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L'affare Lerouge
L'affare Lerouge
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E-book320 pagine4 ore

L'affare Lerouge

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Info su questo ebook

Il 6 marzo del 1862, al villaggio della Jonchére, alle porte di Parigi, viene uccisa Claudine Lerouge, un'anziana vedova che conduceva una vita tranquilla, anche se non esemplare.
L'assassino ha simulato una rapina, ma la polizia capisce subito che il vero scopo dell'uomo era trovare delle lettere, che poi ha prontamente distrutto.
Il giudice Daburon chiede aiuto a Papà Tabaret, un investigatore dilettante che scopre ben presto il segreto della vedova Lerouge, che in gioventù era stata complice di uno scambio di bambini.Inizia così una caccia all'uomo tra eredità e nomi contesti, antichi amori e tradimenti e passioni che portano alla rovina.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2020
ISBN9788899403874
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    L'affare Lerouge - Émile Gaboriau

    GialloAurora

    6

    Emile Gaboriau, L’affare Lerouge

    1a edizione GialloAurora, febbraio 2020

    © Landscape Books 2020

    www.landscape-books.com

    Titolo originale: L’affaire Lerouge

    Progetto grafico service editoriale il Quadrotto.

    Realizzazione a cura di WAY TO ePUB.

    Emile Gaboriau

    L’affare Lerouge

    I.

    Giovedì 6 marzo 1862, due giorni dopo martedì grasso, cinque donne del villaggio della Jonchère si presentavano all’ufficio di polizia di Bougival. Esse raccontarono che da due giorni nessuno aveva più visto una loro vicina, la vedova Lerouge, che abitava sola, in una casetta isolata. Parecchie volte avevano bussato, ma inutilmente. Le finestre, come la porta, erano chiuse ermeticamente, quindi era stato impossibile gettare un’occhiata nell’interno. Questo silenzio, questa scomparsa, le turbavano. Temendo un delitto o almeno una disgrazia, esse domandavano che la Giustizia, per rassicurarle, forzasse la porta e penetrasse nella casa.

    Bougival è un simpatico paese, popolato tutte le domeniche da canottieri d’ambo i sessi, che compiono spesso qualche peccato, ma i delitti vi sono rari. Il commissario perciò non cedette subito alle preghiere delle sollecitatrici, tuttavia esse insistettero tanto che, annoiato, alla fine si arrese. Mandò a cercare il brigadiere e due dei suoi uomini, fece chiamare un fabbro, e con loro seguì le vicine della vedova Lerouge.

    La Jonchère è un piccolo borgo senza importanza, posto sul pendio del colle che domina la Senna, fra La Malmaison e Bougival. È a venti minuti circa dalla grande strada che va da Parigi a Saint-Germain passando da Rueil e da Port-Marly. Vi si arriva per un sentiero scosceso, sconosciuto all’amministrazione delle strade.

    Il piccolo gruppo, con i gendarmi in testa, seguì il largo argine che costeggia la Senna in questo punto, e, ben presto, volgendo a destra, s’inoltrò per la scorciatoia, fiancheggiata da muri e profondamente incassata.

    Dopo qualche centinaio di passi, giunse davanti a un’abitazione modesta, ma abbastanza ben tenuta. Quella casetta doveva esser stata costruita da qualche bottegaio parigino innamorato della natura, perché tutti gli alberi erano stati diligentemente abbattuti. Si componeva in tutto di due stanze a pianterreno e di un granaio; all’interno si stendeva un giardino trascurato, mal protetto contro i ladruncoli da un muro di sassi mezzo diroccato. Un cancello di legno, che girava su fili di ferro invece di cardini, vi dava accesso.

    - È qui - dissero le donne.

    Il commissario si fermò. Durante il tragitto, il suo seguito si era accresciuto di tutti gli sfaccendati del paese. Era ora circondato da una quarantina di curiosi.

    - Che nessuno entri nel giardino - ordinò.

