Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La Spina dorsale del Diavolo
La Spina dorsale del Diavolo
La Spina dorsale del Diavolo
E-book387 pagine5 ore

La Spina dorsale del Diavolo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Per ogni cosa c’è il suo momento. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per gioire e un tempo per uccidere. Dio giudicherà il giusto e l’empio, perché c’è un tempo stabilito per ogni cosa.»
Ecclesiaste, 3.
Tre religiosi brutalmente assassinati, una casa per donne bisognose in un Monastero traboccante di segreti, una croce, uno spietato serial killer. E un bianco Natale.
LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2020
ISBN9788855390705
La Spina dorsale del Diavolo

Correlato a La Spina dorsale del Diavolo

Titoli di questa serie (59)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La Spina dorsale del Diavolo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La Spina dorsale del Diavolo - Stefania Alessandra Napoli

    Stefania A. Napoli

    LA SPINA DORSALE DEL DIAVOLO

    EEE - Edizioni Tripla E

    Stefania A. Napoli, La spina dorsale del diavolo

    © Edizioni Tripla E, 2020

    ISBN: 9788855390705

    Collana Giallo, Thriller & Noir, n. 32

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi. Questo libro è un’opera di fantasia. Qualsiasi analogia a fatti o persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

    Cover © Can Stock Photo / 4774344sean

    Dedicato alle persone che aiutano chi ha più bisogno, con amore, giustizia e dedizione.

    CAPITOLO 1

    Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso.

    Genesi, La Creazione

    «Alex, chiudi tu? Devo scappare a prendere Andy da mia madre e sono già in ritardo!»

    Lorraine ‘Lora’ Hatley, mia collega e amica, nonché titolare del Lora Hatley Dance and Pilates Studio di Gilroy in cui lavoro adesso, sistema il morbido cappello cloche di feltro color lavanda sui lunghi capelli argentati e si appresta a uscire dalla sala corsi, ma si ferma, torna indietro e mi abbraccia: «Buon Natale, tesoro».

    «Grazie, Lora, anche a te, e a Jacob e Andy.»

    «A proposito, che programmi hai per il 25?»

    «Niente di che, pensavo di pranzare a casa, poi forse vedo Lucas.»

    «Come procede la vostra liaison amoureuse

    Sorrido, infilo le sneakers colorate e accompagno Lorraine all’uscita della palestra: «Insomma... Luc è un po’ noioso».

    «Lo dicevi anche di Danny, di Richard e dell’altro tizio, quello pelato con il naso grosso.»

    Rido questa volta e le ricordo il nome: «Jeff».

    «Sì, esatto, Jeff. Alex, quella con Lucas è la terza relazione che rischi di mandare all’aria da quando tu e Scott vi siete lasciati. Non dai modo agli uomini di conoscerti, li tieni a distanza e loro poi si stufano.»

    «Beh, magari nemmeno io sono così interessante» ironizzo, ma lei ribatte seria: «Non è vero. È che da dopo quella faccenda, tu...»

    Lorraine sa troppo e io sto cercando di dimenticare, quindi la interrompo: «Vai, fai tardi da tua madre».

    «Va bene, ti chiamo dopo. A Natale ti aspettiamo da noi per pranzo, con Lucas.»

    Rispondo al tendenzioso invito con una smorfia di insofferenza e Lora scuote la testa in segno di disapprovazione, mi saluta di nuovo e si affretta all’uscita.

    Rientro in sala e mi guardo attorno. È passato poco più di un anno dalla carneficina di Lansing¹. È stata durissima riadattarsi alla normalità e infatti non ci sono riuscita del tutto.

    Il giorno dopo essere tornata a Gilroy, California, il 28 novembre del 2015, ho rassegnato le dimissioni dalla polizia nonostante la strenua opposizione del mio capo, il Tenente Denise J. Gardner, secondo cui la mia scelta era stata presa sulla scia di un’ondata emotiva generata da una sorta di sindrome da stress post traumatico.

