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Rapsodia di Elettra
Rapsodia di Elettra
Rapsodia di Elettra
E-book367 pagine5 ore

Rapsodia di Elettra

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Info su questo ebook


Elettra non è simpatica. A volte è addirittura odiosa. Tra le figure del mito è quella che meno induce all’identificazione. È una vittima e una ribelle, ma la sua rivolta ha il sapore della sottomissione. È un’oppressa che non si piega, ma che non trova né riscatto né redenzione. Invoca giustizia, ma la sua idea di giustizia mette i brividi. Incarna l’aspirazione al cambiamento, ma anche il richiamo protettivo di un passato idealizzato. È un simbolo del circolo vizioso repressione-rivoluzione-repressione che tante volte ha appestato la Storia. In lei si specchia il fascino dell’intransigenza assoluta, ma anche l’orrore che ne deriva. È una donna incapace di empatia, che precipita nel proprio vuoto interiore.
Il teatro ne ha fatto volta a volta un’eroina dolente e determinata, una macchinatrice senza scrupoli, un’adolescente disorientata e una leader spietata.
Inseguirla nelle sue metamorfosi è un’avventura sempre sorprendente.
In queste pagine risuona la voce che tredici autori le hanno voluto dare, a partire dai grandi drammaturghi dell’antica Grecia, filtrata da una lettura appassionata e non specialistica, ma semplicemente orientata all’ascolto.


In copertina: “Dotta Elettra”
Dipinto da Fabrizio Carbone, dicembre 2021.
 
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita4 mar 2022
ISBN9788867522521
Rapsodia di Elettra

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    Anteprima del libro

    Rapsodia di Elettra - Livia Artuffo

    Livia Artuffo

    Rapsodia di Elettra

    AbelBooks

    In copertina: Dotta Elettra

    Dipinto da Fabrizio Carbone, dicembre 2021.

    © 2022 AbelBooks

    Tutti i diritti sono riservati

    ISBN9788867522521

    Indice

    Prefazione

    Programma di sala

    Guida all’ascolto

    Delitti e castighi nella reggia di Argo

    Una protagonista senza gloria

    E poi? Il seguito amaro della storia

    Apologia di una figlia esemplare

    Ventitré secoli dopo: inconscio, sesso e morte

    L’ipocrisia del Nuovo Mondo

    Attenti a Elettra!

    Giù la maschera!

    Mito e rivoluzione

    Elettra nella Grecia dei colonnelli

    L’acqua si sta per freddare

    Io mi dimetto!

    Elettra ha i capelli bianchi

    La bambina con la maschera da cerbiatta

    Un’anziana confusa e capricciosa

    Il mito all’ora di cena

    Un ristorante tra le fiamme

    Note a margine

    Le tre Elettre della tragedia classica

    Rinate uguali e diverse: le Elettre moderne

    Prefazione

    Elettra non è simpatica. A volte è addirittura odiosa. Tra le figure del mito è quella che meno induce all’identificazione. È un personaggio inquietante, estremo, contraddittorio. È una vittima e una ribelle, ma la sua rivolta ha il sapore della sottomissione. È un’oppressa che non si piega, ma che non trova né riscatto né redenzione. Invoca giustizia, ma la sua idea di giustizia mette i brividi. Incarna l’aspirazione al cambiamento, ma anche il richiamo protettivo di un passato idealizzato. È un simbolo del circolo vizioso repressione-rivoluzione-repressione che tante volte ha appestato la Storia. In lei si specchia il fascino dell’intransigenza assoluta, ma anche l’orrore che ne deriva. È una donna incapace di empatia, che precipita nel proprio vuoto interiore. E ci ricorda il valore salva-vita dell’ascolto, dell’attenzione alla voce degli altri.