    E, per avere la sicurezza d’esser obbedito, mise due gendarmi di sentinella all’entrata, e avanzò scortato dal brigadiere e dal fabbro.

    Bussò parecchie volte col pomo del manganello, dapprima alla porta, successivamente a tutte le imposte. Dopo ogni colpo appoggiava l’orecchio contro il legno e ascoltava. Non udendo nulla, si volse al fabbro.

    - Aprite - gli disse.

    L’operaio aprì la borsa e preparò i suoi ferri. Aveva già introdotto un grimaldello nella serratura, quando un gran chiasso scoppiò nel gruppo degli sfaccendati.

    - La chiave - si gridava, - ecco la chiave!

    Infatti un ragazzo sui dodici anni, giocando con un suo compagno, aveva scorto nel fossato che costeggia la strada una chiave enorme, l’aveva raccolta e la recava in trionfo.

    - Dammela, furfante - gli disse il brigadiere. - Adesso la proviamo.

    La chiave era infatti quella della casa.

    Il commissario e il fabbro si scambiarono uno sguardo preoccupato.

    - Male! - mormorò il brigadiere, poi entrarono nella casa mentre la folla, trattenuta a stento dai gendarmi, allungava il collo, si sporgeva dal muro, cercando di vedere, di afferrare qualche cosa di quello che stava per accadere.

    Coloro che avevano parlato di delitto non si erano, sfortunatamente, ingannati; il commissario ne fu convinto fin dalla soglia. Tutto, nella prima stanza, denunciava, con lugubre eloquenza, la presenza dei malfattori: i mobili, un cassettone e due grandi madie, erano stati forzati e sfondati. Nella seconda stanza, che serviva da camera da letto, il disordine era maggiore, sembrava che mani furiose si fossero divertite a mettere tutto a soqquadro.

    Accanto al caminetto, col viso nella cenere, era steso il cadavere della vedova Lerouge. Tutta una parte della faccia e i capelli erano bruciati, e per miracolo il fuoco non era arrivato ai vestiti.

    - Canaglie! - mormorò il brigadiere - non avrebbero potuto derubarla senza assassinarla?

    - Ma dove è stata colpita? - domandò il commissario. - Non vedo sangue.

    - Guardate, lì, fra le spalle - riprese il brigadiere. - Due bei colpi, in fede mia! Scommetterei i miei galloni che non ha avuto il tempo di dire: Ah!

    Si chinò sul corpo e lo toccò.

    - Oh! - continuò, - è già fredda. Anzi mi sembra che non sia più tanto rigida, sono almeno trentasei ore da che il colpo è stato fatto.

    Il commissario intanto scriveva, su un angolo della tavola, un sommario processo verbale.

    - Non si tratta di perorare - disse al brigadiere, - ma di trovare i colpevoli. Bisogna avvisare il giudice e il sindaco. Inoltre è necessario correre a Parigi per portare questa lettera in tribunale. Entro due ore un giudice istruttore potrà essere qui. Io intanto procederò a un’inchiesta provvisoria.

    - Devo portarla io la lettera? - domandò il brigadiere.

    - No. Mandate uno dei vostri uomini, voi sarete utile qui, per trattenere i curiosi e anche per trovare i testimoni di cui avrò bisogno. È necessario che qui non sia toccato nulla, io mi installerò nella prima stanza.

    Un gendarme si diresse a passo di corsa verso la stazione di Rueil, e subito il commissario cominciò a prendere le informazioni preliminari prescritte dalla legge.

    Chi era questa vedova Lerouge, di dov’era, che cosa faceva, di che viveva, e in che modo? Ecco quello che al commissario importava sapere.

