Visioni di contrabbando: Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi
Di Claudio Zito
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Claudio Zito, con la sua profonda conoscenza del cinema iraniano, offre una chiave indispensabile per entrare nell’universo di uno dei protagonisti del cinema contemporaneo.
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Anteprima del libro
Visioni di contrabbando - Claudio Zito
Filmografia
Visioni di contrabbando
Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi
Claudio Zito
VISIONI DI CONTRABBANDO
Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi
Copyritght
© Digressioni Editore - 2020
ISBN: 978-88-944932-5-2
Claudio Zito
Visioni di contrabbando - Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi
Prima edizione: settembre 2020
Nota biografica
CLAUDIO ZITO
Nota biografica
Claudio Zito è nato a Milano nel 1981. È stato tra i primi redattori di Ondacinema.it. Nel 2009 ha presentato al Cineforum del Circolo di Milano il ciclo Il velo sullo schermo, comprendente film di Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Jafar Panahi e Bahman Ghobadi. Da allora, per circa dieci anni è stato membro del comitato organizzatore del Cineforum, dove ha curato rassegne e serate a tema. Ha fatto parte dell’associazione ceCINEpas, un progetto nato con lo scopo di proiettare film non distribuiti. Nel 2016 ha fondato Cinema iraniano blog (cinemairanianoblog.blogspot.com), l’unico portale in lingua italiana interamente dedicato al cinema persiano, a cui sono associati una pagina Facebook, un account Instagram e un canale YouTube.
Indice
Introduzione
1. La vita prima del cinema
2. I primi esperimenti e l'incontro con Kiarostami
3. L’esordio: Il palloncino bianco (1995)
4. A confronto col metacinema: Lo specchio (1997)
5. Diametri dell'oppressione. Il cerchio (2000)
6. Il basso e l'alto della società: Oro rosso (2003)
7. La metà fuorigioco: Offside (2006)
8. In arresto, giudicato, condannato (2009-2011)
9. Non-cinema clandestino: This Is Not a Film (2011)
10. Giù Il sipario. Closed Curtain (2013)
11.Il flâneur urbano. Taxi Teheran (2015)
12. Attrici nel tempo. Tre volti (2018)
13. Bibliografia
14. Filmografia
Introduzione
Mentre negli ultimi anni un cinema iraniano largamente popolare in patria, come quello di Asghar Farhadi, ha conseguito per la prima volta nella storia del paese ben due premi Oscar (per Una separazione, 2011 e Il cliente, 2016), poco resta di un altro tipo di cinema iraniano, amato in Occidente a partire dagli anni 90; vuoi per l'esaurirsi di una certa vena del movimento
, vuoi per le repressioni subite dagli artisti, vuoi – simbolicamente – per la scomparsa nel 2016 del suo esponente più autorevole, Abbas Kiarostami. Tuttavia il migliore allievo di quest'ultimo, Jafar Panahi, prosegue la propria attività incarnando la strenua resistenza di quell'arte preziosa, dapprima più poetica, poi col tempo – e grazie soprattutto a lui – più apertamente sociale, che non merita di scomparire. E che va avanti nonostante difficoltà che risulterebbero insormontabili per chissà quanti colleghi.
Quello di Panahi è un cinema schietto, che ama i personaggi, mai completamente negativi, sempre vittime anche quando vestono i panni dei persecutori. Panahi ben presto autoproduce i suoi film (cercando poi in corso d'opera altri finanziatori), di cui spesso cura personalmente almeno regia, sceneggiatura e montaggio, impiegando attori non professionisti o volti non noti, tranne nel caso di chi nei film interpreta sé stesso, rinunciando alle musiche extradiegetiche e usando i rumori della città come colonna sonora. Produzioni a basso costo che vengono distribuite e viste in tutto il mondo e così non generano perdite economiche. Un cinema autosufficiente, quello di Jafar Panahi; che guarda alla realtà dell'Iran contemporaneo anche nel momento in cui parla di sé stesso: sé stesso autore, ma anche sé stesso cinema. Un cinema sociale ma non politico, come Jafar ama ripetere, poiché l'arte politica non rispetta l'intelligenza dello spettatore e ha una data di scadenza, mentre l'arte sociale è un documento storico: «La politica in quanto tale non m'interessa, mentre le conseguenze degli errori della politica sulla vita della gente sono indubbiamente la materia principale dei miei film.» ¹
E le scelte della politica, per Panahi, comportano dapprima la mancata autorizzazione a realizzare i film che vuole, poi, dal 2010, la condanna a sei anni di carcere e al divieto per vent'anni di fare film, rilasciare interviste, uscire dal paese. ² Una sentenza profondamente ingiusta, a maggior ragione per un autore che ha sempre preferito fare i film in patria – pur senza pregiudiziali assolute verso la trasferte –; che ha contribuito a far grande il cinema del suo paese, restando fieramente nel solco della tradizione dei grandi registi iraniani, donando financo i premi ricevuti nel mondo al Museo del Cinema della sua amata Teheran.