    Ho inseguito Elettra attraverso tredici autori: i tre grandi tragici dell’antichità greca che l’hanno creata e alcuni tra i maggiori autori che, dagli inizi del Novecento, hanno trasposto il suo mito in contesti più prossimi alla sensibilità contemporanea. L’ultima Elettra che ho incontrato, al momento in cui scrivo, vive nel testo di un giovane drammaturgo italiano che attende ancora la messa in scena, bloccata dalle restrizioni anti-Covid del 2021. Ho inseguito Elettra con l’apprensione della madre che ogni volta vede un’indomita figlia, di cui ama la forza e il carattere aspro, voltarle le spalle e imboccare una strada senza uscita. L’ho vista cedere a valori imposti da una società di uomini, brandendoli come armi contro una madre a cui avrei accordato la mia solidarietà di donna. L’ho vista battersi per valori universali, e poi rintanarsi in illusioni private e regressive, o chiudersi in propositi reazionari e idee liberticide. Ho cercato di comprendere le sue ragioni e le logiche sociali sottese alle sue azioni. Ho cercato di cogliere la sua voce intrecciata a quella di coloro che le hanno dato voce. Ho ascoltato la sua sofferenza e mi sono lasciata incantare dal canto di coloro che l’hanno così bene raccontata.

    Ho iniziato questo lavoro per caso, nei giorni di ritiro dal mondo imposti dalla pandemia, spiazzante tragedia globale della nostra epoca che ha visto l’umanità 2.0 soccombere inerme davanti a una potenza invisibile e spietata come una divinità antica: una condizione esistenziale vicina come non mai a quella degli uomini e delle donne della Grecia classica, alle loro angosce, ai loro interrogativi, alla loro fantasia.

    Elettra è l’unico personaggio che ha attraversato il teatro tragico del V secolo a. C. per poi riaffiorare nel lascito di tutti e tre i suoi esponenti più illustri. Ho focalizzato l’attenzione su di lei, assumendola come figura-ponte tra le vision dei suoi tre creatori: Elettra mi ha guidato alla scoperta del loro universo poetico e valoriale; Eschilo, Sofocle ed Euripide mi hanno condotta - ciascuno, a modo suo - dentro la sua anima.

    Dopo il suo esordio nella tragedia attica, Elettra non ha mai cessato di catalizzare interesse e attenzione. Nel suo poderoso lavoro di ricognizione, Federico Condello ha censito quasi duecento diverse opere ispirate al suo personaggio{1}. Ne ho scelte alcune, a partire dagli inizi del secolo appena trascorso, e ho proseguito il gioco, seguendo il personaggio di riscrittura in riscrittura, nelle sue varie metamorfosi.

    Io sono solo una lettrice, non una studiosa. Per me, la lettura di un testo teatrale è un’esperienza di ascolto: ascolto le voci dei personaggi che mi parlano attraverso i testi: un’esperienza non dissimile da quella che si vive in una sala da concerto.

    Il concetto di rapsodia mi è parso il più prossimo alla natura di questo concerto: una serie di libere variazioni su un nucleo tematico di origine mitologica. Il termine rapsodia, inoltre, rimanda agli antichi cucitori di canti, i rapsodi dell’antichità greca, divulgatori canori del patrimonio letterario del loro mondo{2}. Come loro, non ho fatto altro che cucire il canto di altri.

    Le indicazioni essenziali per seguire l’esecuzione di questa Rapsodia collettiva (elenco dei brani, informazioni essenziali sugli autori e i rispettivi lavori) sono raccolte in un programma di sala, sul modello del tipico opuscolo che accoglie il pubblico ad ogni concerto.

    Segue una guida all’ascolto: una bussola per orientarsi all’interno di ogni singola opera, trovare fili conduttori, notare passaggi particolari. Ho dedicato una scheda a ognuna delle Elettre che ho incontrato, seguendo l’ordine cronologico delle rispettive prime. Ho cercato di condensarvi la mia esperienza di lettura, ma anche di trattenere il suono dei vari testi drammatici, che ho riportato in ampi stralci, affinché chi legga le mie annotazioni possa immediatamente confrontarsi con i passi originali a cui si riferiscono.

