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E-book132 pagine1 ora

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Info su questo ebook

La scelta dell’esilio dai ritmi e dai riti della società contemporanea di un personaggio che rivendica il diritto di sottrarsi alla logica imperante dell’apparire.
In un flusso di coscienza travolgente, che diventa critica profonda all’oggi e agli stereotipi di genere, Zanini sa trasformare la narrazione di una noiosa giornata tipo in un incredibile viaggio nella mente umana che non può lasciare indifferenti. La mancanza di avvenimenti, metafora della voluta assenza di relazioni, diventa azione attraverso l’osservazione, l’indagine, il respingimento della realtà circostante e il personaggio protagonista, paradossalmente, si rivela portatore di un colpo di scena finale costruito con esatta misura.
Spiega l’autrice: «Il personaggio protagonista è una sorta di etologo, osserva l’umanità e il mondo che lo circonda, sempre a debita distanza. E nella sua caparbia scelta di non relazionarsi nasconde la capacità di scardinare i luoghi comuni legati all’idea della solitudine, oltre a minare diversi stereotipi legati all’appartenenza di genere».

LinguaItaliano
Data di uscita30 mar 2022
ISBN9788831285582
A una voce
Autore

Sabina Zanini

Sabina Zanini è nata a Sorengo nel 1972 e ha studiato Lettere moderne a Pavia. Lavora come redattrice per la Radiotelevisione svizzera. Con il romanzo “A una voce” vince il “Premio Studer/Ganz 2021 per una prosa inedita d’esordio”.

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    Anteprima del libro

    A una voce - Sabina Zanini

    Mattino

    Apro gli occhi su un mattino appena abbozzato. Le giornate cominciano sempre alla stessa ora ma la luce diurna si accende secondo il capriccio delle stagioni. Il tragitto della Terra prosegue incurante dell’alternarsi tra riposo e veglia. Che poi questo globo ospiti uomini o dinosauri è del tutto indifferente.

    Fuori c’è un residuo di buio. Rimango a letto, immobile.

    Avrei potuto trovare la morte nel sonno. Non ho la certezza che non sia accaduto perché non so se, da morti, si abbia coscienza del proprio trapasso. Forse si fanno le stesse cose in una dimensione sconosciuta, invisibile a chi continua ad avere respiro e circolazione sanguigna. Forse non c’è alcuna possibilità di interrompere questo carosello.

    Spero in una morte perlomeno priva di sofferenza. L’unica possibilità è che mi salti addosso all’improvviso, senza che io neppure sospetti che mi sta già alitando accanto. Non devo prepararmi spiritualmente. E non ho nessuno da salutare.

    Non vorrei morire di cancro come mia madre. Una vita sbiadita nel solo dolore. Nelle regioni remote della sua esistenza sopravviveva attaccata al filo tenue del respiro e di un polso sempre più sfilacciato. Imprigionata nel recinto angusto della sofferenza. In quell’ansimare roco non c’era preghiera, solo condanna, atroce tortura. Ormai immobilizzata in uno stato catatonico, quando un’infermiera la spostava dalla posizione supina, già predisposta alla bara, emetteva ancora dei gemiti, come unica prova di esistenza. L’umano patimento non smette di urlare fino alla fine, oltre le lande infernali dove si spegne la speranza.

    La guardavo in agonia, senza capirne il significato. Il senso l’avrei trovato se avessi potuto fare quello stesso percorso a ritroso, partendo dall’estremo fotogramma di lei con gli occhi arrovesciati come in un’estasi mistica, ma con la divinità lontanissima. E allora dal solo respiro sarebbero rinati i movimenti incerti delle mani, che ricordavano quelli del neonato nella volontà di afferrare un oggetto, senza che le dita ne assecondino un pensiero ancora in costruzione. Poi avrebbe vomitato le sue feci, un percolato scuro, risalito dalle viscere ormai corrotte e occluse dal tumore. Ma non sarebbe più accaduto dopo aver riaperto gli occhi azzurri, quando per giorni e giorni ci aveva mostrato solo una fessura bianca ai margini delle palpebre semichiuse. Dopo aver guardato, avrebbe parlato, addirittura sorriso. Poi avrebbe camminato per la stanza con il corpo smagrito, nascosto a malapena dall’impudica camiciona sanitaria aperta sul dorso. Poi sarebbe uscita da quell’ultima stanza e sarebbe tornata a casa per rifiorire nella stagione in cui tutto muore.