    Benché numerosi, i testimoni non erano molto informati. Le deposizioni dei vicini, successivamente interrogati, erano vuote, incoerenti, incomplete. Nessuno sapeva alcunché della vittima, forestiera nel paese. Molti si presentavano, d’altra parte, a domandare, piuttosto che a dare chiarimenti. Una giardiniera, che era stata amica della vedova Lerouge, e una lattaia sua fornitrice, furono le sole a poter dare qualche ragguaglio abbastanza insignificante, ma preciso.

    Dopo tre ore di interrogatori interminabili, dopo aver ascoltato tutti i si dice del paese, dopo aver raccolto le testimonianze più contraddittorie e i pettegolezzi più ridicoli, ecco quel che il commissario venne a sapere di positivo:

    Due anni prima, all’inizio del 1860, la Lerouge era arrivata a Bougival con un gran carro pieno di mobili, di biancheria e di suppellettili. Era scesa in un albergo, manifestando l’intenzione di stabilirsi nei dintorni, e subito si era data alla ricerca di una casa. Avendone trovata una di suo gradimento, l’aveva presa in affitto, per 320 franchi pagabili a semestre e anticipatamente, ma non aveva consentito a firmare il contratto.

    Vi si era installata il giorno stesso, e aveva speso un centinaio di franchi in riparazioni. Era una donna sui 55 anni, ben conservata, robusta e con una salute eccellente. Nessuno sapeva perché avesse scelto, per dimorarvi, un paese dove non conosceva assolutamente nessuno. Supponevano che fosse della Normandia, perché spesso la mattina le vedevano in testa una cuffia di cotone. Questa acconciatura notturna non le impediva di essere molto elegante di giorno. Indossava generalmente abiti molto fini, ornava le sue cuffie di una quantità di nastri e si copriva di gioielli come una madonna. Indubbiamente aveva abitato una città costiera, perché il mare e i bastimenti erano di frequente oggetto nelle sue conversazioni.

    Non parlava volentieri del marito, morto, diceva, in un naufragio. Non aveva mai dato su quest’argomento il minimo particolare. Una volta solamente aveva detto alla lattaia, davanti a tre persone: «Non c’è mai stata una donna più sfortunata di me nel matrimonio». Un’altra volta aveva detto: «Il mio defunto marito non mi ha amato che un anno».

    La vedova Lerouge passava per ricca o almeno per molto agiata. Non era avara. Aveva prestato una volta a una donna de La Malmaison 60 franchi per pagare l’affitto, e non aveva voluto che quella glieli restituisse. Un’altra volta, aveva anticipato 200 franchi a un pescatore di Port-Marly. Le piaceva vivere bene, spendeva molto per il suo mantenimento e si faceva venire il vino a mezze botti. Il suo maggior piacere era invitare i conoscenti, e i suoi pranzi erano eccellenti. Se le dicevano che era ricca, non si schermiva troppo. Le avevano spesso sentito dire: «Io non ho rendite, ma possiedo tutto quel che mi occorre. Se volessi di più, potrei averlo».

    D’altra parte, non le era mai sfuggita la benché minima allusione al suo passato, al suo paese o alla sua famiglia. Era una chiacchierona, ma parlava a lungo solo per dir male del prossimo. Doveva tuttavia aver visto il mondo e sapere molte cose. Assai diffidente, si barricava in casa come in una fortezza. Non usciva mai la sera; tutti sapevano che si ubriacava regolarmente a cena e che poi andava subito a letto. Raramente erano stati visti degli estranei in casa sua: quattro o cinque volte una signora e un giovane, e un’altra volta due signori: l’uno vecchio, con parecchie decorazioni, e l’altro molto giovane. Questi ultimi erano venuti in una magnifica vettura.

    Non godeva di molta stima. I suoi discorsi erano spesso singolari in bocca a una donna della sua età. L’avevano sentita dare a una fanciulla i più insensati consigli. Un salumiere di Bougival, il cui commercio andava male, le aveva fatto la corte. Lei lo aveva respinto dicendo che ne aveva avuto abbastanza di un marito. Diverse volte erano stati visti degli uomini entrare in casa sua. Da principio un giovane, che si sarebbe detto un impiegato delle ferrovie, poi un tipo alto, bruno, piuttosto anziano, vestito di un camiciotto, e dall’aspetto malvagio. Era stato supposto che l’uno e l’altro fossero suoi amanti.