    La mia ostinata decisione non è stata influenzata neppure dalla revoca della sospensione per disobbedienza aggravata nei confronti del Tenente Michael Collins, responsabile del Major Crimes Section², la task force di Atlanta incaricata dell’indagine denominata il ‘Ladro di bambine’, la drammatica vicenda che ha cambiato me e la mia vita per sempre.

    Nonostante ci fossimo ripromessi di restare in contatto, non ho più avuto notizie di nessuno dei colleghi con cui ho lavorato all’epoca. E per ‘nessuno’ intendo in modo particolare John Riley, lo scorbutico e carismatico senior detective che ho affiancato durante il caso e per cui ho perso la testa praticamente dal primo giorno.

    Come tutte le donne innamorate e non ricambiate, ho cancellato il suo numero dalla rubrica del mio smartphone per sfuggire alla tentazione di chiamarlo, sperando che magari, forse, si sarebbe fatto vivo lui, ma non è successo. Confesso però di essermi tenuta aggiornata tramite Denise, divenuta la mia spia inconsapevole. Riley ha ottenuto la promozione a Tenente in virtù del suo coraggio e della sua temerarietà, gli è stato perfino offerto l’incarico di Collins alla guida del Major Crimes, ma il poliziotto ha inspiegabilmente rifiutato entrambe le proposte senza fornire una motivazione precisa.

    La mia idea di mettere nero su bianco quanto accaduto durante il caso del ‘Ladro di bambine’ è rimasta e ha preso forma, e questo ha aiutato se non altro a sfogare e a metabolizzare. Tuttavia, ho deciso di tenere per me il racconto di quegli incredibili, terribili e intensissimi nove giorni. Perché scrivendo ciò che era successo, ciò che avevo trovato e perso, mi sono resa conto che l’unico modo per andare avanti era chiudere con il passato, completamente, e dimenticare.

    Solo Lorraine sa tutto, anzi, troppo, come vi accennavo. Non ho mai avuto molte amiche, un po’ per il mio carattere non particolarmente estroverso, un po’ per l’effettiva difficoltà di inserimento qui in California, e Lora è stata un toccasana. Mi ha letteralmente trascinata fuori dall’appartamento in cui mi ero rintanata a leccarmi le ferite e, spalleggiata dal suo compagno Jacob, mi ha presentato alcuni suoi simpatici amici.

    Ho dato il via a relazioni che sapevo essere senza sbocco fin dal primo momento, sperando mi aiutassero ad allontanarmi da quelle sensazioni meravigliose e spaventose, talmente violente da lasciarmi un enorme senso di vuoto quando tutto è finito. Ha funzionato, ma solo per poche settimane, nel caso migliore, Jeff e il suo nasone, addirittura per quasi tre mesi.

    Sì, è vero, ho usato quegli uomini, e ho sprecato me stessa e il mio tempo con persone di cui in fondo non mi importava granché. Però, sapete, è molto difficile rialzarsi dopo una caduta rovinosa e a volte le provi tutte. Poi capisci che le stampelle sì ti tengono in piedi, ma ti impediscono di riprendere a correre.

    A ogni modo, dopo le dimissioni dalla polizia e a dispetto dei miei 43 anni suonati, sono tornata al mio vecchio lavoro e amore: insegno Danza Jazz e Pilates qui da Lora, e Yoga da Anytime Fitness, noto centro sportivo a Morgan Hill, a poche miglia da Gilroy. La mia vita ha ripreso i suoi ritmi tranquilli, cadenzati dagli orari delle lezioni e dalle passeggiate con Charlie, il mio indemoniato barboncino nano.

    È il 23 dicembre e sono in attesa che gli allievi di Pilates escano dallo spogliatoio dopo aver terminato l’ultima lezione prima della pausa natalizia.