    Ma non è stata quella la direzione di marcia. L’ultimo respiro esalato in una sera d’autunno, evitando il peso di un altro inverno.

    Dalla stanza silenziosa e spoglia si sentiva qualcuno che litigava in strada. Sono arrivati gli infermieri, hanno staccato i macchinari che le pompavano dosi sempre maggiori di morfina nelle vene. Con una benda le hanno fissato la mascella in un’espressione che non ha mai avuto.

    I medici che ti stringono la mano ringraziandoti per i giorni e le notti passate in ospedale in un anticipo di veglia funebre, tra luci e rumori in corsia che non si fermano mai. Appena fuori da quella stanza non ti guardano più. Pratica evasa e già archiviata: ne hanno viste e ne vedranno altre. Il morto va nello scantinato dell’ospedale, dove si nasconde discreto l’obitorio, il ripostiglio di mute spoglie ormai solo ingombro da smaltire.

    Ci sono ditte che trasformano le ceneri dei morti in diamanti. Non siamo polvere, siamo carbonio. Acqua e carbonio. Le nostre vite sono biodegradabili. Se finissi nel castone di un anello sarebbe il mio momento di massimo splendore. Addirittura eterno, come l’alloro dei poeti.

    Quale morte mi sta meglio? Si potesse scegliere come gli abiti su un catalogo di moda, opterei per la scorciatoia che ha infilato un tale che conoscevo al quale una notte si è semplicemente fermato il cuore. Era solo in casa. L’hanno trovato accasciato sulla sponda del letto nell’atto di togliersi le calze. Un uomo di mezza età che in quel momento ha scoperto che quella metà corrispondeva all’intero.

    Ma quando questo corvo nero ti plana sulla testa bisogna trovare una spiegazione. La gente attorno si è lanciata in congetture: non si curava, si lasciava andare. Eh, qualche sintomo rivelatore c’era stato nelle settimane precedenti, ma lui l’aveva trascurato. Qualcuno ha ricordato che beveva. Farlo responsabile del proprio destino ha rassicurato tutti visto che tutti noi teniamo saldamente in mano il nostro.

    Certo, bere sarebbe una scappatoia ampiamente collaudata per annebbiare la coscienza. Mi era già capitato di considerare il naufragio alcolico come dolce e dimentica deriva; ma per un vizio così occorre una dedizione quasi religiosa. La mia pigrizia mi impedirebbe di organizzarmi. Innanzitutto uno deve sapere esattamente quanto alcol può ingurgitare quotidianamente, e rifornirsi di conseguenza; magari prevedendo qualcosa in più, nel caso reggesse bevute supplementari. Ci sono etilisti capaci di ingollare volumi di alcol che io non riuscirei a sorbire neanche se si trattasse di acqua. Ancora una volta, solo l’esercizio costante porta a imprese straordinarie.

    Meglio approvvigionarsi in supermercati diversi, in modo da evitare intromissioni compassionevoli da parte di qualche anima caritatevole in agguato. C’è sempre qualcuno che sente in sé la vocazione del salvatore. Qualcuno che ti capisce perché aveva il padre che beveva o il marito, tipicamente.

    Ci vuol ordine anche nel centellinare le scorte, distribuirle bene nell’arco della giornata. È inutile prostrarsi in un’ubriachezza senza scampo già a metà mattina, per poi trasformarsi in uno di quegli ubriaconi da macchietta che beccheggiano per la via straparlando con grande ilarità dei passanti. Sono cose che danno nell’occhio. Meglio mantenersi in equilibrio un poco oltre la lucidità, lasciando scivolare sulle cose uno sguardo assente e acquoso. Questo non preoccupa nessuno. Non disturba. Ci sono alcolisti che amano bere in compagnia per illudersi che il loro vizio sia costume diffuso e dunque non problematico. Nel mio caso, preferirei collocarmi nella categoria dei bevitori solitari, non mi piace fare strepito. Meglio un discreto annientamento casalingo, senza dare spiegazioni. Quelle le cerchi se vuoi smettere, non se hai deciso di alleviare così le fatiche che non riesci a sostenere. Stappi la tua bottiglia e lasci che i diavoli che vi aveva intrappolato re Salomone ti allaghino la vita, portandovi il chiasso e lo scompiglio delle loro danze scomposte.

