L'ideologia politica di Walt Disney
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Anteprima del libro
L'ideologia politica di Walt Disney - Serena Todisco
Serena Todisco
L’Ideologia di Walt Disney
Le verità mai dette su Topolino, Paperino,
Pippo e la banda Disney
Abel Books
Proprietà letteraria riservata
© 2013 Abel Books
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Abel Books
via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
ISBN 9788867520657
INDICE
Premessa
CAPITOLO 1: UN SOGNO LUNGO UNA VITA
1.1 Chi era Walt Disney? Ritratto di un uomo irrisolto
1.2 La vita di Walt Disney
1.3 Le opere di Walt Disney
1.3.1 Cortometraggi
1.3.2 Lungometraggi
1.3.3 Film
1.3.4 Documentari sulla natura
1.4 I ‘classici’ disneyani
CAPITOLO 2: L’ UOMO POLITICO TRA FIABA E REALTA’
2.1 Il pensiero politico di Walt Disney
2.2 Il mondo della fiaba
2.3 Gli eroi disneyani: Topolino vs. Paperino
2.3.1 Topolino
2.3.2 Paperino
CAPITOLO 3: CULTURA DI DESTRA E CULTURA DI SINISTRA NELLA CRITICA DELL’UNIVERSO DISNEYANO
3.1 La critica straniera
3.2 Approfondimenti di critica italiana
Conclusioni
Bibliografia
Premessa
Generazioni di bambini di tutto il mondo sono cresciute assieme ai personaggi creati da Walt Disney: Topolino, Paperino, Pippo e tutti gli altri componenti della banda di Topolinia e Paperopoli sono nomi a noi familiari, che evocano lontani ricordi di una fanciullezza spensierata e felice.
E’ difficile raccontare tutto ciò che Walt Disney ha fatto nel corso della sua vita, per quante cose è riuscito a conquistare, per la forza di volontà che ha dimostrato, per le capacità e la testardaggine con cui ha portato avanti le sue idee, e per la rivincita sulla vita che questo ragazzo di Kansas City
, partito in età giovanissima con pochi spiccioli in tasca, è riuscito a prendersi. Non c’è da stupirsi se una delle sue frasi più celebri fosse: "It’s kind of fun to do the impossible".
Stiamo parlando dell’uomo geniale e intuitivo che ha rivoluzionato il modo stesso di fare cinema, e che con la sua arte ha influenzato in modo determinante la società americana creando uno spazio in cui il gusto, la morale e l’ideologia non potevano che essere condivisi. Un pioniere, un creativo, una tra le menti più fertili e ricche d’immaginazione del secolo appena trascorso.
Tipico borghese del Middle West, Disney nutriva le stesse aspirazioni estetiche degli spettatori originari, rappresentati da due grandi categorie socioesistenziali: la provincia e la borghesia (piccola e media). Ed era questo il pubblico a cui egli si rivolgeva.
In oltre quarant’anni di attività, Disney ha contribuito in maniera decisiva alla creazione e all’affermazione di una nuova arte cinematografica, quella dell’animazione. Fu infatti il primo a pensare di poter convincere gli spettatori di un cinema a guardare un cartoon per la durata di un vero film. E ci riuscì. Grazie a lui Biancaneve e i sette nani ha segnato la svolta dell’industria del cartone animato. Il cinema di Disney risulta perfettamente, logicamente, essenzialmente hollywoodiano: è, a suo modo, basato sullo star system, è teso a confezionare in lussuosi contenitori squisiti ma generici prodotti per folle indifferenziate, è intessuto di stereotipi, clichè, mitologie, luoghi comuni. Il cartoon disneyano è al contempo entertainment e show business. E’ spettacolo puro, qualcosa che può essere fatto con arte, ma che rifugge dall’idea di essere arte. Disney ha sempre lucidamente rivendicato una scelta artigianale, parlando di film concepiti e realizzati per il pubblico infantile, senza ambizioni culturali e senza la pretesa di venir proiettato nelle sale d’essai.
Ma come tutti, anche lo ‘zio’ Walt possedeva alcuni lati difficili, tenuti in penombra. E proprio questi lati oscuri, l’incessante inquietudine, le tante barriere emotive (egli rifiutava ogni visione psicanalitica delle sue opere), si dimostrarono essere la fonte della sua visione artistica così unica.
