Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il paese delle villette
Il paese delle villette
Il paese delle villette
E-book211 pagine3 ore

Il paese delle villette

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

IL PAESE DELLE VILLETTE è il racconto della vita di Salvatore che coinvolge tutta la famiglia e il paese in cui è nato e cresciuto: Sisini in Sardegna. Primo figlio maschio di una famiglia numerosa, l'autore ripercorre la sua storia privata, che si fa racconto collettivo della Sardegna rurale degli anni cinquanta e precedenti. Il lavoro nei campi, i sacrifici, i frugali svaghi, la vita rurale, il progresso e l'avvento di nuove tecnologie. Infine l'emigrazione al nord in cerca di condizioni migliori.
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2022
ISBN9791221421026
Il paese delle villette

Correlato a Il paese delle villette

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il paese delle villette

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il paese delle villette - Salvatore Mascia

    CAPITOLO 1

    Era il 12 aprile dell’anno 1949 quando, al sorgere del sole, arrivò in paese l’ostetrica viaggiando sulla canna della bicicletta di Giginu Mascia. Nel piccolo paese non esistevano automobili, per cui, quando c’era da accompagnare qualcuno, lo si faceva sulla canna della bici.

    Giginu era uscito di casa verso le cinque, passando ad avvertire la suocera Peppina Lecca, la quale andò subito ad assistere la figlia in attesa che arrivasse la levatrice. Nel frattempo, nel piccolo paese si sparse la voce che Maria Pistis stava partorendo. Un folto gruppo di paesani si riunì all’incrocio della via, di fronte alla finestra della camera da letto nella quale, verso le 6.30, era entrata la levatrice. Le persone si sfidavano per indovinare il sesso del nascituro; molti pensavano sarebbe nata una femmina, perché Maria Pistis ne aveva già avute cinque e si diceva che non fosse capace di fare un maschio. Intanto la folla in strada cresceva e l’argomento era sempre lo stesso: sarà femmina o questa volta riuscirà a fare il maschio?

    Dalla strada si sentiva tutto ciò che si diceva: la piccola apertura per la luce che era la finestra non aveva serratura. Era una piccola apertura nel muro con due ferri incrociati, come se fossero delle barre antintrusione. Anche le due porte da cui si accedeva alla casa non venivano chiuse a chiave, tutto il piccolo paese era come una famiglia.

    Verso le sette, si sentì un pianto seguito da una voce potente e soddisfatta: «È maschio!». Tutti i presenti si rallegrarono, qualcuno si allontanò per comunicare ai conoscenti del paese che finalmente Giginu Mascia aveva avuto un maschietto.

    In un paese di contadini, dove la vita comincia all’alba, era normale essere fuori casa a quell’ora. Il nuovo quesito era: come lo chiameranno? Era una domanda a cui era facile rispondere, infatti erano tutti d’accordo sul fatto che il figlio de su sozzu si sarebbe chiamato Salvatore. Erano giunti subito a questa conclusione perché pochi mesi prima era morto il nonno, Salvatore Mascia, e secondo le usanze del posto il nome non poteva essere che quello. Il giorno dopo, infatti, Giginu, con la sua vecchia bicicletta, si recò a Senorbì (comune a circa 6 km di distanza dalla frazione Sisini) per registrare il primo figlio maschio. Fu chiamato proprio Salvatore, come tutti erano convinti in paese.

    Nella famiglia e nel paese c’era tanta gioia per la nascita, ma mai quanto quella dei genitori e delle tre sorelle (le altre due erano già morte). Il più contento fu lo zio fratello di mia mamma Maria, che di professione faceva il pastore. Erano fratelli perché avevano lo stesso padre, e lui era molto affezionato alla sorella, forse perché era la sola persona rimasta parte della sua famiglia. Nella famiglia in cui sono cresciuti c’erano cinque tra fratelli e sorelle, dove nessuno dei cinque poteva dire di essere fratello o sorella sia di madre che di padre.

    C’erano:

    Renzo e Maria Pistis con lo stesso padre ma di madre differente.

    Maria Pistis e Sonia, avevano la stessa madre.

    Sonia e Alda, cambiava la madre.

    Alda e Carlo avevano un padre diverso.

    Erano tutti cresciuti nella casa del padre di Renzo e Maria Pistis. Pistis Mundicu.

    Lo zio Renzo era un tipo preciso nelle faccende che lo riguardavano ed era generoso verso la famiglia della sorella. Era molto felice di avere finalmente un nipote maschio, perciò volle fare subito qualcosa di concreto per lui: andò fra le sue pecore, scelse un’agnella, la più bella della nuova leva, per formare un gregge da donare al suo nuovo e primo nipote.