    Concludo con una riflessione post-concerto: un’analisi trasversale, in un’ottica comparativa, che spero non risulterà troppo pedante. Ho cercato di mettere a fuoco alcuni snodi cruciali, inquadrandoli nelle diverse prospettive drammaturgiche: un esercizio per fare un po’ d’ordine nel flusso delle suggestioni raccolte e non perderne troppi pezzi per strada. La lettura è un piacere, ma lo è anche rileggere e rileggere ancora, saltando, zigzagando e ricucendo la tela: come ci hanno insegnato a fare gli antichi rapsodi, i primi cucitori di canti dell’umanità.

    Programma di sala

    Le tre Elettre della tragedia classica

    Chi è Elettra? La sua carta d’identità la colloca nel Peloponneso, ad Argo o a Micene, in un tempo che la fantasia degli ateniesi del V secolo a. C. - il pubblico delle tragedie attiche - considerava il passato storico di cui si sentiva erede. Appartiene a un mondo in cui uomini e dèi vivevano gomito a gomito, in cui passioni e interrogativi etici ed esistenziali si materializzavano in figure e vicende leggendarie, materia dei canti degli aedi vagabondi{3}.

    Personaggio interno alla saga degli Atridi, è figlia di Agamennone, il capo della spedizione panellenica contro Troia, figlio di Atreo, re di Argo e Micene e di Clitemnestra, figlia d Tindaro, re di Sparta. È sorella di Ifigenia (immolata dal padre ad Artemide alla vigilia della partenza per Troia), di Crisòtemi, di Ifianassa e di Oreste, l’unico maschio.

    Le tracce della sua identità, prima di diventare un personaggio teatrale, sono vaghe e frammentarie{4}. Nell’Iliade, il nome di Elettra non compare tra quelli delle tre figlie{5} sposabili gratis che Agamennone offre ad Achille, insieme a un gran carico di doni, nel tentativo di placarne l’ira e riportarlo a combattere. E l’Odissea, che tanta rilevanza paradigmatica dà alla vendetta compiuta da Oreste ed assegna a Clitemnestra il ruolo-simbolo dell’anti-Penelope, Elettra non la nomina mai. L’orfana vendicatrice del padre assassinato dalla madre e dal suo amante si struttura in personaggio riconoscibile solo quando comincia a calcare le scene, scolpita dalla poesia dei tre Grandi della tragedia greca: l’Elettra che conosciamo appartiene al lascito congiunto della triade Eschilo-Sofocle-Euripide.

    Eschilo (525 – 426 a. C.), il più antico dei tragediografi greci di cui ancora possiamo leggere qualcosa, ha per primo dato una voce al personaggio di Elettra, mettendo a fuoco i tratti caratteristici che saranno per sempre connessi alla sua identità: la devozione alla memoria del padre, l’antagonismo con la madre e il suo amante Egisto, la non-integrazione nel sistema di potere da loro instaurato, l’aspirazione ad un riscatto personale identificato nella restaurazione della legittimità dinastica interrotta dall’assassinio del padre, l’attesa interminabile del fratello Oreste, allontanato in tenera età dalla famiglia, sul quale si concentrano le aspettative messianiche della sorella. Eschilo introduce il personaggio di Elettra nel corso di un’ampia trilogia, L’Orestea (458 a. C.), che abbraccia il complesso degli eventi innescati dal ritorno di Agamennone ad Argo, dopo la guerra di Troia, fino alla sentenza finale che assolverà Oreste, il fratello che aveva materialmente compiuto la vendetta tanto desiderata da Elettra. Lei, Elettra, appare soltanto nel dramma centrale della trilogia, Le Coefore, con un ruolo di spalla rispetto al protagonista maschile. Ma pur nei limiti assegnati al suo personaggio, Eschilo ne fa una figura di grande spessore emotivo e di notevole impatto scenico. Nessuna delle successive rivisitazioni del personaggio potrà prescindere da un raffronto con il prototipo di Eschilo.

