Pasolini: L'uomo che conosceva il futuro
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Anteprima del libro
Pasolini - Marco Trevisan
Marco trevisan
Pasolini
L’uomo che conosceva il futuro
Un docufilm di Marco Trevisan
Una produzione
Diarkos
con il sostegno del
Fondo mondiale per la fratellanza tra falchi e passeri
presentano il film documentario
Pier Paolo Pasolini.
L’uomo che conosceva il futuro
ovvero
Tra biografia e autobiografia
Scritto, diretto e montato da
Marco Trevisan
Con il contributo postumo di
Pier Paolo Pasolini
Musiche di
Bach, Handel, Mozart, Morricone, Coleman Hawkins, oltre a spirituals e canti popolari russi
Attori principali:
Pier Paolo Pasolini
Susanna Colussi
Carlo Alberto Pasolini
Guido Pasolini
Silvana Mauri
Fabio Mauri
Sandro Penna
Alberto Moravia
Giuseppe Ungaretti
Franco Fortini
Antonello Trombadori
Federico Fellini
Francesco Leonetti
Roberto Roversi
Nico Naldini
Elsa Morante
Dacia Maraini
Giuseppe Zigaina
Enzo Siciliano
Alfredo Bini
Franco e Sergio Citti
Ninetto Davoli
Laura Betti
Maria Callas
Anna Magnani
Totò
Silvana Mangano
Pino Pelosi
e molti altri…
Sulle note del Messiah di Händel, mentre scorrono scene tratte dai suoi film, una voce legge:
La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica solitudine, che è la mia debolezza.
Pier Paolo Pasolini
Soltanto solo sperduto muto a piedi riesco a riconoscere le cose.
La solitudine è la cosa che amo di più.
Pier Paolo Pasolini
Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale:
la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me.
Me la sono sempre vista accanto come un nemico,
non me la sono mai sentita dentro.
Lettere di PPP a Silvana Mauri, 10 febbraio 1950
Era staccato dalle vicende umane, come un dio
che non può intervenire e si limita a guardare
le cose mentre prendono il corso loro destinato.
Fabio Mauri
L’opera di Pasolini può essere insomma considerata
come una grande performance.
Carla Benedetti
Silenzio. E poi voce fuori campo:
«Pasolini era una di quelle rarissime creature che ogni tanto il Signore manda sulla terra».
Scena uno
Gli ultimi giorni di Pier Paolo Pasolini
Voce di Pasolini sullo scorrere di immagini tratte dalla sua vita privata, da Salò e da La Trilogia della vita:
«Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista».
Voce di narratore:
Il 31 ottobre 1975, il giorno precedente la sua morte, Pier Paolo Pasolini, di ritorno da Stoccolma, fa tappa a Parigi. È ansioso di visionare la versione francese del suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, che sta per debuttare nella capitale transalpina. In quelle poche ore si concede alla televisione francese rilasciando a Philippe Bouvard un’intervista, l’ultima, nel corso della trasmissione Dix De Der, su Antenne 2. Pasolini pare aver fretta e risponde velocemente, quasi distrattamente, spesso con l’occhio all’orologio.
Bouvard: Si sente superato dall’ondata di cinema erotico e pornografico di oggi?
Pasolini: Sì, mi sento superato e a questo punto mi sento addirittura di abiurare dalla mia Trilogia della vita: dal Decameron fino a Le Mille e una notte.
Bouvard: Lei pensa che i cineasti si sono spinti troppo oltre?
Pasolini: No, i cineasti direi di no, forse i produttori di pellicole pornografiche.
Bouvard: Quando uscirà il suo ultimo film che si intitolerà Le 120 giornate di Sodoma, lei crede che scandalizzerà ancora una volta?
Pasolini: Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista.
Bouvard: Il sesso è politica?
Pasolini: Naturalmente.
Bouvard: E la scatologia?
Pasolini: Anche la scatologia è politica. Non c’è nulla che non sia politica.
Bouvard: Il cannibalismo?