    L’agnellina la chiamò Cannaca (collana). Il nome le si addiceva, perché sotto al collo aveva due barbigli come due ciondoli. Questa pecora aveva anche un’altra peculiarità: partoriva due volte l’anno, facendo due agnelli in autunno e uno in primavera (caratteristica comune a molte pecore). Particolarità più rara era invece quella della sua prima figlia femmina, che fu chiamata Cannachedda (collanina): anche lei partoriva in autunno e primavera, ma dava alla luce tre agnelli in autunno e due in primavera, cosa che stranamente avveniva regolarmente tutti gli anni.

    Lo zio era un uomo di vecchio stampo, infatti allevava tutte le agnelle femmine discendenti di Cannaca e portava tutti i maschi alla famiglia per mangiarli. Questo succedeva perché di solito un gregge è formato prevalentemente dalle pecore e non dai montoni, anche se servono pure quelli, ma c’erano già. Ogni mattina, lo zio portava alla mia famiglia il latte delle pecore per fare colazione, oltre che per una semplice minestra con il latte, una pietanza molto comune nelle famiglie dei pastori; quello che avanzava veniva venduto in paese.

    Nel paese non c’erano altri greggi oltre a quello del signor Arena, che trascorreva i mesi invernali in montagna.

    Lo zio viveva sempre con le pecore e veniva a casa nostra per mangiare. Quando era ora di pranzo o cena, si aspettava che arrivasse per cominciare a mangiare. Era sempre puntuale e ogni volta si sedeva a capotavola, vicino alla porta. Il locale adibito a sala da pranzo non era in piano, i pavimenti non erano piastrellati, ma delle pietre irregolari erano fissate a terra con del fango di terra bianca a riempire le fughe, c’era una pendenza verso il camino. Quando pioveva era necessario mettere per terra (di solito in mezzo alla stanza ma non sempre) un secchio, oppure una grossa pentola, per raccogliere l’acqua che gocciolava dal tetto. Durante la notte si sentivano di continuo le gocce d’acqua che cadevano nel secchio, era un ticchettio continuo. Per illuminazione avevamo una lanterna ad olio appesa alla soffitta in corrispondenza con il centro del tavolo; aveva uno stoppino che era da estrarre (di qualche millimetro ogni giorno) e poi poteva essere acceso con il solito fiammifero allo zolfo.

    Quando si mangiava lo zio era solito aggiungere pezzetti di pane alla minestra rischiando di far traboccare il brodo. Per evitare questo faceva delle fettine di pane da mettere sotto come spessori, in modo da alzarlo nella parte bassa fino a portarlo in piano. A quel punto poteva inzuppare il pane nel brodo. Finito il pasto diceva poche parole, si prendeva qualche altra fetta di pane, da mangiare nei campi con del companatico vegetale, come cardi, pere, crescione o del formaggio pecorino stagionato, e poi tornava dalle sue pecore.

    Non avevo ancora due anni quando la zia Sonia mi regalò un vestitino: un paio di pantaloncini di velluto rosso a gamba corta con due bottoncini neri all’esterno della coscia, una camicetta bianca di pizzo con bottoni neri e un gilet anch'esso in velluto rosso, con due bottoncini neri per allacciarlo. Ero felicissimo. Fu allora che mia zia cominciò a raccontarmi gli avvenimenti riguardanti il giorno che sono nato. Ha continuato a raccontarmeli fino a che non fu certa che avessi capito veramente.

    In quel periodo lei lavorava come domestica a casa della famiglia Arena, la cui casa era parallela alla nostra; la finestra della cucina era di fronte alla finestra della camera da letto di mia mamma, perciò la zia poteva seguire in prima persona tutti gli avvenimenti. Lo zio non aveva né moglie né figli nonostante non fosse più tanto giovane. Era molto affezionato a me e voleva che diventassi un buon pastore, onesto come lui. Spesso mi portava a vedere la mia pecora con le sue agnelle, ci teneva tanto a farmi notare che anche le figlie avevano i due barbigli sotto il collo. Quando mi portava a vederla, lo zio mi dava anche qualche consiglio riguardo a come si accudiscono le pecore.

    All’età di circa tre anni, scoprii che un altro uomo si interessava a me. Era il signor Arena Matteo. Questo signore era proprietario di quasi tutto il paese di Sisini oltre alla parte più fertile di Senorbì; si diceva che fosse proprietario anche di metà Gesico, e di una grande estensione di bosco nel comune di Siurgus, circa 140 ettari, dove trascorrevano l’inverno le sue tante pecore custodite da due pastori adulti.