    Sofocle (496-406 a. C.) riprende la figura di Elettra quasi cinquant’anni dopo Eschilo e ne fa il perno emotivo di un dramma proprio a lei dedicato, l’Elettra. Sofocle esaspera i tratti identitari del personaggio - la condizione di umiliante asservimento a cui la ragazza è costretta in casa sua, il ricordo continuo del padre e della sua fine immeritata, l’odio per la madre ed Egisto - ed elimina del tutto i dubbi e le remore morali che Eschilo aveva concesso alla sua Elettra. Il desiderio di vendetta dell’Elettra sofoclea è un’ossessione totalizzante, dapprima appesa alla speranza sempre delusa del ritorno del fratello, poi tradotta in un’ipotesi di complotto a due da realizzare insieme alla sorella (che non ci sta) e infine ricondotta alla decisione-suicida di agire in prima persona. Sofocle mette direttamente in relazione, sulla scena, Elettra e sua madre Clitemnestra, una matriarca dispotica e priva di carisma, che per la figlia ribelle prova solo un esasperato fastidio. E affianca alla sua Elettra estremista, una sorella, Crisòtemi, protettiva e solidale, ma più remissiva e accomodante con i potenti di casa. Ne risulta un caleidoscopico dramma al femminile, che si risolverà però, come da tradizione, per mano maschile.

    Nato tra il 470 e il 480 a. C., il più giovane dei tre grandi della tragedia greca, Euripide, si confrontò a lungo con il più anziano e più longevo Sofocle. L’Elettra di Euripide ha una datazione incerta e potrebbe precedere di molto o seguire di poco quella dell’illustre contemporaneo; in ogni modo, trent’anni abbondanti la separano dalla prima apparizione teatrale del personaggio di Elettra nell’Orestea di Eschilo. La versione della vicenda fornita da Euripide è in linea con l’approccio anticonvenzionale, provocatorio, dissacratore di tutto il suo teatro. La scena è spostata lontano dal palazzo, simbolo del potere conteso tra i nuovi regnanti - Clitemnestra ed Egisto - e i giovani figli di Agamennone - Elettra e Oreste. La tradizionale marginalizzazione di Elettra, la sua esclusione dai beni e dai vantaggi che le competono per nascita, prende infatti la forma di un matrimonio forzato (ma non consumato) con un uomo gentile ma di rango molto inferiore al suo, che l’ha da tempo condotta con sé in una misera casa di campagna. Qui avverrà il matricidio e fuori, a poca distanza, il regicidio, il tutto architettato da una Elettra priva di scrupoli che dirige sicura le mosse di un fratello impacciato e ben poco eroico.

    Nel 408 a. C., il suo ultimo anno ad Atene prima del volontario esilio in Macedonia, alla corte del re Archelao, Euripide portò in scena l’Oreste, un sequel dell’Elettra, che riparte da dove l’Elettra si era arrestata. La scena è ricollocata ad Argo, davanti al palazzo degli Atridi, dove i due fratelli si sono rintanati dopo il regicidio e il matricidio narrati nella puntata precedente. Il loro sogno di vendetta si è compiuto, ma il duplice assassinio non è bastato a reintegrarli nel potere e nelle ricchezze di famiglia. La città, infatti, non solo non riconosce i loro diritti ma li metterà addirittura sotto processo, deliberando, alla fine, la loro condanna a morte. La tragedia porta in scena la lotta disperata dei due giovani illusi che si trovano a combattere contro il resto del mondo, in un crescendo di angoscia e rabbia omicida.

    Rinate uguali e diverse: le Elettre moderne

    Tra le innumerevoli rivisitazioni del mito di Elettra che hanno interessato il teatro, il cinema, e tutte le forme della letteratura abbiamo scelto alcune tra le più famose riscritture novecentesche e lì abbiamo seguito le tracce del personaggio.