Pasolini: In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi altri ambienti è un fatto politico metaforico.
Bouvard: Lei crede che sia il modo migliore di sbarazzarsi dei propri nemici politici?
Pasolini: Vede, ho fatto proprio in questi giorni due modeste proposte alla maniera di Swift: ho proposto di divorare gli insegnanti della scuola dell’obbligo e i dirigenti della televisione italiana.
Bouvard: Sono coriacei…
Pasolini: Be’… noi abbiamo buoni stomaci.
Bouvard: Lei ha sempre lo stesso odio dei borghesi e della borghesia?
Pasolini: Non si tratta di odio, è qualcosa di più e di meno. E io devo purtroppo rinunciare a questa specie di odio perché in Italia tutti sono diventati borghesi.
Bouvard: Quando sono i borghesi a dimostrare il successo di un suo film, la rende triste saperlo?
Pasolini: Non succede mai che siano dei borghesi a decretare il successo di un mio film, sono le élite borghesi, cioè quelle a cui io stesso appartengo, e le masse del pubblico che mescolano insieme classe economicamente borghese e classe economicamente povera o proletaria.
Bouvard: Perché oggi non è più un militante?
Pasolini: In quale senso?
Bouvard: Non è più un militante politico.
Pasolini: Lo sono più che mai. Non sono mai stato iscritto a un partito politico. Mi sento un indipendente di sinistra. Ma continuo a militare più che mai.
Bouvard: Prova mai nostalgia per l’epoca in cui a volte la gente la insultava per strada?
Pasolini: Mi insultano ancora.
Bouvard: E le provoca un certo piacere?
Pasolini: Non lo rifiuto perché non sono un moralista.
Bouvard: Quale qualifica professionale preferisce? Poeta, romanziere, dialoghista, sceneggiatore, attore, critico, regista?
Pasolini: Nel passaporto scrivo semplicemente… scrittore.
Bouvard: Perché ha circondato le riprese delle 120 giornate di un tale mistero?
Pasolini: È stato girato con tanto mistero perché è così che si opera bene, nel mistero. Ho cercato di difenderla più delle altre volte perché c’erano dei pericoli immediati, incombenti, niente di speciale…
Bouvard: Cosa intende per pericoli immediati?
Pasolini: L’apparire di qualche moralista che rifiuta il piacere di essere scandalizzato.
Bouvard: Lei evoca nel suo film una repubblica fantoccio che sarebbe stata instaurata in Italia durante la guerra. Voleva ricordare il regime di Vichy in Francia durante l’occupazione?
Pasolini: Si, è esattamente l’equivalente della repubblica di Vichy.
Bouvard: Dove era instaurata?
Pasolini: Nell’Italia del nord. E aveva come capitale Salò. Infatti il titolo del film è Salò.
Bouvard: Chi era stato ad instaurarla?
Pasolini: Mah, credo Mussolini stesso, obbligato a questo, spinto a questo dai nazisti.
Bouvard: Pensa che sia stata l’epoca della grande decadenza?
Pasolini: È stata la decadenza del periodo hitleriano, ma certamente non quella del grande capitalismo occidentale.
Bouvard: Si sa che in questo film un centinaio di ragazzi e ragazze vengono sottoposti a trattamenti particolarmente crudeli e violenti, a supplizi, e anche a quegli oltraggi di cui è difficile pensare peggio: come è riuscito a scritturare questi cento ragazzi e ragazze?
Pasolini: Per la verità io ho seguito i numeri che per De Sade sono magici. Cioè il numero 4, e le vittime sono in tutto una ventina, non un centinaio. Per sceglierle ho semplicemente fatto come per tutti gli altri film: ho incontrato migliaia di persone e ho scelto quelli che mi sembravano ideali.
Bouvard: Sono attori masochisti?
Pasolini: Se li ho scelti significa che lo sono.
Terminata l’intervista riparte subito da Orly per Roma, dove giunge in serata.