    Durante gli interrogatori, il commissario riassumeva per iscritto le deposizioni, e a questo punto arrivò il giudice istruttore, conducendo con sé un ispettore di polizia e un agente.

    Il giudice istruttore Daburon era sui trentotto anni, simpatico, nonostante la sua freddezza, di una fisionomia dolce e un po’ triste. La tristezza gli era rimasta dopo una grave malattia che due anni prima l’aveva colpito.

    Giudice istruttore dal 1859, si era rapidamente conquistato una fama brillante. Attivo, paziente, dotato di grande acume, sapeva con rara perspicacia sbrogliare la matassa più ingarbugliata, e, fra i mille fili, coglieva il filo conduttore. Nessuno meglio di lui, armato di una logica implacabile, sapeva risolvere i terribili problemi in cui il colpevole è l’incognita. Abile a dedurre dal noto l’ignoto, eccelleva nel riassumere i fatti, nel formare un fascio di prove gravi con le circostanze più futili e in apparenza più insignificanti.

    Con tante e tanto preziose qualità, non sembrava tuttavia nato per le sue terribili funzioni. Non le esercitava che rabbrividendo, diffidando della forza che gli veniva dal suo immenso potere. Gli mancava l’audacia per i colpi teatrali arrischiati che fanno prorompere la verità.

    Ce n’era voluto perché si assuefacesse a certe pratiche usate senza scrupolo dai suoi colleghi più incalliti. Perciò gli ripugnava di ingannare gli imputati e di tender loro tranelli. In tribunale era definito un pauroso. In realtà, al solo ricordo degli errori giudiziari conosciuti, si sentiva drizzare i capelli. Non gli erano sufficienti le congetture più probabili, gli occorreva la certezza assoluta. Era tranquillo soltanto il giorno in cui l’accusato era costretto a curvare la fronte davanti all’evidenza. Perciò gli si rimproverava di cercare non dei colpevoli ma degli innocenti.

    In questa occasione era assistito dall’ispettore Gevrol, uomo abile, ma che mancava di perseveranza, e che era capace di lasciarsi accecare da un’ostinazione incredibile. Se perdeva una traccia non voleva confessarlo, e tanto meno tornare sui suoi passi. Di una forza erculea, sotto un’apparenza gracile, non aveva mai esitato ad affrontare i più pericolosi malfattori.

    L’aiutante di Gevrol era, quel giorno, un giovanotto arruolatosi da poco nella polizia, abile nel mestiere e geloso del suo capo. Si chiamava Lecoq.

    Il commissario, che la responsabilità cominciava a imbarazzare, accolse il giudice istruttore e i due investigatori come liberatori. Espose brevemente i fatti e lesse il processo verbale.

    - Avete agito molto bene - gli disse il giudice, - tutto è molto chiaro, avete solo dimenticato un fatto.

    - Quale? - domandò il commissario.

    - In che giorno è stata vista per l’ultima volta la vedova Lerouge, e a quale ora?

    - Stavo per arrivare a questo punto. È stata incontrata la sera del martedì grasso, alle cinque e venti; tornava da Bougival, con un paniere di provviste.

    - Il signor commissario è sicuro dell’ora? - domandò Gevrol.

    - Perfettamente, ed ecco perché: i due testimoni di questo fatto, la Tellier e un bottaio, che abitano qui accanto, scendevano dall’omnibus, che parte da Port-Marly ogni ora, quando hanno scorto la vedova Lerouge per la scorciatoia. Hanno affrettato il passo per raggiungerla, hanno parlato con lei e l’hanno lasciata solo alla sua porta.