    Era un’ipotesi. In realtà ho deciso che la lucidità mi serve. Anzi, è il mio unico capitale. Addio alcol, fiamma che non crepita e non riscalda.

    Adesso però dovrei alzarmi, anche se sarebbe più piacevole ritrovare il sonno nel tepore prodotto con i miei trentasette gradi costanti, salvo febbre, e aspettare che qualcuno, là fuori, si accorga della mia assenza. Cosa accadrebbe? Il telefono che squilla a vuoto sulla mia scrivania, qualcuno che brontola per una pratica inevasa. Queste cose banali denuncerebbero la mia scomparsa.

    Ma no, andrò in ufficio anche oggi.

    Tutte le mattine, per cominciare mi butto un po’ d’acqua fredda in faccia. Potrei piangere come il neonato per la prima volta a contatto con l’aria. Con questa sensazione sulla pelle si impara ad affrontare la vita.

    La doccia la faccio per gli altri. Se dovessi smettere di lavarmi, i colleghi si allarmerebbero, è sicuro. Il capo mi convocherebbe per chiedermi se c’è qualcosa che non va. Più che altro preoccupato perché questo chiaro sintomo di malessere porterebbe inevitabilmente a un calo di produttività.

    Lascio scorrere l’acqua caldissima che in capo a pochi minuti riempie il bagno di vapore. Così, quando mi ritrovo davanti allo specchio, vedo solo l’immagine fosca del mio fantasma. Potrebbe essere chiunque quella sagoma dai contorni sfumati. Quando scenderò in strada mi diranno gli altri chi sono. C’è persino chi ti saluta chiamandoti per nome.

    Da anni porto sempre la stessa pettinatura. I capelli ricrescono e li faccio accorciare. Almeno una cosa, nella vita, che torna ciclicamente al punto di partenza.

    Ma ora devo vestirmi. La mia tendenza alla semplificazione mi ha fatto selezionare tre cambi invernali e tre estivi. Sono su per giù della stessa foggia, con tonalità del tutto simili, ma non uguali. Dev’essere chiaro che mi presento con abiti puliti e in ordine, sempre per non suscitare sospetti di incuria. Però preferisco non discostarmi troppo dal modello discreto che ho scelto, perché la gente percepisce soprattutto le variazioni. Se dovessi presentarmi al lavoro indossando qualcosa di inconsueto, subito sarebbe notato e scatterebbe, inevitabile, l’osservazione. Detesto dovermi giustificare, spiegare cose che mi interessano così poco. So benissimo che i miei colleghi scelgono i capi con cura, spesso indossando qualcosa di particolare, magari scovato in un negozio di una città lontana, quando si sono arrischiati a entrare in un quartiere sconsigliato dalle guide.

    A me non interessa distinguermi. Ricordo la mia insegnante di Filosofia al liceo, probabilmente stava concionando di Estetica, e ci faceva notare che nessuno esce di casa con l’intento di apparire brutto. Forse voleva dimostrare la nostra naturale inclinazione al bello. Lei che meditava correndo a vuoto sul tapis roulant, così ci raccontava. Filosofa di scuola peripatetica, verosimilmente.

    Mi vesto e controllo allo specchio di non avere commesso qualche sbaglio. Tutto qui. Alle volte sono già in strada e mi accorgo che ho dimenticato di guardarmi allo specchio. Pazienza, il margine di errore è comunque ridotto. La mia alleata all’esterno è la giacca sfoderabile tre stagioni. D’estate non serve e nelle altre tre mi arrangio inserendo e togliendo lo strato con l’imbottitura. L’ho presa color panna, in modo che si impasti bene in qualsiasi sfondo urbano.

    Sul tavolo della colazione trovo le briciole del giorno prima o della settimana prima. Quello che è, non mi interessa studiare l’archeologia dei miei pasti. Cerco di non scontentare le richieste della mia fisiologia. C’è tra noi un mutuo accordo di non belligeranza.

    Poiché devo mangiare, è ineludibile, cerco di alleggerire il compito nell’unica maniera che conosco: ascoltando la musica di Niccolò Paganini.

    Il mattino il tempo è poco, quindi scelgo sempre tre Capricci. Un’opera dedicata agli artisti, che sono pochi e, d’altronde, anche la musica è

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