Era giunto a Parigi da Stoccolma, dove si era recato il 27 ottobre su invito di Lucia Pallavicini, direttrice dell’Istituto italiano di cultura, per una serie di incontri, proiezioni e dibattiti. Quando gli era stato chiesto che cosa ne pensasse del Nobel assegnato quell’anno a Eugenio Montale, aveva risposto che sarebbe stato più giusto assegnarlo al suo amico Sandro Penna, poeta altrettanto grande ma meno celebrato, e forse destinato restare «un poeta emarginato, non conosciuto, magari disprezzato».
Erano in programma diverse proiezioni dei suoi lungometraggi, da Accattone a Il fiore delle Mille e una notte, pellicola dell’anno precedente. Pasolini avrebbe partecipato all’evento e speso due parole sul suo film di imminente uscita, Salò, di cui già si parlava con grande scandalo negli ambienti culturali internazionali. C’era attesa per quell’opera, così misteriosa, di cui erano stati lasciati trapelare soli particolari scabrosi. Si diceva fosse un film scioccante, al limite del tollerabile per le scene di violenza e di sesso che conteneva. Ma Pasolini e la produzione avevano fatto di tutto per mantenere il più assoluto riserbo. Inoltre, Le ceneri di Gramsci, il suo più importante volume di poesie, era stato appena tradotto in svedese.
Durante la prima serata, Pasolini fu intervistato dal critico teatrale Ulla-Britt Edberg, che in seguito così ricordò l’episodio. «Di solito riesco a far aprire le persone, ma lui era come di sasso, senza un gesto, completamente inespansivo. E quegli occhi erano come due biglie di vetro nero, ma morbidi dietro le lenti scure. Non sembrava annoiato, e chiaramente non c’era riluttanza a rispondere; era semplicemente immerso in se stesso».
La sera seguente lesse alcune sue poesie, poi rispose alle domande del pubblico. «Non si poteva fare a meno di essere colpiti dalla mitezza delle sue maniere» raccontò la Pallavicini rievocando quella serata, «così pazienti, così in contrasto con la violenza dei suoi film, come quello che stava finendo allora di doppiare. La sua visita fu un successo».
Bengt Holmquist, letterato svedese e diplomatico di lungo corso morto nel 1993, dopo averlo incontrato durante una di quelle memorabili giornate, così lo ricordò nel necrologio scritto per il quotidiano «DN» («Dagens Nyheter») il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Pasolini: «Per avere un equivalente si dovrebbero immaginare Sartre, Böll e Bergman nella stessa persona. Vederlo in azione era di per sé un avvenimento: aveva l’abilità di trasformare ogni sorta di problemi in qualcosa dotato di senso; la semplicità e la lucidità con cui chiariva il più complicato dei fenomeni era sorprendente».
Quando Pasolini chiese di poter vedere un po’ di vita notturna di Stoccolma fu accontentato. Lo portarono in alcuni sex club, niente di speciale. Ne restò deluso. Nel pomeriggio seguente parlò con gli studenti, attenti e sempre pronti nel porre domande provocatorie.
«Nei miei ultimi tre film, Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte» spiegò, «volevo mostrare come per la gente l’erotismo fosse stato una potenza vitale, prima cioè che divenisse quella merce che è ai nostri giorni. I miei film», al contrario di quello che si pensa, «sono antipornografici». Di Salò disse solo che era «ambientato nel 1945 perché la fine della guerra segna l’inizio dei nostri tempi, in cui l’erotismo è pervertito in mercificazione». Aveva concluso l’incontro dichiarando di volersi prendere una pausa dal mondo del cinema per dedicarsi alla letteratura. Ovviamente pensava a Petrolio, che era in piena e turbinosa gestazione. Ma non solo.
La mattina del 31 ottobre, alle 8.55, aveva preso il volo per Parigi-Le Bourget, con l’intenzione di ripartire per Roma quella sera stessa. E così fu, subito dopo l’intervista per l’emittente nazionale francese.