    L’Elektra di Hugo von Hofmannsthal (Vienna, 1874-1929) è stata il nostro nuovo punto di partenza. La sua prima messa in scena risale nel 1903, con la regia Max Reinhardt e con l’attrice Gertrud Eysoldt nel ruolo della protagonista. Autore, attrice e regista tutti sui trent’anni, tutti impegnati ad imprimere un nuovo corso all’arte drammatica. La forza di suggestione di quel testo, unita alla recitazione demoniaca e animalesca della Eysoldt e al gioco ritmico creato dalla regia di Reinhardt – si racconta di un’inedita alternanza di urla e bisbigli, stasi e movimenti frenetici, giochi di luce e buio pesto{6}- impressionarono enormemente Richard Strauss, già allora compositore affermato sulla scena tedesca. Strauss decise di trarne un’opera lirica. Hofmannsthal ne firmò il libretto, riadattando il testo del dramma. Strauss tradusse i versi di Hofmannsthal in una musica ricca di dissonanze, onomatopee e armonie ardite che sfiorano l’atonalità: un esperimento audace, che ha consegnato alla storia della musica un’opera che è tuttora un classico del repertorio lirico: l’Elektra più nota presso il grande pubblico.

    Con un salto di una trentina d’anni e il passaggio di là dall’oceano, troviamo una nuova Elettra nascosta nei panni di un’eroina ottocentesca, perbenista e puritana, creata da Eugene O’Neill (1888-1953), pioniere della drammaturgia made in Usa, insignito nel 1936 del premio Nobel per la letteratura. Nel suo Il lutto si addice ad Elettra (1931), il nome di Elettra appare solo nel titolo. Trilogia concatenata, ispirata all’Orestea di Eschilo, il dramma di O’Neill è costituito da tre parti non separabili - Il Ritorno, L’Agguato, L’Incubo -articolate in tredici atti. La sua prima messa in scena durò all’incirca sette ore, mettendo a dura prova la resistenza del pubblico: O’Neill aveva trasformato la saga classica degli Atridi in una soap opera d’autore. Nel 1947 Dudley Nichols ne ricavò un film di grande successo (e di lunghezza più accessibile) che si aggiudicò due Oscar (miglior attore e miglior attrice) e un Golden Globe (a Rosalind Russell, l’Elettra americana del film).

    Ritroviamo Elettra nel lavoro del 1936 del francese Jean Giraudoux (1882-1944), uno degli intellettuali più influenti nella Francia tra le due guerre: la sua è la prima Elettra surreale, meta-teatrale e dichiaratamente politica. Un lavoro complesso (per non dire complicato), innovativo e impegnativo, che mischia tra loro i tre riferimenti classici, usa diversi registri espressivi (dal comico al brillante, dal sarcastico all’apocalittico) e interseca più piani narrativi (realtà contemporanea e mito, presente e passato, azione scenica, inserti meta-teatrali e racconto popolare).

    Marguerite Yourcenar, l’autrice dell’indimenticabile romanzo Memorie di Adriano (1951), nasce a Bruxelles nel 1903 da famiglia francese e muore da cittadina statunitense a Mount Desert Island, nel 1987. Il suo dramma Elettra o La caduta delle maschere (1954) è un brillante rifacimento dell’Elettra di Euripide, che Euripide avrebbe probabilmente approvato. Ambientazione astorica, linguaggio contemporaneo e largo uso di riferimenti psicoanalitici concorrono alla costruzione di una trama da thriller cospirativo, che si trasforma a poco a poco nella scoperta di una verità lontana da quella consolidata dalla tradizione: Elettra e suo fratello - come l’Edipo di Sofocle - scoprono di aver recitato tutta la vita, senza saperlo, in un dramma del tutto diverso da quello in cui credevano di essere.