    CAPITOLO 2

    Mio padre lavorava alle dipendenze della famiglia Arena, faceva su sozzu, in pratica dirigeva il personale addetto ai lavori agricoli. Come personale c’erano tutti gli uomini del paese che volevano lavorare per lui. Assumeva tutti, anche i ragazzi, che finite le scuole elementari diventavano ottimi assistenti e apprendisti per curare le mucche e i buoi che possedeva. In certi periodi assumeva anche ragazze e donne, per esempio per seminare i legumi, raccogliere le mandorle e le olive, fare la vendemmia e spigolare.

    Matteo Arena aveva circa settant’anni, e tutte le domeniche mattina alle dieci e mezza andava a messa. Anche io ci andavo: la mamma mi mandava da solo, mi sedevo nei banchetti piccoli davanti sulla sinistra riservati ai bambini, ma al ritorno verso casa il signor Arena mi prendeva per mano e insieme ci incamminavamo verso casa. Mi parlava in dialetto del lavoro e delle mie pecore, e io, anche se piccolo, stavo attento ed ero interessato a ciò che mi diceva. Col tempo seppi che era il padrino di mio zio, quello che mi aveva regalato l’agnellina.

    La porta di casa mia era quasi di fronte alla sua. Spesso mi lasciava vicino alla mia porta, mentre altre volte mi portava sotto il portone di casa sua: mi diceva di aspettare e poco dopo tornava con un wafer alla crema per me. Una di quelle volte restai nel portone a lungo, lui non tornava ma io non demordevo, stavo lì ad aspettare fiducioso anche se il tempo passava. Aspettai fino a che finalmente uscì. Probabilmente era stato avvertito da qualche cameriera, forse la zia Sonia che per tanti anni servì la loro famiglia. Finalmente lo vidi arrivare, dispiaciuto per il ritardo; in compenso mi diede due wafer.

    Un'altra volta, con molta serietà, mi disse: «Un giorno tutto questo sarà tuo». Io memorizzai quelle parole, anche se in quel momento non ne capivo il senso.

    La strada che attraversa il paese, la Strada Provinciale, era in terra battuta fino agli inizi degli anni Cinquanta, quando hanno aggiunto la ghiaia. Prima di allora percorrevo un pezzo di quella strada a piedi per andare dalle pecore con lo zio, che in estate le teneva in un recinto con una pergola per ripararle dal sole. Dentro al recinto c’era anche una sorgente dove le pecore potevano abbeverarsi.

    Un giorno, poco lontano dalle pecore, fu posizionato un frantoio per frangere le pietre, che venivano frantumate per ottenerne ghiaia. Il frantoio era al bordo della strada, vicino a una grande costruzione chiamata sa domu de sa machina (la casa della macchina), al cui interno si trovava la trebbiatrice per il grano, di proprietà della famiglia Arena. Questo frantoio veniva avviato la mattina e per tutto il giorno si sentiva solo quel frastuono, e quando si parlava era difficile capirsi. Il rumore continuò per tanto tempo, ma fu distesa la ghiaia dal paese di Suelli fino a quello di Siurgus.

    Finito il tratto di strada, circa dieci chilometri, il frantoio fu portato via. Nel paese tornò il silenzio e si poteva parlare di nuovo senza gridare.

    La castrazione dei tori

    Ogni tanto, nella stalla dell’azienda Arena, venivano castrati dei tori per farne dei buoi da domare per il lavoro nei campi. Era un lavoro pericoloso, perché per poter sterilizzare il toro bisognava prima prenderlo e legarlo, e non era facile quando erano spaventati. Durante l’inverno del 1953, degli operai cercarono di catturare un toro. Quella stalla non aveva porte, ma c’erano delle arcate aperte da cui entravano e uscivano i buoi; ciascuno andava a posizionarsi sempre nella stessa mangiatoia dove i bifolchi li legavano con una corda alle due corna. Ricordo una volta in cui un toro era dentro libero, gli uomini si posizionarono su ogni arcata per evitare che scappasse, o almeno così speravano. Quel toro percorse tutta la stalla a forma di L con una cinquantina di mangiatoie; arrivato all’ultima arcata, dove era posizionato il nonno, patrigno di mia mamma, decise di non fermarsi e il mio povero nonno finì calpestato, con un femore frantumato. Fu mandato un giovane in bicicletta a chiamare il dottore che abitava a Senorbì, il dottor Corallu; anche lui viaggiava in bicicletta e in breve tempo, circa un’ora, arrivò con tutto il necessario per l’ingessatura. Gli ingessò la gamba, dritta, che gli rimase così per il resto della sua vita. Dopo che il nonno fu ingessato, il mio babbo lo prese in spalla, lo portò a casa sua, posandolo nel letto che si trovava dall’altra parte della strada.