La mattina del suo ultimo giorno, sabato primo novembre, Pasolini pranza con i cugini, la madre e Laura Betti. Nel pomeriggio s’incontra con Furio Colombo, al quale concede un’intervista per «Tuttolibri», inserto culturale della «Stampa», che uscirà l’8 novembre col titolo: Siamo tutti in pericolo, e nella quale dichiara: «Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione e una manovra di borsa, uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso la spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono». E poi conclude: «Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo».
Quella sera, cena nel quartiere di San Lorenzo con Ninetto, la moglie di Ninetto e i due figli della coppia. Poi un buco, il buio, riempito solo in seguito, come vedremo. Probabilmente, ricorda il cugino Nico Naldini, passò davanti ai giardinetti di piazza dei Cinquecento, «sotto le mura delle Terme di Diocleziano che servivano anche da pisciatoio»; qui nota un ragazzo che gli piace, lo adesca e s’imbuca con lui. Il viaggio fino a Ostia, un po’ di sesso in macchina, e poi accade l’inimmaginabile…
Eccoci dunque alla mattina del 2 novembre 1975, allorché il corpo senza vita di Pasolini viene ritrovato sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia da una donna, verso le 6.30 del mattino, vicino a un campetto di calcio. Proprio lì, un anno prima, Pasolini aveva girato alcune scene gioiosamente erotiche del Fiore delle Mille e una notte. Qualche tempo prima, quasi un presagio, aveva scritto parole che ora suonano profetiche: «Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro».
Una prima descrizione scioccante dell’accaduto viene fornita dall’Ansa: «Quando fu trovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e l’altro nascosto dal corpo. I capelli impastati di sangue. La fronte escoriata, lacerata. La faccia nera di lividi, di ferite. Nere di lividi e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito, deviato verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi. Una lacerazione profonda tra il collo e la nuca. Un’ecchimosi ai testicoli, larga, profonda. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato».
Ecco una prima ricostruzione sommaria dei fatti. Qualcuno ha ucciso Pasolini e ha fatto scempio del suo corpo. Il poeta è stato prima percosso e poi schiacciato più volte dalla sua Alfa Romeo 2000 GT Veloce. Una macchina adatta alle sue scorribande. Chi la guidava? Ninetto Davoli viene chiamato a riconoscerlo. Viene arrestato Giuseppe Pelosi, detto Pino la Rana
, un diciassettenne di Guidonia, trovato alla guida dell’auto di Pasolini. Il ragazzo ha precedenti per furto d’auto. Interrogato dalla polizia dichiara di essere stato adescato quella sera da Pasolini dalle parti della Stazione Termini, presso il Bar Gambrinus, in piazza dei Cinquecento. Pasolini gli avrebbe promesso ventimila lire se si fosse appartato con lui.
Al processo Pelosi racconterà che si trovava con amici. Pasolini si era avvicinato e aveva scelto lui. Lo aveva portato in trattoria, da Biondo Tevere (il poeta aveva preso solo una birra), nei pressi della basilica di San Paolo. Poi si erano diretti verso Ostia, e si erano infilati in via dell’Idroscalo, dove c’erano un campetto da calcio e la spiaggia. Dopo un primo rapporto sessuale in macchina, Pelosi era sceso per fare due passi, Pasolini lo aveva seguito e aveva preteso di avere un rapporto sessuale di tipo particolare. Al rifiuto del ragazzo di sottostare a quella richiesta sarebbe scoppiata una lite feroce. «Io intendevo solo fare il maschio, ma comunque volevo vedere che reazioni avrei avuto ad avere rapporti con un uomo o se mi avesse fatto schifo» dichiarò Pelosi ai giudici. Pasolini lo avrebbe minacciato con un bastone. Il giovane lo avrebbe raggiunto all’inguine con un calcio, gli avrebbe strappato di mano il bastone e avrebbe colpito Pasolini ripetutamente, folle di paura, fino a farlo stramazzare al suolo, agonizzante ma ancora vivo. A quel punto Pelosi sarebbe fuggito a bordo dell’auto dello scrittore. Manovrando in preda all’agitazione, avrebbe travolto più volte con le ruote Pasolini, steso a terra, fracassandogli la cassa toracica, facendogli scoppiare il cuore. Peccato però che, come notò subito la polizia e come fu evidenziato durante il processo, gli abiti di Pelosi non fossero affatto sporchi di sangue. E che lui stesso non mostrasse particolari ferite né escoriazioni.