    Verifico la presenza delle chiavi della palestra nella tasca interna della mia shopping bag rossa, spengo lo stereo e mi accorgo di aver lasciato aperta una delle tre finestrelle a ribalta posizionate in alto sul muro sabbiato giallo ananas. Recupero la sbarra di metallo che mi serve per chiuderla e mi sposto in fondo alla sala, ma mi blocco a mezz’aria.

    «Ciao, Gilroy.»

    Il cuore schizza in gola, lo stomaco si sigilla all’istante e un brivido improvviso mi attraversa da capo a piedi. Era un anno che nessuno mi chiamava più così. Anzi, soltanto lui lo fa.

    Abbasso lentamente il bastone e mi volto: «Oh mio Dio...»

    «Dai, non esagerare, sono solo io.»

    Scoppio a ridere come non mi capitava da una vita, e freno inopportune lacrime di emozione e commozione.

    John Riley entra nella stanza, le dita delle mani forti e quadrate intrecciate dietro la schiena, l’abituale sorrisetto ironico dipinto sulle labbra asimmetriche, l’immancabile gomma da masticare in bocca: «Quindi è qui che ti eserciti a sparare, adesso. Dovrai fare attenzione agli specchi» accenna all’asta di metallo che stringo ancora. «O ti sei convertita alle armi bianche?»

    Rido di nuovo, chiudo la finestra e rimetto il bastone al suo posto: «Come mi ha trovata?»

    «Sono uno sbirro, è il mio mestiere rintracciare la gente. Comunque, non è stato difficile, eri una ballerina, in questa micro città avete un’unica scuola di danza... Due più due fa sempre quattro, è inevitabile, ricordi?»

    Sì, lo ricordo eccome.

    «Perché è a Gilroy?»

    «Passavo dalla California e ho sentito parlare del vostro famosissimo Festival dell’aglio. Non potevo perdermelo.»

    «Beh, è un po’ in anticipo, detective Riley, il Festival inizia tra sette mesi.»

    Lui sorride e le rughe che tagliano verticalmente le sue guance si accentuano rendendolo perfino più sexy: «Lo sai come sono fatto, no? Voglio sempre arrivare per primo».

    Riley non è cambiato. Ho pensato ogni giorno degli ultimi tredici mesi a lui, a quel bacio di addio così intenso. Mi rendo conto che i miei sentimenti per lui sono gli stessi e che in fondo non è cambiato proprio niente. O quasi.

    «Hai tagliato i capelli.»

    Sfioro il mio carré asimmetrico, decisamente più vermiglio e corto dell’anno scorso (e di quanto avevo chiesto alla mia parrucchiera), e mi giustifico: «Le parrucchiere hanno questo vizio di decidere loro il tuo styling...»

    «Styling? Cristo, avevo quasi scordato il tuo linguaggio impeccabile, ma stai bene, mi piace.»

    Arrossisco, come mi capita solo con lui: «Anche lei è in gran forma».

    Riley assesta un paio di colpetti sullo stomaco leggermente sporgente e sospira: «Naaa, devo ancora perdere quei dannati quattro chili».

    Non è vero. Nonostante i capelli, il pizzetto e la barba di due giorni un po’ più grigi, e qualche segno del tempo più profondo sul viso a diamante, per me lui è sempre bellissimo.

    «Gilroy, hai due minuti?»

    «Certo! Ho finito lezione proprio ora.» Sbircio i numeroni neri dell’orologio a parete che segna le 8.22 di sera: «Se non ha impegni e non ha già cenato, potremmo mangiare assieme... insomma, se le va».

    «In aereo mi hanno rifilato un dannato panino che avrà avuto 30 anni, con del tacchino anche più vecchio di lui, ma bevo volentieri qualcosa.»

    Mi scopro emozionatissima, le mie mani tremano visibilmente quando recupero la borsa, e infilo la giacca e lo scaldacollo nero.

    John Riley invece è perfettamente a proprio agio, come sempre: «E dimmi, Gilroy, dove si va a Gilroy quando si vuole uscire un po’?»

    «Di solito frequento il...»