Panahi non è un oppositore preconcetto. Se da un lato considera il regime degli Ayatollah peggiore della dittatura dello scià, poiché più ideologico in quanto teocratico, dall'altro lato prende posizione anche contro le ingiustizie che si consumano altrove nel mondo ed è contrario alle ingerenze straniere nel suo paese. Va inoltre ricordato che da giovane ha assunto posizioni conservatrici, di matrice religiosa. Nel suo percorso di intellettuale integerrimo, che si spezza ma non si piega, si scontra però con le speranze deluse della presidenza del riformista Mohammad Khatami, fautore del dialogo tra le civiltà, già Ministro della Cultura e dell'Orientamento Islamico, spesosi favorevolmente per il cinema, ma il cui approdo allo scranno presidenziale non porta la libertà di espressione che molti artisti si aspettano. È però con il successore, il conservatore Mahmoud Ahmadinejad, in particolare dopo la controversa rielezione del 2009, che la situazione si fa drammatica.
Panahi paga sì la vicinanza ai movimenti di protesta che si susseguono nel paese, ma sconta anche l'aver sempre rifiutato di praticare l'autocensura e di operare i tagli imposti dalla mannaia ministeriale sui suoi film. Una questione di principio, di dignità e credibilità personale, di esempio verso i giovani aspiranti autori.
Certo, per gusto e coscienza, il regista predilige il film d'autore al cinema commerciale. Con risultati di livello assoluto. Merita un libro monografico un cineasta che ha ottenuto oltre quaranta premi in carriera, vincendo i principali festival europei (Locarno, Venezia e Berlino) con l'esclusione di Cannes, dove comunque ben tre suoi film hanno ricevuto un riconoscimento. Da cui l'insinuazione della critica iraniana di fare film ad uso e consumo delle mostre internazionali o per il pubblico occidentale. Accusa da cui l'autore si smarca sottolineando il danno economico subito dalla mancata circolazione legale dei suoi film, ³ che suscitano sempre grande interesse presso i giovani cinefili iraniani – anche perché proibiti, questo è indubbio – che hanno modo di vederli in copie pirata o attraverso la TV satellitare.
Jafar Panahi merita che si parli di lui in un volume che racconti la sua arte. E non solo nelle riviste, in testi sulla censura nel cinema persiano o sui diritti umani in Iran. Pur essendo a suo modo un attivista; nonostante lo scrivere dei suoi film significhi, inevitabilmente, trattare anche questi temi.
A differenza di tanti colleghi connazionali, a partire dal mentore Kiarostami, Panahi è dedito al cinema al cento per cento, con una formazione accademica. Non scrive poesie, romanzi, testi teorici, non dipinge né realizza video-installazioni. Solo in anni recenti, nell'esilio in patria determinato dal divieto di fare film, si è dedicato anche alla fotografia, come ai tempi in cui era reporter di guerra, ma immortalando malinconicamente nuvole in cielo. La sua dedizione alla settima arte lo porta sovente a riflettere sulle potenzialità della stessa, in ossequio a una solida tradizione del cinema iraniano. Questa attenzione verso il metacinema si trasforma in necessità, quando quella che definisce come una funzione vitale, nonché il suo spirito inquieto, lo portano a infrangere il divieto sancito dalla condanna e a lavorare di nascosto, in condizioni proibitive e proibite, per quello che possiamo considerare il terzo (e al momento ultimo) periodo della carriera. Una fase in cui gli viene in soccorso la tecnologia digitale, strumento di emancipazione dai vincoli governativi che stringono il cinema e gli altri media nella Repubblica Islamica.
Possiamo individuare tre fasi nella carriera del regista. Il palloncino bianco ( Badkonake sefid, 1995) e Lo specchio ( Ayneh, 1997) sono opere sull'infanzia; altra tipicità persiana. Il cerchio ( Dayereh, 2000) , Oro rosso ( Talaye sorkh, 2003) e Offside (2006) sono i film sociali della maturità. This Is Not a Film ( In film nist, 2011) , Closed Curtain ( Pardé, 2013) , Taxi Teheran ( Taxi, 2015) e Tre volti ( Se rokh, 2018) sono lungometraggi clandestini di autofiction. Ma ognuna delle opere evolve rispetto alla precedente, non ci sono due lavori simili in una filmografia alla costante, inarrestabile ricerca di novità, ma che al contempo riflette di continuo su sé stessa. Lo specchio è già la critica dell'illusione neorealista de Il palloncino bianco. Il cerchio è una svolta epocale verso una radicalità tematica inedita nel cinema iraniano. Originalità che torna prepotente in Oro rosso, opera sorprendentemente al maschile in una carriera che denota una costante attenzione verso l'universo femminile che ritroviamo, con i toni della commedia