    - E che cosa aveva nel paniere? - domandò il giudice istruttore.

    - I testimoni l’ignorano. Sanno soltanto che portava con sé due bottiglie di vino e un litro di acquavite. Si lamentava del mal di testa, aggiungendo che, nonostante l’usanza di divertirsi il martedì grasso, se ne sarebbe andata subito a letto.

    - Ebbene! - esclamò l’ispettore - io so dove bisogna cercare.

    - Veramente? - fece il giudice istruttore.

    - Diamine! è abbastanza chiaro. Si tratta di trovare l’uomo alto e bruno, quello dal camiciotto. L’acquavite e il vino gli erano destinati, la vedova l’aspettava per la cena, e lo spasimante è venuto.

    - Oh! - disse quasi con ribellione il brigadiere. - Era troppo brutta e vecchia!

    Gevrol guardò con aria beffarda l’onest’uomo.

    - Sappiate, brigadiere - disse, - che una donna che ha del denaro è sempre giovane e graziosa, se questo le conviene.

    - Forse c’è qualche cosa di vero - riprese il giudice istruttore, - pure non è questo che mi colpisce. Sono piuttosto le parole della vedova Lerouge: Se volessi di più, potrei averlo.

    - È proprio quello che ha destato la mia attenzione - confermò il commissario.

    Ma Gevrol non si dava più la pena di ascoltare. Aveva la sua traccia, esaminava minuziosamente gli angoli e i nascondigli della stanza. A un tratto tornò verso il commissario.

    - Penso a una cosa - esclamò. - Non fu martedì che il tempo cambiò? Vi era il gelo da una quindicina di giorni e quel giorno è piovuto. A che ora è cominciata la pioggia qui?

    - Alle nove e mezzo - rispose il brigadiere. - Io uscivo dopo cena e andavo a fare il solito giro d’ispezione nelle sale da ballo, quando sono stato sorpreso da un acquazzone, di fronte alla rue des Pêcheurs. In meno di dieci minuti c’era un mezzo pollice d’acqua per la strada.

    - Molto bene! - disse Gevrol. - Dunque, se l’uomo è venuto dopo le nove e mezzo, doveva avere le scarpe infangate… altrimenti, vuol dire che è arrivato prima. Bisognava vedere, poiché ora il pavimento è stato calpestato. C’erano impronte di passi, signor commissario?

    - Devo confessare che non ce ne siamo occupati.

    - Ah! - fece l’ispettore indispettito, - è ben spiacevole.

    - Aspettate - aggiunse il commissario, - si è ancora in tempo per vedere, non in questa, ma nell’altra stanza. Non è stato mosso nulla. Sarà facile distinguere le mie impronte e quelle del brigadiere. Vediamo.

    Siccome il commissario apriva la porta della seconda camera, Gevrol lo trattenne.

    - Io domanderei al signor giudice - disse - di permettermi di esaminare tutto prima che qualcuno entri; è una cosa importante per me.

    - Certamente - approvò Daburon.

    Gevrol passò per primo, e tutti, dietro di lui, si fermarono sulla soglia a spiare il teatro del delitto. Tutto, come aveva constatato il commissario, sembrava messo sottosopra da qualche pazzo.

    In mezzo alla camera c’era una tavola ricoperta da una tovaglia bianchissima, sulla quale si trovava un magnifico bicchiere di cristallo inciso, un bel coltello e un piatto di porcellana. Vi era inoltre una bottiglia di vino appena cominciata e una bottiglia di acquavite di cui erano stati bevuti cinque o sei bicchierini.

    A destra, lungo la parete, c’erano due begli armadi di noce, dalle serrature lavorate, uno per parte ai lati della finestra. Erano vuoti tutt’e due e il loro contenuto era sparso sul pavimento. Vi erano lenzuoli, capi di biancheria e di vestiario spiegati e sgualciti.