Due settimane dopo il delitto, Oriana Fallaci fa uno scoop pubblicando su «L’Europeo» un articolo che contiene rivelazioni sorprendenti. A uccidere Pasolini sarebbero stati almeno in tre e si sarebbe trattato di una rapina finita male. I giovani non avrebbero avuto alcuna intenzione di uccidere lo scrittore. «Je volevamo solà er portafoglio».
Viene fuori anche che alcune persone che abitano nelle case abusive di via dell’Idroscalo hanno sentito rumori, grida, invocazioni di soccorso, probabilmente Pasolini agonizzante che chiede aiuto.
Ma questa versione non viene tenuta nel debito conto.
Pelosi verrà condannato in primo grado per omicidio volontario in concorso con ignoti. Il 4 dicembre 1976 la Corte d’Appello confermerà la condanna, escludendo però ogni riferimento al concorso di altre persone nell’omicidio. Idem in Cassazione.
Infinite le polemiche scoppiate alla lettura della sentenza e proseguite negli anni seguenti. Almeno quattro i tentativi di far riaprire l’inchiesta per gettare luce sull’accaduto. Polemiche non ancora sopite.
Trent’anni dopo, durante una trasmissione televisiva su Rai Tre, lo stesso Pelosi, tornato in libertà, fornirà un’altra versione accusando degli sconosciuti dall’accento meridionale.
Ma su tutto questo torneremo.
«La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui» dichiarerà a caldo Alberto Moravia, che lo conosceva bene e al quale era legato da amicizia. «Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci; dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile».
In occasione dell’orazione funebre in memoria di Pier Paolo Pasolini pronunciata il 5 novembre 1975, lo stesso Moravia userà parole tonanti, la voce increspata dalla commozione: «Con la morte di Pier Paolo Pasolini abbiamo perso prima di tutto un poeta. E di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe essere sacro».
Con lui muore uno dei più influenti e contestati intellettuali del XX secolo. Poeta, romanziere, critico letterario, saggista politico, sceneggiatore e regista, Pier Paolo Pasolini è stato una delle personalità più poliedriche ed eminenti della cultura nel dopoguerra.
La sua morte e lo strascico di polemiche che ne seguì sembrano vaticinati, presagiti da Pasolini stesso anche in una sua celebre poesia inclusa nella raccolta Poesia in forma di rosa, edita da Garzanti nel 1964, dedicata agli italiani e alla loro secolare indifferenza a tutto:
L’intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Un sinistro presagio, dicevamo, un evento quasi atteso e temuto, soprattutto dopo la serie di micidiali articoli giornalistici usciti nel periodo 1972-1975, tra cui quello del 28 agosto 1975 su «Il Mondo», intitolato Bisognerebbe processare i gerarchi DC (poi incluso in Lettere luterane), nel quale chiedeva che venisse messo sotto processo l’intero vertice della Democrazia cristiana (con l’eccezione di Moro e Zaccagnini); e quello celeberrimo apparso sul «Corriere della Sera» il 14 novembre 1974, intitolato Cos’è questo golpe? (in seguito apparso come Il romanzo delle stragi in Scritti corsari, volume uscito postumo):
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe
(e che in realtà è una serie di golpe
istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […]
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum
. […]
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere…
Un destino che pareva scritto? Certamente no. Nessun destino è mai scritto in anticipo. Siamo noi a immaginare che sia così.
Scena due
Infanzia errabonda
Voce di Pier Paolo Pasolini, che riporta molte delle cose raccontate a Dacia Maraini, in occasione di un’intervista comparsa su «Vogue»,