    Il lato politico della vicenda in cui agisce il personaggio di Elettra, già cruciale in Giraudoux, balza in primo piano nel lavoro dell’ungherese László Gyurkó, Elettra, amore mio, del 1967: una pièce che parla di regimi autoritari e sistemi di controllo delle masse, di resistenza all’omologazione e contraddizioni interne al fronte rivoluzionario con un tono da fiaba e una delicata freschezza che ne stemperano il solido impianto allegorico. Al dramma teatrale di Gyurkó, abbiamo accostato l’omonima (ma molto diversa) versione cinematografica del 1974, firmata da Miklós Jancsó, che trasformò Elettra amore mio in un film cult, bandiera della contestazione degli anni Settanta.

    Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos (Monemvasia, 1909 – Atene, 1990) è la tappa successiva del nostro percorso. Non è un lavoro teatrale, ma una raccolta di poemetti, scritti tra il 1959 e il 1975. Ognuna delle composizioni è un monologo poetico, inquadrato tra un’introduzione e una nota conclusiva in prosa: quasi un’indicazione di regia, che definisce contesto e occasione del monologo e rivela chi è l’interlocutore silenzioso a cui è rivolto (la moglie, un amico, un conoscente, il fratello, la vecchia balia, una giornalista …). Molte produzioni contemporanee hanno dato forma scenica a questi versi, indubbiamente valorizzati da un’interpretazione attoriale{7}.

    Il tema di dieci dei diciassette poemetti della raccolta attinge alla tragedia greca e sei sono specificamente legati alla saga degli Atridi. Li abbiamo estrapolati dalla raccolta per cucirli alla nostra rapsodia. A parlare, in sequenza, sono Agamennone, Oreste, Elettra (due volte), Ifigenia e Crisòtemi. È una carrellata di tutti i membri della famiglia (solo la madre non ha voce propria), che, uno dopo l’altro, espongono il proprio punto di vista, la propria versione della tragedia che hanno attraversato, il segno che ha lasciato nelle loro vite. Passato mitico e contemporaneità si intrecciano, l’eredità classica si mischia alla storia martoriata della Grecia del Novecento e alle memorie personali del poeta. Il tempo - la quarta dimensione - si dilata attraverso i millenni, si snoda nella forma del ricordo palpitante, si frammenta in un mosaico di dettagli, di particolari minuti, di sfumature sensoriali e voli della mente. Elettra, al centro di questa riflessione, appare in due versioni distinte, reincarnata nella stessa vecchia signora di fine Novecento che in lei si identifica: la prima volta, rappacificata con il mondo e con la vita; la seconda, colta invece al culmine di una degenerazione senile, che offuscando e distorcendo la sua memoria, mina l’essenza stessa del personaggio.

    Le più recenti reincarnazioni sceniche di Elettra - con cui si chiude il nostro concerto - sono italiane. La prima è quella proposta da Giuseppe Manfridi in un lavoro del 1990, un dramma in versi liberi che non si ispira direttamente ai modelli classici, ma alla rivisitazione dell’Elettra di Sofocle compiuta da Hofmannsthal nel 1903. La rilettura di Manfridi è in chiave contemporanea ed è ambientata in una reggia che ricorda una villetta a schiera di un’area extra urbana. L’inedito scenario piccolo borghese fa da sfondo a un dramma che ripercorre le linee essenziali del mito in un clima che fonde evocazioni da fiaba horror ed echi di cronaca nera. Con un pizzico di speranza finale: il day-after dei suoi tre giovanissimi assassini è il primo giorno di una nuova vita che li vedrà, per lo meno, uniti tra loro.

    La nostra ultima Elettra arriva trentun anni dopo: cioè ora, al momento in cui scrivo. È di un autore nato nel 1987 che ha già all’attivo un’attività intensa come poeta e drammaturgo: Fabrizio Sinisi. La sua Elettra parla in versi liberi - senza punteggiatura e senza iniziali maiuscole - la lingua di oggi. Ha una sorella minore – Mia -, un fratello – Oreste - e una sorella maggiore morta - Ines. La Madre ha un amante, Egisto. La scena si svolge la sera prima del funerale del Padre, un ex Questore, morto inopportunamente, dopo una lunga malattia, proprio alla vigilia dell’inaugurazione del grande ristorante di lusso progettato dalla Madre e finanziato dal suo nuovo compagno. Caricato di significati simbolici debordanti, il cibo, in questa pièce, intercetta promesse e sentimenti, confessioni e tentativi di riscatto. Sullo sfondo, manifestazioni di piazza e pestaggi della polizia richiamano episodi fin troppo noti, segni di un malessere generale e di una frattura generazionale che deflagrano in una catastrofe privata.