    «O hai impegni? Magari con Mr. Perfezione.»

    Sorrido e ignoro la frecciatina al mio perfetto ex fidanzato architetto: «Non vedo Scott da un po’». Riley annuisce e io riprendo: «C’è un locale carino, Mimi’s Bistrò, a pochi minuti da qui».

    «Ok, vada per Mimi.»

    «Alex, che testa che ho! Ho scordato di lasciarti la...» Lorraine si ferma sul limitare della porta della sala e ci scruta incerta. «Oh, scusa, non sapevo che fossi in compagnia...»

    «Non fa niente, Lora. Ti presento John Riley, è arrivato poco fa da...»

    Ma lei mi interrompe sorpresa: «Quel John Riley?»

    Le lancio un’occhiataccia che lei prima mi restituisce e poi rilancia su di lui: «Incredibile come vola il tempo! Ci ha impiegato addirittura un anno a dare sue notizie e intanto Alex aspettava una...»

    «Scusa, Lora, ma tu non stavi andando da tua madre?»

    Un lampo di rimprovero attraversa i suoi occhi grigi e distanziati: «Sì, Alex, ora me ne vado. Ho dimenticato di lasciarti la gratifica natalizia» estrae dalla borsa a tracolla verde una busta e me la mette in mano. «Tieni, tesoro, te la sei meritata» e si rivolge aspra a Riley: «Lei forse non ne è al corrente, Signor Riley, ma Alex Ricci è una ragazza meravigliosa, una lavoratrice creativa e instancabile, qui tutti la adoriamo. Ha una fila di uomini che...»

    La blocco di nuovo: «Lora, Andy ti aspetta».

    La mia amica (anzi, a questo punto, la mia convinta PR) sospira: «Chiamami appena ti liberi». E saluta Riley con lo stesso tono secco di poco fa: «Buon Natale e soprattutto buon ritorno ad Atlanta».

    Lui stranamente risponde con un pacato: «Buon Natale, Signorina». La osserva uscire, poi la indica con un cenno della testa e commenta: «Alla faccia dell’accoglienza californiana. O ce l’ha proprio con me?»

    «Cosa?! No! Non la conosce nemmeno! E io non le ho mai parlato di lei! O meglio, ecco, soltanto un paio di volte, un accenno, ma, insomma, solo cose positive.» Sospendo il mio imbarazzante sproloquio prima di aggravare ulteriormente la mia posizione: «Meglio sbrigarci, qui alle 9.30 di sera i locali chiudono».

    Spengo le luci, chiudo il portoncino della palestra e abbasso la serranda elettrica. Ricordo ai miei allievi persi in chiacchiere davanti al cancello che i corsi ripartono il 10 gennaio e saliamo sulla mia piccola Toyota rossa parcheggiata sulla Monterey Road.

    Durante il miglio scarso di viaggio che ci conduce al bistrò non smetto di parlare a causa dell’agitazione, di banalità per lo più. Infatti, quando fermo l’auto nello slargo di fronte all’insegna rossa del Mimi’s Bistrò & Cafè, Riley è al corrente dei recenti problemi intestinali di Charlie e della detartrasi a cui l’ho costretto la scorsa primavera.

    Scendiamo dalla macchina e ci avviamo al locale, Riley apre il portoncino dogato azzurro e si ferma per lasciarmi entrare. Passandogli accanto sento il suo profumo fresco, speziato e avvolgente, e mi ritrovo catapultata a un anno fa, per la quarta volta in venti minuti.

    Occupiamo un tavolo d’angolo dell’accogliente risto-bar illuminato da scintillanti faretti incassati nel soffitto e addobbato con decine di luci colorate, candele e un grande abete accanto alla porta. Non è affollato stasera, i Gilroyani saranno tutti a casa ad allestire presepi, alberi di Natale e a organizzarsi per il cenone della Vigilia.

    Togliamo le giacche e quando Riley prende posto accanto a me, il mio cuore inizia a galoppare e le mie mani riprendono a tremare per l’emozione.

