. Andiamo al cinema. Sera risolta. Nebbia. Chissà. Quando si tengono gli occhi chiusi non si può sapere. Il solito circolo vizioso. Che è un giro vizioso. Noi siamo un giro vizioso. E lui. Lui è un giro vizioso o no?

    C’era l’aria allora e il cielo e la tristezza anche, ma per altro. Perché la sera veniva come sera e bisognava dire addio al gioco. Alle teste mozzate delle lucertole, alla caccia dei girini, all’eccitamento di uno sguardo.

    Non sfuggire il discorso. Giro vizioso sì o no?

    Al diavolo, cosa me ne frega. A casa ho da mangiare. E domani uguale ad oggi fin che si vuole ma non mi tiro indietro.

    E perché? Chi sa cos’è la paura? Può essere anche la forza e dietro la forza la rassegnazione e dietro la rassegnazione il niente. Vetro opaco. Opaco. Vetro rotto. Oppure no. È uno specchio. La paura, non la rassegnazione. Aspetto. Verrà qualcuno. Forse. Domani. Oppure ieri. Con la faccia rosa come il culo di un neonato. Parlerà. Oppure no. Se ne starà zitto ’sto cristo. Si caccerà in un angolo con le mani sotto le chiappe. Parlerà, poi. Dirà se è vero. Parlerà ancora, forse. Di violenza, di rassegnazione, di paura. La paura, esce dalle orecchie, come radici, nella terra. Poi cresce, cresce, cresce.

    Non vedo dove, ma qui era prima. Con le mani come mulini. Il volto d’acqua. La benzina nelle vene, come droga. È caduto, ma forse si rialza. Il futuro che è già scritto prima mi ha straccato e il foglio si rompe. Esce il verme, oppure l’anima o è solo piscio. Se ne va, era venuto forse, ma ora va. La tua ombra è la paura. E tu…

    Te ne vai lontano e dove? Con chi con che cosa?

    La teoria metafisica attraverso l’ipostatizzazione… Ipostasi? Metempsicosi, potresti essere mia. Scrutare sulla carne bianca un segno, un rosso o un blu. Un segno rosso e blu. Una venuzza. Perché del resto… quanto è passato? Poco importa. Una costruzione perfetta. Persino i candelabri cesellati e i portali traforati come un pizzo. Poi cade. È di carta. Nemmeno cartapesta.

    Ma ci sarà pure un modo, dico uno di uscire da questa merda. Perché gli altri furbi e noi scemi. I più scemi. No. Ricapitoliamo. Fuori c’è la nebbia. Lo vedo. È agosto. Allora non c’è nebbia. Stasera usciamo. Profumati e sazi. L’aria ci investe. Fa piacere mettere un golf pesante. La pelle sotto è calda. Anche lei sazia e piena come di mani, tante mani come granelli di sabbia. Tese a carezzare. Silenzio.

    Stanchezza di silenzio e silenzio. Lontano il tempo passa. Qui no. Qui non esiste. Se l’è inghiottito la rana o forse è la solita illusione. Ci sarà un’altra dimensione oltre questa. Dove ogni cosa è semplice e si mangia per mangiare, si beve per bere, si fa l’amore per fare l’amore…

    E tu che scrivi la tua vita come sopra un pube eterno. Sarà così davvero. Le grandi bisbocce le grandi chiavate. Mi sembra un pugno, misero pugno di mosche.

    Come ti chiami? Elisa. Elisa. È buio. Difficile vedere nel buio. Adesso allungo una mano e ti sfioro. Ti sfioro e canto. Tu canti con me. Elisa sai cantare? Non rispondere ti prego. Se rispondessi non saresti più vera, saresti una voce falsa come tutte. Ho bisogno di una stella Elisa. E tu e tu… ossessioni.

    Dobbiamo metterci a scrivere insieme. Pagina per pagina. Giorno per giorno. So che accetterai. C’è un motivo in più. Potrebbe venirne fuori una vita.

    Io credo che si scriva sempre per un motivo. E il motivo non è mai quello di scrivere. Una volta ho scritto perché volevo compatirmi. Un’altra, non importa. Si cerca sempre ovunque.

    Io pensavo. Invece poi sbagliavo. È quasi tutto altro da ciò che si credeva ieri… E si crede oggi per domani. Perché dire basta. Perché fermarsi.

    La confusione secondo me è nociva.

    Scrivevo. Le mie pagine bianche mi guardavano come uno sbadiglio. Sono là i fogli, dispersi come i ricordi che mi hai lasciato. Ricordo, i nostri piedi sulle foglie cadute, impronte marce, c’era la nebbia, era novembre o dicembre, forse.