    In fondo, accanto al camino, un grande armadio a muro contenente delle stoviglie era rimasto aperto. Dall’altro lato del camino, un vecchio scrittoio dalla superficie di marmo, era stato sfondato, messo in pezzi e frugato senza dubbio fino nei più reconditi incavi. Il piano mobile strappato, penzolava, trattenuto da una sola cerniera; i cassetti erano stati tolti e gettati a terra.

    Infine, a sinistra, il letto era completamente disfatto e messo sottosopra. Perfino la paglia era stata levata dal pagliericcio.

    - Neppure la minima impronta - mormorò Gevrol contrariato. - È arrivato prima delle nove e mezzo. Possiamo entrare, ora, liberamente.

    Avanzò e andò direttamente verso il cadavere della vedova Lerouge, accanto al quale s’inginocchiò.

    - Non c’è che dire - borbottò. - Un colpo da maestro! L’assassino non è certo un novizio. - Poi, guardando a destra e a sinistra: - Oh! Oh! - continuò - la povera diavola stava facendo da mangiare, quando è stata colpita. Ecco la padella in terra, del prosciutto, delle uova. Il bruto non ha avuto pazienza di aspettare la cena. Il signore aveva fretta, ha fatto il colpo a stomaco vuoto. Perciò non potrà invocare a sua discolpa l’annebbiamento prodotto dal vino.

    - È evidente - diceva il commissario al giudice istruttore - che il furto è stato il movente del delitto.

    - È probabile - rispose Gevrol, con tono canzonatorio, - ed è anche per questo che non scorgete sulla tavola alcuna posata d’argento.

    - Toh! delle monete d’oro in questo cassetto! - esclamò Lecoq, che frugava anche lui, - ce n’è per 320 franchi.

    - Diamine! - fece Gevrol un po’ sconcertato. Ma si rimise subito dal suo stupore e continuò: - Le avrà dimenticate. Ho visto un assassino perdere così bene la testa, dopo compiuto il delitto, da non ricordare più quel che era venuto a fare e fuggire senza prendere nulla. Chi sa che il nostro giovanotto non sia stato disturbato! Possono aver bussato alla porta. Lo proverebbe il fatto che il furfante non ha lasciato accesa la candela ma si è preso la pena di soffiarvi sopra.

    - Ohibò! - fece Lecoq, - ciò non prova nulla. Forse era un uomo economo e ordinato.

    Le indagini dei due agenti continuarono per tutta la casa, ma le ricerche più minuziose non fecero loro scoprire assolutamente nulla, neppure il più piccolo indizio che potesse servire da punto di partenza. Anche tutte le carte della vedova Lerouge, se pur ne possedeva, erano scomparse. Non si trovò né una lettera, né un pezzo di carta, nulla.

    Di tanto in tanto, Gevrol s’interrompeva per bestemmiare o per borbottare:

    - Oh! che coraggio! Ecco un colpo abile! Il furfante ha la mano pronta!

    - Ebbene, signori? - domandò alla fine il giudice istruttore.

    - Gabbati, signor giudice - rispose Gevrol, - noi siamo gabbati! Lo scellerato aveva preso tutte le sue precauzioni. Ma lo prenderò. Prima di questa sera avrò una dozzina di uomini in moto. D’altra parte ha portato via dell’argenteria e dei gioielli, ed è quindi perduto.

    - Con tutto ciò - fece Daburon - non siamo più avanti di stamattina!

    - Diamine! si fa quel che si può - rimbrottò Gevrol.

    - Ah! - disse Lecoq, - se papà Mettinchiaro fosse qui!…

    - Che cosa farebbe più di noi? - protestò Gevrol, lanciando uno sguardo furioso al suo subalterno.

    Lecoq abbassò la testa e non disse parola, soddisfatto internamente di aver offeso il suo capo.

    - Chi è questo papà Mettinchiaro? - domandò il giudice istruttore. - Mi sembra di aver sentito questo nome, ma non ricordo dove.