    Le infilo sotto le gambe per evitare che lui se ne accorga, ma mi sa che non funziona.

    «Hai freddo, Gilroy?»

    «Io? No.»

    «Allora perché tremi?»

    «Non sto tremando» appoggio le mani sul tavolino a rischiosa testimonianza della mia fraudolenta dichiarazione, e Riley osserva le mie unghie corte e trascurate. «Che ne è della tua perfetta french manicure

    «Era troppo scomoda per ballare.»

    «Per catturare criminali invece era indispensabile...»

    Prima che possa ribattere al pungente sarcasmo del poliziotto, ci raggiunge con passo spedito Brandy Taylor, la leziosa cameriera del locale. La conosco da quando mi sono trasferita a Gilroy e non sono mai riuscita a stabilirne l’età. Potrebbe avere 40 anni come 60, capelli rosa marshmallow cotonati, push up di pizzo viola in bellavista, trucco pesante, e più che masticare, rumina un chewing gum.

    Posa i menù plastificati sul tavolo, ammicca a Riley e si rivolge a me con il suo tono caramelloso: «Ciao, angelo. Vi avviso che la cucina è già chiusa, Chef Fayed è andato a casa un po’ prima. Come vedi questo posto è un mortorio stasera».

    «Oh, non c’è problema, non ho molto appetito.»

    «Va bene, stellina. Cosa vi porto da bere?»

    «Io prendo il mio bicchiere di Chardonnay, grazie.»

    Brandy scrive l’ordinazione sul taccuino e si concentra sul mio commensale: «Tu, amore?»

    «Per me una birra bionda.»

    «Ok, biscottino. Abbiamo Honey Blonde, Guinness Draught, oppure...»

    «Sorprendimi.»

    Scusate, è una mia impressione o Riley sta flirtando con lei? Davanti a me?!

    Brandy, che inizia a starmi enormemente sulle scatole, sorride languida e mette più in mostra le sue due voluminose grazie: «Chi è il tuo affascinante amico, Alex?»

    «Il Signor Riley.»

    E lui si alza in piedi: «John, e sono onorato di conoscerti».

    No, non è una mia impressione. Sta flirtando. Incredibile! Eppure sa bene che io...

    - Lasciamo stare.

    Sì, il mio disincantato lobo frontale ha ragione, lasciamo proprio perdere.

    La cameriera sorride di più, se possibile: «Piacere tutto mio, John. Io sono Brandy, come il liquore».

    Sorride anche lui e io... non so cosa mi prenda: «Mi scusi, Brandy, vorremmo avere da bere prima dell’arrivo dei Re Magi. Le dispiace?»

    Si voltano entrambi sorpresi verso di me ed è evidente che Brandy si è offesa, quindi cerco di rimediare: «Ecco, il Signore è stanco, è appena arrivato dalla Georgia...»

    Ma lei replica secca: «Sì, vi porto subito le bevande» e si allontana sculettando allegramente seguita dallo sguardo attento di Riley a cui spaccherei volentieri la testa.

    Invece gli sorrido: «Allora, come va ad Atlanta?»

    Il poliziotto sospende la minuziosa analisi delle massicce natiche a mandolino di Brandy, insalsicciate in un paio di attillati pantaloni animalier e risponde: «Nella norma. Ah, Harris e Moore ti salutano».

    «Oh, grazie! Ricambi, per favore, quando li vede. Come stanno?»

    «Bene, i soliti imbecilli.»

    Rido questa volta e domando: «E la detective Baker?»

    «Stronza come sempre, ma se li sgranocchia a colazione gli altri due.»

    «Sì, è una poliziotta in gamba.»

    «Yep, la migliore. Peccato per il carattere di merda che si ritrova.»

    «È ancora innamorata di lei?»

    «Ma va. Jodie non si innamora mai di nessuno. Le piace trombare e io gravito nel suo raggio d’azione, tutto qui.»