    Guida all’ascolto

    Delitti e castighi nella reggia di Argo

    Eschilo, L’Orestea (458 a. C.){8}

    Notte fonda. Sul tetto della reggia di Agamennone, una vedetta, sdraiata, guarda a oriente.

    "Attendo dagli dèi la liberazione da questo fardello:

    da lunghi anni ogni notte dal tetto degli Atridi,

    appoggiato come un cane sui gomiti,

    contemplo i convegni notturni degli astri,

    e quelli che portano inverni e quelli che portano estati

    agli uomini, sovrani corruschi dell’etere,

    e il loro levarsi e tramontare".

    Si apre così l’Agamennone di Eschilo, primo dramma della trilogia, L’Orestea, in cui la figura di Elettra appare per la prima volta. Nell’Agamennone, di lei, non c’è ancora traccia. Ma è qui, in questo primo dramma che Eschilo disvela l’antefatto in cui affondano le radici del personaggio. È qui che prende avvio la vicenda mitica in cui lei verrà inserita. Elettra farà la sua prima apparizione nel secondo dramma della trilogia, Le Coefore, e poi abbandonerà la scena. Nel terzo dramma, Le Eumenidi, Elettra non sarà più presente. L’Orestea è però una trilogia fortemente integrata nelle sue linee narrative e nel suo impianto etico-didattico. Il senso profondo del messaggio che Eschilo intendeva trasmettere, le coordinate del suo pensiero, la sua visione del mondo, dei rapporti sociali, delle obbligazioni morali e delle relazioni tra umano e divino, tra passato e presente, tutto questo è comprensibile solo attraverso una lettura integrale del complesso dell’opera. Il nostro primo approccio alla prima Elettra della letteratura non potrà quindi focalizzarsi subito sul personaggio. Ma Elettra – come tutte le Elettre che si succederanno nel tempo - presuppone l’Orestea, il suo tessuto drammatico, il suo mondo etico-filosofico, l’immaginario mitico-religioso che rispecchia.

    L’Agamennone. Dove tutto ebbe inizio

    L’Agamennone si apre con una guardia appostata sul tetto, che attende da anni un segnale: la staffetta dei fuochi che, balzando da monte a monte, da un posto di vedetta al successivo, attraverserà fiammeggiando lo spazio sterminato che separa Argo dal luogo remoto dove il re si è recato in guerra, di là dal mare.

    Sono passati dieci anni dalla partenza di Agamennone, e da allora la Vedetta è rimasta sempre lì, a spiare il segnale, il guizzare del fuoco che porterà da Troia la voce della vittoria. Perché così vuole il cuore impaziente di una donna dai maschi pensieri.

    Eschilo ci accoglie con questa inquadratura insolita: la vedetta sul tetto - incatenata al suo incarico interminabile e disagevole - richiama il peso della lunga assenza del re, che ha lasciato Argo in una condizione di stallo, sospesa nel tempo. E quel tetto ci indica, metaforicamente, il punto di osservazione da cui saranno seguiti gli eventi del dramma: un luogo separato e sovrastante, a metà tra cielo e terra, il luogo simbolico del punto di vista autoriale: umanamente coinvolto, partecipe, solidale, ma eticamente distaccato, imparziale, in cerca di Assoluto.