Walt Disney non è stato solamente il disegnatore per antonomasia, il mago di Burbank, un novello Andersen o l’Esopo del xx secolo, amato da milioni di persone, che nelle sue pellicole hanno potuto riscoprire i valori della semplicità, della famiglia e della lealtà; come molta critica ha evidenziato, dietro la fantasia e l’allegria dei suoi personaggi vi è un aspetto recondito, un messaggio nascosto rivolto al suo pubblico, indistintamente adulto e infantile: dietro al bucolico disegnatore si celava infatti anche un abile uomo d’affari, un self-made man della migliore tradizione americana. L’unicità di Disney risiedeva proprio in quella straordinaria miscela di immaginazione fanciullesca e abilità imprenditoriale.
Per alcuni è stato il Raffaello del cattivo gusto, il distruttore della libertà grafica del cartoon con un realismo affine al cinema ‘dal vero’. Qualcuno è arrivato persino a definirlo un propagandista assai subdolo dell’American way of life, o peggio, dell’ideologia imperialista statunitense a livello planetario. Certo è che risulta estremamente difficile definirne i tratti e la psicologia più profonda.
Scopo di questo lavoro è mettere in risalto uno degli aspetti meno conosciuti della complessa personalità del re di cartoonia
, la sua ideologia politica, anche attraverso l’analisi di alcuni film e dei relativi protagonisti.
Sottolineiamo da subito che su Walt Disney è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Negli anni, da destra e da sinistra, sono piovuti plausi e critiche, volti gli uni ad elogiarlo oltre ogni reale merito, le altre ad evidenziare gli aspetti negativi del suo operato. Il peso ideologico di Disney è stato fortissimo giacchè a lungo, nella coscienza dello spettatore comune, egli venne accettato quale unico modello possibile di cinema d’animazione, come se disegno animato e disegno animato disneyano fossero un’unica cosa. D’altronde fu lo stesso Disney non solo ad accettare ma a corroborare quest’idea, descrivendo e teorizzando il cartoon come se non esistessero o potessero esistere altre forme oltre a quelle da lui modellate. All’interno della propria cornice, l’opera disneyana è comunque imponente e inappuntabile sia dal punto di vista estetico sia da quello teoretico; ma è scontato che in un discorso storico-critico, essa vada ridimensionata e collocata in un contesto più vasto e articolato.
CAPITOLO 1: UN SOGNO LUNGO UNA VITA
Quel last tycoon che nel romanzo di Francis Scott Fitzgerald, usava il pugno d’acciaio negli studios, mentre si struggeva nel cuore per uno sguardo di donna, doveva essere almeno alla lontana imparentato con Walt Disney.
G.Bendazzi
1.1 Chi era Walt Disney? Ritratto di uomo irrisolto
Secondo la testimonianza di coloro che lavorarono con lui, e per lui, Disney fu un very complicated man. Al di là del mito – l’uomo dei sogni, il genio, lo ‘zio’ di tutti i bambini, affettuoso e disponibile, precursore del family entertainment, capo gentile e padre modello, rassicurante guardiano dei valori tradizionali contro un mondo cattivo e corrotto − fu un padrone carismatico, spesso duro e spietato con i suoi dipendenti, soprattutto dopo l’amara esperienza dello sciopero del 1941.
Un cattivo datore di lavoro, a detta dei suoi impiegati, inflessibile e non sempre motivato nelle sue critiche
,(1) che era solito assumere disegnatori giovanissimi e inesperti per poterne giustificare i salari da miseria. Del resto, la gratificazione ‘economica’ più grande doveva essere rappresentata dall’opportunità che dava loro di poter imparare un mestiere in uno Studio come il suo.
Un individuo irascibile e dispotico, rigido ed esigente (negli uffici erano vietati divertimenti, apprezzamenti sessuali, sottintesi maliziosi,(2) parolacce, legami tra colleghi, alcolici), abituato a esercitare il controllo assoluto su tutto e su tutti, e di conseguenza poco incline a concedere spazio ai suoi collaboratori, e ancor meno a dispensare riconoscimenti personali per il lavoro svolto. Per questo motivo Ub Iwerks, disegnatore dal talento eccezionale, socio e amico di Walt, verso la fine degli anni ’20 si vide costretto a lasciare gli Studios. Per di più, Disney non gli riconobbe mai la ‘paternità’ di Mickey Mouse, come testimonia il figlio di Iwerks, Dave:
E’ abbastanza chiaro, adesso, che Mickey era un personaggio di Ub. Anche dagli archivi Disney risulta che fu Iwerks a creare Mickey Mouse, anche se la loro versione è che Walt fosse di fianco a Ub quando lo disegnò per la prima volta. Tutta la storia del treno, […] non è vera.