    Rido di nuovo e obietto: «Non è vero, è pazza di lei».

    Riley sorride e scuote la testa, e io mi rendo conto che mi manca Atlanta.

    Strano, vero? Quando un anno fa sono arrivata nella capitale dello ‘Stato delle pesche’ non vedevo l’ora di scappare dal suo clima afoso, dal traffico congestionato, dalle battute sessiste dei poliziotti maschi del Dipartimento e dalle continue provocazioni dell’unica detective donna del team, Judith Baker. Invece adesso ho nostalgia di tutto, perfino di loro.

    Non ci voglio pensare e svio il discorso: «Sua moglie e i suoi figli stanno bene?» Riley lo tronca: «Tutto ok».

    E io lo cambio di nuovo: «Ho saputo che le hanno offerto il posto del Tenente Collins alla direzione dell’MCS³».

    «Che fai, Gilroy, mi spii?» scherza. Poi continua, più serio: «Non sono fatto per quelle stronzate, sai, stare in ufficio, coordinare gli sbirri veri, quelli che si spaccano il culo sulla strada...» e arriva al dunque con calcolata noncuranza: «A proposito, stiamo seguendo un caso, abbiamo bisogno del tuo aiuto».

    «Del mio aiuto? Io non so come...»

    «Ci servi, Gilroy.»

    «Ma io non...»

    «Ascolta, hai sentito parlare del Cross killer

    L’assassino della croce. Ne hanno dato notizia tutti i giornali settimane fa: una suora e un prete cattolici sono stati uccisi ad Atlanta.

    Lei lavorava in una delle Catholic Charities, una rete di istituti di beneficenza sparsi per gli Stati Uniti, ce n’è uno anche nella mia Contea. Il sacerdote invece era un alto prelato dell’Arcidiocesi di Atlanta. Entrambi i religiosi sono stati strangolati con una corda e sul loro petto è stata incisa una figura a forma di croce. Questa storia ha provocato parecchio scalpore, ma sapendo che era accaduta ad Atlanta ho cercato di tenermene fuori più possibile, quindi non ne ho seguito gli sviluppi.

    Torno ad ascoltare Riley che precisa: «Abbiamo bisogno di qualcuno che reperisca informazioni dall’interno».

    Non capisco. Dall’interno di dove? Ma non ho il tempo di chiedere chiarimenti perché il detective aggiunge: «E chi meglio di una ragazza cattolica, con l’aria angelica e lo sguardo ingenuo, che sa quasi tutto sul criminal profiling⁴?»

    «Sinceramente, non credo proprio di conoscere così tante...»

    Questa volta a interrompermi è l’indiscreta comparsa di Brandy con un vassoio e le nostre ordinazioni.

    A momenti mi scaraventa contro il calice di Chardonnay, poi, sorridendo, appoggia con cura il boccale di birra e un piatto di nachos ricoperti di formaggio fuso di fronte a Riley che ne infila in bocca una manciata e le strizza l’occhio.

    Lei si scioglie subito e gli indirizza un civettuolo bacetto mentre si allontana, e lui beve una sorsata di birra e riprende: «Allora, Gilroy, che ne pensi? Ci dai una mano?»

    «Non sono più un poliziotto.»

    «Sì, bella cazzata che hai fatto.»

    «Non è stata una cazzata! È che non sono adatta a questo lavoro.»

    «Io dico di sì e dico che tu sei ancora uno sbirro.» Pulisce sui jeans scuri le dita unte di grasso del formaggio, estrae dalla tasca della giacca un distintivo argentato a forma di scudo trattenuto dagli artigli di un’aquila, la stessa che troneggia nel centro ad ali spiegate tra le parole Special e Police. Me lo piazza davanti: «Congratulazioni. Sei un SPO del Dipartimento di Atlanta».

    Special Police Officer, agente speciale chiamato a potenziare e coadiuvare le normali forze di polizia in casi particolari, o per determinati periodi di tempo.