    L’avvio dell’Agamennone è sorprendente: con pochi tocchi, Eschilo ci trasmette il senso di attesa che permea tutto il dramma. E ci fa subito intravvedere il fiero carattere della protagonista, quella "donna dai maschi pensieri a cui la guardia corre a fare rapporto, non appena scorge il tanto atteso lieto annunzio del fuoco", la fiamma che, nella notte, fa risplendere la luce del giorno annunciando la vittoria.

    Siamo alla metà del V secolo a. C.. La scrittura alfabetica è un’invenzione di pochi secoli addietro, e si conserva ancora il mito della sua prima diffusione tra i greci, ad opera di Cadmo, l’eroe fondatore di Tebe, proveniente dalla Fenicia come l’alfabeto che avrebbe portato con sé. Il teatro è invenzione addirittura recentissima: qualche manciata d’anni e si risale subito a un’epoca in cui il massimo intrattenimento culturale degli ateniesi del V secolo a. C. - finanziato con soldi pubblici, ospitato in grandiose sedi dedicate, gremito di pubblico pagante, celebrato in festival annuali di grande prestigio - era solo un rituale religioso legato al culto di Dioniso, celebrato da uomini danzanti e cantanti, coperti da pelli di capra (capra, tragos in greco: è questa l’origine della parola tragedia?). Eppure, quest’arte appena nata è già matura, perfetta, smagliante, pronta a sfidare, indenne, la polvere dei secoli a venire.

    L’avvio dell’Agamennone ci precipita in un mondo di immagini forti, incisive, pregnanti. L’effetto di suggestione sulla nostra immaginazione è immediato. Eschilo ci costringe a immaginare ciò che lui immagina. Sappiamo ben poco degli attrezzi scenici in uso al suo tempo. Ma certo erano ridotti all’essenziale. Tutto il lavoro di creazione della scena teatrale era affidato alle parole (e alla musica, purtroppo perduta). Con le sole parole si costruivano mondi, si simulava la vita, si realizzavano imprese e si compivano gesti decisivi: senza che quasi nulla accadesse per davvero, davanti a un pubblico convinto che tutto stesse davvero accadendo. E così, con l’Agamennone di Eschilo, da subito entriamo nel cuore della città che attende il ritorno dell’eroe, vediamo gli altari sparsi dappertutto, guizzanti di fiamme accese per i sacrifici rituali in onore del sovrano, vediamo il palazzo imponente che simboleggia il potere, da cui esce una regina da tempo investita di autorità regale, un’anomalia quasi impensabile, una deviazione abnorme dal sentiero dell’esclusività maschile del potere; sullo sfondo, c’è ancora l’eco della guerra lontana che ha assorbito tante giovani vite, la guerra finalmente finita. Cosa accadrà, ora? Il pubblico attende il prossimo flusso degli eventi con la stessa trepidazione del popolo che attende il sovrano trionfante, con l’ansia del Coro che ancora non sa di quel ritorno imminente, e chiede spiegazioni alla regina dei riti sontuosi che sta apprestando su una scala mai vista:

    "Orsù, narra di tutto

    ciò ch’è possibile e lecito

    per sgravarmi di quest’ansia;

    ora essa m’invade la mente,

    ora dai sacrifici accesi scintilla

    una speranza a cacciare i pensieri

    perturbatori dell’anima, insaziabili d’affanni".

    È l’inizio di una narrazione densamente lirica, piena di metafore evocative, di similitudini ardite, di immagini sorprendenti, che la traduzione di Carlo Carena rende con espressioni intensamente poetiche: la polvere è la sorella assetata del fango; Ares è il cambiavalute di carne che regge la bilancia delle aste durante la mischia; l’Egeo è fiorito di morti; la reggia spira strage, stilla sangue; Zeus centra la folgore sulle pupille dell’umanità…

    Le aquile e la lepre gravida

    Il primo dramma dell’Orestea di Eschilo ci racconta il ritorno a casa di Agamennone, ci descrive la finta devozione con cui la moglie lo accoglie e la fine brutale che gli riserva.

    Ma le origini della vicenda risalgono molto

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