    La casa del nonno era divisa in due: da un lato della strada c’erano la cucina, il forno, il cortile e l’orto, dall’altra parte c’erano le stanze da letto. La camera da letto non era riscaldata, il camino in cucina era la loro unica fonte di riscaldamento. Fu procurato un braciere. Si prendevano le braci del camino, si attraversava la strada con le braci in un secchio (allora i secchi erano in lamiera zincata), quindi si versavano nel braciere con l’aggiunta di un po' di carbone se c’era e si soffiava per tenere le braci vive. Attorno a questo braciere, di giorno, c’erano spesso delle donne del paese sedute in cerchio, che parlavano fra di loro facendo compagnia al nonno. In una di queste occasioni mia madre, che era incinta di Rosa, stava seduta sulla sedia con le gambe accavallate. Aveva a cavalluccio sul piede il mio fratellino Samuele, che aveva quasi due anni e si dondolava pericolosamente vicino al braciere. Ero lì anch’io, in piedi accanto a loro, e improvvisamente vidi Samuele scivolare dal piede della mamma cascando seduto sulle braci. Indossava solo un grembiulino, non aveva altro per coprirsi. Una signora prontamente lo raccolse, ma quando lo tirò su gli restarono attaccate le braci a una natica,che continuava così la cottura. Samuele ovviamente urlava, la mamma dopo avergli alzato il grembiulino vide le braci ancora attaccate alla carne, le scrollò ma gli restarono profonde scottature, tanto che anche da grande gli si potevano contare i segni lasciati dalle braci. Da quel momento i malati da curare diventarono due. Non fu chiamato il dottore, ma le donne esperte si occuparono di curarlo subito, con gli unguenti che avevano a casa.

    Il toro in qualche modo fu catturato e castrato. Ma lasciò sul campo due persone da curare. Per sterilizzarlo si usavano un paio di tenaglie gigantesche che mio padre custodiva in casa. Quel giorno le aveva già portate in stalla, quindi erano a portata di mano. Dopo aver legato il toro per le corna, veniva immobilizzato legandogli le zampe. Le grosse tenaglie venivano passate sul fuoco fino a raggiungere una temperatura elevata ma non rovente, poi si prendeva la pelle nel punto alto dei testicoli e si chiudevano le tenaglie con dentro i cordoni che collegano i testicoli alla vescicola seminale. Le tenaglie avevano un congegno che le bloccava, tenendole serrate per il tempo necessario affinché il cordone venisse interrotto. Quegli attrezzi in casa servivano anche a un altro scopo. Quando in famiglia tra fratelli e sorelle succedeva che qualcuno desse un morso a un altro, il babbo prendeva quelle tenaglie e diceva al colpevole: «Vieni che ti levo i denti, così non lo fai più». Era un ottimo deterrente: il colpevole, alla vista di quelle gigantesche tenaglie, in lacrime con le mani davanti alla bocca prometteva di non farlo più e la lezione finiva lì. Quelle tenaglie in casa erano come uno spauracchio.

    Altra situazione con un toro da castrare

    Quando mio padre non lavorava più per Arena, una mattina venne da noi un ragazzo a chiederci le tenaglie per castrare (po mallai in sardo), gli furono consegnate e lui le portò nella stalla dove c’era da castrare un toro. Prima però bisognava catturarlo. Era un lavoro quasi mai programmato, spesso veniva fatto quando improvvisamente si metteva a piovere, perciò i tori erano liberi, altrimenti quando era l’ora di mangiare andavano da soli a farsi legare, una volta sazi venivano liberati e diventava problematico legarli di nuovo prima dell’ora del pasto successivo.

    Anche stavolta si fece entrare il toro in stalla, un uomo era posizionato sotto ogni arcata e si cercava di legarlo. Ma il toro non era d’accordo e arrivato all’ultima arcata decise di uscire in cortile, passando sopra al malcapitato che si trovava in quell’arcata. Stavolta era toccato a uno che lavorava per l’azienda Arena da poco tempo. Aveva preso il posto di mio padre come amministratore dei lavoranti. Non era a conoscenza di ciò che pochi anni prima era successo a mio nonno, proprio sotto quell'arcata. Gli altri, che ne erano a conoscenza, avevano evitato quella posizione. Il toro arrivato a quel punto decise di uscire, non rispettando neppure il capo; lo calpestò, ma non gli ruppe nessun osso. Da quella volta, però, al signor Sozzu spesso venivano dei capogiri e gli capitava di perdere l’equilibrio.

    Non passò molto tempo da quel fatto, che il malcapitato si trovava per lavoro in riva al ruscello per controllare un innesto, sopra una scarpata molto alta. Perse l’equilibrio e precipitò giù nel ruscello atterrando con la testa sulla roccia. Uno degli operai che lo accompagnavano, avendo visto le condizioni della sua testa e lui che gridava «Agitoriu» (aiuto), corse fino alla stalla, aggiogò una coppia di buoi al carro e sempre di corsa col carro percorse i circa due chilometri che lo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1