    Onestamente non mi ci vedo tagliata, cioè non so davvero come potrei essere utile, e cerco di spiegarlo anche a Riley che però non mi ascolta: «Riferirai direttamente a me e dopo aver risolto questo caso, se vorrai, potrai riprendere la tua carriera ad Atlanta o anche qui a Gilroy».

    «Non so nemmeno cosa devo fare! E poi non so niente di preti, suore, chiese...»

    «Ti forniremo i particolari alla riunione di domani. Il volo è alle 9.00 del mattino.»

    Mi agito subito: «Il volo?! Quale volo?! Per andare dove?!»

    «Torrington, Connecticut.»

    «Cosa?! No, senta, davvero io non... ho il mio lavoro qui!»

    «Credevo fossi in vacanza fino al 10 gennaio.»

    «Da Lora sì, ma nell’altra palestra le lezioni riprendono il giorno dopo Natale.»

    «Avviserai che devi andare via.»

    «Non posso! E il mio cane? A chi lo lascio?!»

    «Non conosci nessuno che se ne possa occupare?»

    «Io... forse, ma... non avete altri poliziotti ad Atlanta?!»

    «Sai come si dice, no? Squadra che vince non si cambia.»

    «Ma se l’ho quasi fatta ammazzare a Lansing!»

    «Stronzate, Gilroy, hai risolto il caso e salvato quella bambina.»

    Inutile, ha una risposta per tutto. E perché mi è così difficile dirgli di no?

    Sospiro e non accampo altre scuse: «Mi dispiace, non posso ritrovarmi più in una situazione come quella di Lansing. Ci ho impiegato mesi per recuperare un po’ di stabilità».

    Riley si sporge verso di me e abbassa il tono: «Lo so, ma stavolta sarà diverso, ok? Non combineremo cazzate, collaboreremo con gli sbirri locali. Sarò un angioletto e mi atterrò servilmente alle disposizioni del Tenente incaricato dell’indagine».

    Scuoto ancora la testa, soprattutto perché non credo a una sola parola, e il poliziotto insiste: «Gilroy, per favore, non sarei venuto fino a qui se non fosse importante».

    Certo, non è venuto ‘fino a qui’ perché io sono importante per lui. Ma scaccio questo pensiero adolescenziale e ricordo a me stessa di smetterla di vivere nelle favole: «Davvero, detective Riley, non posso».

    Lui si lascia andare contro lo schienale della sua sedia, rigira attorno all’anulare sinistro la larga e spessa fede matrimoniale in oro bianco, e commenta infastidito: «Ok. Pazienza. Troverò qualcun altro».

    «Mi dispiace, veramente, è che...»

    «Sì, sì, ok. Non preoccuparti. Mi arrangio» ingurgita altri nachos e mi domanda sarcastico: «Allora, come procede la tua tranquilla, stabile e pallosissima vita?»

    E io sospiro di nuovo, e capitolo: «Qual è l’incarico...»

    Riley sorride compiaciuto per aver raggiunto il suo obiettivo più velocemente del previsto e senza sforzi eccessivi: «Il dossier del caso è nella mia valigia in macchina, ti spiego tutto domattina andando in aeroporto». Solleva il suo boccale: «Brindiamo. Si torna in pista, Gilroy».

    Alzo anch’io il mio bicchiere, arrendendomi a lui e all’insindacabile potere che esercita su di me, da cui non riesco o forse non voglio liberarmi.

    - Non imparerai mai.

    Sono già le 9.40 di sera e siamo rimasti solo noi nel locale, quindi ci rivestiamo e ci spostiamo alla cassa dove Brandy ci attende come un predatore notturno in un pollaio.

    Estraggo il portafoglio dalla mia shopping bag, ma Riley mi ferma: «Lascia stare. Sono in trasferta, ho il rimborso».

    Mentre passa la America Express sul POS, la cameriera si protende talmente tanto oltre il bancone che è un miracolo se non stramazza di sotto: «Ti è piaciuta la tua birra, bocconcino?»