    Scriviamole queste pagine. Una vita, forse. Ma tua. Mia, forse. Vorrei fosse nostra, ma se si parla resta mia o tua solamente. Le mani nei miei capelli sono le tue, forse. I miei occhi sono foglie di quercia, le tue mani fiori di edera.

    Ti amo, ti amo, ti a… , ti… Solo questo mi dici, ma cosa vuoi che me ne freghi se poi tu resti tu con la tua anima di merda. Ho di te solo le parole che mi dici in continuazione, che mi inondano. Non ti do nulla, perché non voglio niente da te. È meglio. Se canto, tu canti. Se ti bacio, tu mi baci. Se ti voglio, tu mi vuoi. Mai una volta che tu mi dia un calcio in culo, quando è l’unica cosa. No, tu mi ami. Tutti i giorni ti uccido, ti uccido.

    Restiamo di fronte come due persiane spalancate. La forza mi cola dal naso, scivola lungo le gambe e forma una pozzanghera a terra. Guardala e mi troverai nudo. Ho la confusione in testa, forse, oppure è una palla, una delle tante che racconto e che mi caccio addosso come una camicia. Ricordi, la vita è un poker. Io bluffo con quattro assi in mano e una carta da cambiare. Butto via un asso. Per questo ti butto via. Non mi ricordo il tuo nome. Non importa. È andata così. Mi è venuto in mente, vedendolo seduto con quella faccia da picio, mi ci sono visto specchiato, quando uscivamo tutti insieme a fare le solite cose. Dio mio, quante palle bisogna mai sgonfiare per restare a galla in questa merda?

    Basta. Guarda le mie mani, saranno ali, o radici, o quel che cazzo vuoi. Guarda il mio viso, sarà un temporale, una cascata. Hai mai sentito la morte che ti guarda? Eravamo a Vigone. Eravamo allegri, si era un po’ bevuto. Mi sono coricato sul terrazzo e c’era davanti a me un lampione. Mi guardava. Duro. Con la sua luce di neon spettrale. Mi sconvolgeva, ’sto cristo. Mi ha sfogliato come un libro. Vedevo quel gran cumulo di niente che sono i miei anni. Male fisico. Vergogna. E lui mi guardava, immobile.

    Bisogna morire prima di nascere hai detto.

    Ma noi siamo già qui…

    Dammi la mano, te la stringo. Voglio fare l’amore con te, ma non ora, non mi sei abbastanza vicina. O lontana, forse. Dammi la mano te la stringo forte, in due non si soffre meglio, né si campa meglio, ma si è due almeno. Ho voglia di carezzarti. Ora lo faccio, guarda, vieni, sfioro la tua pelle il cuscino si piega il lenzuolo cade domani ci sarà ancora la nebbia lo vedo nei tuoi occhi.

    Un sorriso non basta più.

    Ci vuole ormai altro che quattro palle in croce perché venga fuori ’sta volontà fottuta di fare. Che vuoi che ne sappia cosa fare? Così, come oggi mi lavo il muso, domani ammazzo il primo stronzo che mi rompe i coglioni oppure ti sputo negli occhi e ti vomito sulla bocca tutto il mio amoreardoredesideriolibidinepirlaggine.

    Ma ancora ti voglio vicina. Mi costa dirlo. Ma, dio santo, a furia di averti tra le palle, qualcosa c’è. Ti amavo.

    No, non è vero niente. Siamo andati una volta per prati, era aprile o marzo, non ricordo bene. Ti ho parlato di me (mi piace parlare di me) per un sacco di tempo.

    Sono indeciso. Non so più… mi spaventa quello che vorrei fare e così non faccio un tubo di niente.

    Se sto con te è perché non mi capisci, così è come se parlassi da solo, però è meno triste.

    Forse è per questo che ti voglio vicina. Eri l’unica che stava a sentire tutto il casino che ho in testa, senza sentirsi in dovere di dare consigli. Non capirai mai niente. Sei un foglio bianco che io macchio d’inchiostro, il nastro di un registratore.

    Adesso scrivo il tuo nome, Chiara. E ti chiamo Chiara ricordo la tua aria normale, come mettere una mano nell’acqua. La sera in cui mia hai piantato, volevo gridartelo in faccia che mi dispiaceva anche se di te non me ne fregava niente, anzi proprio per questo. Io mi sentivo importante, forte. Ero io il vincitore. Basta. Non si può andare avanti così… e mi baciavi. È finita, è inutile… La decisione era tua, il dolore era tuo. Mia era solo la mano che baciava le tue parole. Un pugno di mosche.