(3) E quando negli anni ’50 Disney ammetterà di non aver mai disegnato Mickey, non una sola parola a proposito dell’amico di sempre. Nemmeno un grazie.
Un padre-padrone travestito da leader, venerato e temuto dai suoi dipendenti, una guida da seguire e da non contestare mai. Un uomo pieno di contraddizioni, il principio e la fine di tutto. Questo era il più celebre disegnatore di tutti i tempi.
La vision della Disney era Disney stesso: un’azienda fondata su un modello organizzativo accentrato e paternalista, una macchina perfettamente efficiente, dove ogni cosa era rimessa all’ insindacabile giudizio del grande capo Walt: la creatività veniva passata al vaglio dal comitato dei disegnatori storici dello Studio, ma l’ultima parola, ovviamente, spettava a lui. E gli stessi principi che governavano l’azienda erano forme di regolamentazione della creatività. La regola-chiave, seppur in un contesto di finzione, era il realismo; la magia, per funzionare, non doveva essere smascherata, in modo che lo spettatore potesse identificarsi pienamente con la vicenda che stava per seguire.
Disney esigeva una fedeltà quasi ossessiva alle sue direttive; le competenze dei singoli venivano di fatto incanalate all’interno di una struttura molto rigida, per dar vita a quei progetti che in seguito avrebbero consacrato l’immenso successo della sua azienda.
I grandi film per le famiglie venivano prodotti da una squadra molto affiatata che tuttavia doveva rispettare una serie di disposizioni severissime, alle quali era bene attenersi scrupolosamente. E la prima di queste regole era: niente sindacati. Sì, perché ai suoi occhi i sindacati erano una forma di sovversione, e in quanto tali assolutamente inconcepibili. Quando, nel maggio del 1941, i suoi disegnatori avanzarono la richiesta di una rappresentanza sindacale, sostenendola con lo sciopero, Disney interpretò il gesto come un tradimento personale e si rifiutò di trattare con loro, arrivando al punto di ricorrere al crimine organizzato per rafforzare la propria posizione e stroncare sul nascere ogni forma di contestazione.
Suo padre gli aveva insegnato che la lealtà era il banco di prova per misurare il valore delle persone, e lui avrebbe fatto suo questo precetto. I suoi ‘ragazzi’ − Disney era solito appellare affettuosamente i suoi collaboratori in questo modo − erano come figli di una grande famiglia, e disobbedire al pater familias significava commettere un’azione ignobile e immorale. E i colpevoli andavano puniti. Sempre.
D’altro canto, Disney non fu neppure un uomo d’affari nel senso più stretto del termine.
Come imprenditore, si distinse per una gestione manageriale piuttosto fantasiosa, spesso ai limiti dell’irrazionale. Una meticolosità maniacale e l’insopprimibile bisogno di tentare vie sempre nuove e sempre più ardite tennero la società in una continua, difficile situazione d’indebitamento, portandola più volte sull’orlo del fallimento. L’incessante e minuziosa ricerca della perfezione tecnica fu sempre uno dei capisaldi dell’azienda.
Del resto la vera vocazione di Disney fu quella (non rara nel mondo dello spettacolo dell’epoca) del grande impresario-affarista-creatore. Ciò che lo distingueva, e ne faceva emergere la figura, erano il fare deciso, la determinazione con cui perseguiva gli obiettivi prestabiliti. Aveva fiuto e intraprendenza, che uniti a una buona dose di sicurezza e testardaggine, gli permisero di creare dal nulla una delle più potenti multinazionali cinematografiche al mondo. La sua genialità risiedeva nell’inesauribile capacità di reinvestire nelle idee nuove, di anticipare i tempi, "mutando le forme della sua presenza ma lasciando accuratamente intatta la