    «Moltissimo, grazie.»

    «Ti ho sorpreso, allora...»

    Il poliziotto infila la carta di credito dorata nella tasca della giacca in velluto marrone e risponde con noncuranza: «Altroché».

    Ma l’assatanata e determinatissima Brandy non molla l’osso e, come si vede nei peggiori filmetti rosa, scrive su una salvietta di carta il suo nome e il numero di cellulare, disegnandoci accanto un cuoricino: «Se ti fermi qualche giorno e hai voglia di conoscere un po’ la nostra simpatica cittadina, bel John, telefonami, ti farò da accompagnatrice».

    Lui prende il tovagliolino e legge le informazioni: «Ti chiamo di sicuro, Brandy».

    Lei batte le mani come una bambina eccitata, io invece sospiro più rumorosamente del dovuto, e trattengo gli insulti che ho in testa e che rivolgerei a entrambi.

    Salutiamo Brandy e il distratto gestore del locale, e usciamo diretti alla macchina.

    Appena fuori, Riley appallottola la salvietta e la getta nel cestino vicino all’uscita. E io sorrido.

    «In che hotel alloggia, Signore?»

    «Gilroy Inn. Certo che ne avete di fantasia con i nomi da queste parti.»

    Vi spiego alcune cose su Gilroy. La mia città è stata fondata dal marinaio scozzese John Cameron che, appena undicenne, scappò di casa e che, per evitare di essere rintracciato, assunse il cognome di sua madre, Gilroy, appunto. Dopo anni e svariate peripezie, John Cameron Gilroy approdò in Alta California, si convertì al cattolicesimo romano e sposò la figlia del ricco proprietario di un ranch presso cui lavorava, ereditando un terzo del possedimento attorno al quale si sviluppò il centro abitato di cui divenne anche il Sindaco.

    Questo è il motivo per cui qui tutto porta il suo nome. Perfino io, da quando conosco John Riley.

    Mentre guido in direzione dell’hotel, il detective mi informa che da Torrington ci sposteremo a Bethlehem, una cittadina del Connecticut con una forte comunità religiosa cattolica. Domani mi spiegherà nel dettaglio il collegamento esistente tra questo posto e Atlanta.

    Pochi minuti dopo aver lasciato Mimi’s, fermo l’auto nel parcheggio deserto del Gilroy Inn, un anonimo edificio color ocra molto vicino al mio appartamento. Riley scende dalla macchina, e io apro il bagagliaio e lo raggiungo mentre recupera la sua valigia.

    Indica l’albergo con un cenno del mento triangolare: «Mi accompagni in camera?»

    «C-cosa?»

    «Non ti va?»

    «Oh, io, io... Certo che mi va! Tantissimo! È che non ero preparata a... insomma... non mi aspettavo che lei...»

    Riley interrompe il mio inconcludente balbettio: «Ok, speravo di essere più discreto, ma lo faremo in macchina» risale sul lato passeggero della Toyota, e io lo seguo incerta e riprendo posto alla guida.

    Fruga all’interno di una tasca laterale del suo trolley nero rigido e ne estrae una pistola: «La tua nuova amica. Ti piaceva tanto questo modello, così me ne sono fatto dare uno uguale».

    Mi porge la Glock 19 semiautomatica, identica a quella che il Dipartimento di Lansing mi ha requisito l’anno scorso. Sorrido sentendone di nuovo il peso tra le mani e devo ammettere che anche questo mi è mancato.

    Non che sia una fanatica dell’uso delle armi, eppure stringerne il calcio, avvertire il contatto con il metallo freddo e levigato mi riporta alle scelte che ho compiuto nella mia vita, mi ricorda perché ho deciso di diventare un poliziotto, demolendo con fatica i muri costruiti dalle mie paure e dalle mie insicurezze.

    «Ci si vede domattina, Gilroy. Passo a prenderti alle 7 precise.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1