    Sputa ora il tuo silenzio su questo foglio.

    Una vita potrebbe venirne fuori. E va bene vedremo che vita sarà. Sono mattoni forati le parole che scriviamo. L’inchiostro è la calce. Ma noi, dio santo, siamo le fondamenta. Noi con le nostre luride budella e le palle che ci stanno appese al collo. E scriviamolo questo aborto e che tutti ce lo caccino nel culo vedendo di che vuoto siamo fatti. È questo che vogliamo, no?

    Ma tu uscirai pulita di qui. Tu che non mi hai mai voluto perché eri già mia. Lo sei ancora. E lo sarai anche da lontano. Te lo porterai in tasca il gatto spelacchiato.

    Sputa ora il tuo silenzio su questo foglio. E forse domani non ci sarà la nebbia perché non saremo più in ottobre. Ma tu non vuoi. Non vuoi vedere le stupide margherite che sono nei miei occhi. Ma pure sei l’unica cosa bella, forse non bella, vera di cui posso parlare.

    È per questo che a quest’ora sono qui, mentre la sorte aveva dato il mio nome e potrei essere a chiavare con quella bella troia qui sotto. I compagni avrebbero pagato per me. Questi erano i patti. Chi veniva estratto ciulava gratis.

    Sono qui e ti ricordo. Quella volta che abbiamo dormito assieme, sempre a Vigone, stessa sera del lampione. Tutta la notte a parlare. Il bacio che mi hai dato. Lo sento ancora.

    E così sto con lui adesso.

    È la fine dell’utopia è stato tutto quello che sono riuscito a dire. Porca malinconia che ti scioglie gli occhi. Ma non mi è dispiaciuto tanto, in definitiva. Ti amo ancora perché tu sei me. No, forse non ti amo più perché tu non sei me.

    Un altro è andato con la puttana al posto mio. Contento come una pasqua, non stava più nella pelle, non stava più nelle palle, ’sto stronzo. Ma vatti a sfogare, vai che non sai fare altro. Piscia in mezzo alla strada e specchiati dentro.

    È tardi ormai, oggi è già domani e mai niente che si strappi una volta per tutte.

    E tu canta, che io ti senta da qui. Come una civetta o un cuculo o un uccello qualsiasi. Canta le parole che si ammucchiano. Canta le ore che rotolano lungo il fiume. Canta le foglie e il cielo e i cinema di quarta visione. Canta tutte le chiavate di questo mondo, le mie, le tue e quelle di quel picio che va a puttane qui sotto. Canta la nostra rivoluzione privata e gli aborti su scala industriale.

    Canta il silenzio.

    Le carte anche al morto. Giro matto. Giro buco.

    La vita è come il poker, un momento si vince un momento si perde.

    L’allegria raschia la gola insieme al tabacco forte e al giro dei bicchieri.

    Mai smettere. Perché? Per un po’ di soldi che non avrò mai.

    Potrebbe essere la storia qualsiasi di gente qualsiasi. Uno poi si ammazza. Non so come e perché. Ma si ammazza. È una cosa che basta volere. Non occorrono tante giustificazioni. Allora: era un giorno d’estate. No, perché? Era un giorno d’autunno. Foglie per terra. Gli faceva un certo effetto vedere quelle pagine arrotolate ai piedi di alberi immensi, nel centro. Vicino ai semafori. Davanti alle vetrine sfavillanti della Revue. Un cane si fermò a pisciare su una foglia. Annusò il tronco dell’albero e si acquattò strusciandosi contro contro. Il vigile agitava il bastone segnaletico luminoso. Passò sulle strisce. Le mani in tasca giocherellavano con gli spiccioli. Si voltò ancora una volta indietro a guardare il cane. Trovava imbarazzante che in pieno centro un cane facesse i suoi bisogni in mezzo alla strada. Un nano poteva finirci dentro e immerdarsi fino al collo. Ne aveva visto uno il giorno prima. Sono incidenti spiacevoli. Specie d’autunno quando la roba non asciuga.

    Leggo forte atono. Fa ridere il fatto del nano. Ma io trovo che un particolare realistico non vada mai tralasciato o ridicolizzato. Lo dico e tutti mi danno ragione.

    Tutti tranne il cane che si spulcia placido nell’angolo. Cane. Pulci. Denti canini bianchi aguzzi. La cuccia. Il padrone. L’odore del mestruo. Cane.

    È una sera placida, tutto sommato. Grattarsi la pancia. È più piacevole in compagnia che da soli. Anche i cristiani si spulciano ma sono zecche

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