    - È un uomo straordinario! - esclamò Lecoq.

    - È un ex impiegato del Monte di Pietà - aggiunse Gevrol, - un vecchio che si chiama Tabaret. Fa il poliziotto per suo diletto.

    - E per aumentare le sue entrate - osservò il commissario.

    - Lui! - esclamò Lecoq, - non c’è pericolo, tanto è vero che alle volte ci rimette di tasca sua. L’abbiamo soprannominato Mettinchiaro, a causa di una frase che ripete sempre. È lui che nel processo della moglie del banchiere, sapete? ha indovinato, e l’ha provato, che la signora si era derubata da sola.

    - È vero - rimbeccò Gevrol. - Ed è stato lui che ha fatto quasi tagliare il collo a quel povero Derène, quel misero sarto che era stato accusato di aver ucciso la moglie, e invece era innocente.

    - Non perdiamo il nostro tempo, signori - interruppe il giudice istruttore. E rivolgendosi a Lecoq: - Andate - disse - a cercarmi papà Tabaret. Ho sentito parlare molto di lui, non sarei scontento di vederlo all’opera.

    Lecoq uscì correndo. Gevrol era seriamente umiliato.

    - Il signor giudice istruttore - cominciò - ha il diritto di domandare i servizi di chi gli sembra opportuno, tuttavia…

    - Non adiratevi, signor Gevrol - interruppe Daburon. - Non è da ieri che vi conosco, so quel che valete, soltanto oggi noi differiamo completamente d’opinione. Voi tenete assolutamente al vostro uomo bruno, e io sono convinto che voi non siate sulla via giusta.

    - Io credo di aver ragione - rispose l’ispettore - e spero di provarvelo. Troverò l’assassino, chiunque esso sia.

    - Non domando di meglio.

    - Solamente il signor giudice mi permette un… come dire, senza mancare di rispetto? un… consiglio?

    - Parlate.

    - Ebbene! consiglierei il signor giudice a diffidare di papà Tabaret.

    - Veramente! e perché?

    - Il brav’uomo si lascia trasportare troppo dalla passione di far bella figura, tanto più che è orgoglioso come un pavone. Appena si trova in presenza di un delitto, come quello di oggi, per esempio, ha la pretesa di spiegare tutto immediatamente. Infatti, inventa una storia che risolve esattamente la situazione. Pretende con un solo indizio di ricostruire tutte le scene di un assassinio, come quello scienziato che con un osso ricostruiva animali di cui si sono perdute perfino le tracce. Qualche volta indovina giusto, ma spesso s’inganna. Così, nell’affare del sarto, di quel disgraziato Derène, senza di me…

    - Vi ringrazio dell’avvertimento - interruppe Daburon, - ne approfitterò. Ora, signor commissario - continuò, - occorre a ogni costo sapere di quale paese era la vedova Lerouge.

    La processione dei testimoni, guidati dal brigadiere, ricominciò a sfilare davanti al giudice istruttore.

    Ma nessun fatto nuovo veniva alla luce. La vedova Lerouge doveva essere stata da viva una persona singolarmente discreta, perché di tutte le sue parole – e di sicuro ne aveva pronunciate molte in un giorno – non rimaneva nulla di significativo nell’orecchio delle comari dei dintorni.

    Tutte le persone interrogate si ostinavano a comunicare al giudice solamente le loro convinzioni e le loro congetture personali. L’opinione pubblica stava con Gevrol, tutti a una voce accusavano l’uomo alto, bruno, dal camiciotto grigio; questi era certamente il colpevole. Ricordavano la sua aria quasi feroce, che aveva spaventato tutto il paese. Molti, colpiti dal suo aspetto, l’avevano saggiamente evitato. Una sera aveva minacciato una donna e un altro giorno aveva picchiato un bambino. Non erano in grado di indicare né il ragazzo né la donna, ma non importa, questi atti brutali erano di pubblico

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