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Radici: Vita e mangiari di un tempo nella campagna marchigiana
Radici: Vita e mangiari di un tempo nella campagna marchigiana
Radici: Vita e mangiari di un tempo nella campagna marchigiana
E-book177 pagine2 ore

Radici: Vita e mangiari di un tempo nella campagna marchigiana

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Info su questo ebook

Nella campagna marchigiana di un tempo quelli che generalmente si chiamavano poderi, invece, si dicevano terreni. Così si diceva: “Ho un terreno buono che è verso la collina, con una buona vigna, ma bella proprio”. E si diceva anche: “Lu fa la tera”, per significare uno che coltivava un fondo a mezzadria...Questo libro nasce dalla consapevolezza di perdere totalmente la memoria di un passato recentissimo e troppo frettolosamente scomparso e per questo privo di documentate certezze, e nello stesso tempo dal desiderio, oltre che dal dovere, di ricercarne almeno alcune testimonianze, forse le ultime possibili, ma ancora capaci di recuperarne, qua e là intatte, le memorie.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2014
ISBN9788874722600
Radici: Vita e mangiari di un tempo nella campagna marchigiana

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    Anteprima del libro

    Radici - Grazia Bravetti Magnoni

    G.B.M.

    LA COLONÌA

    Il terreno e la casa

    Il terreno

    Nella campagna marchigiana di un tempo quelli che generalmente si chiamavano poderi, invece, si dicevano terreni. Così si diceva: Ho un terreno buono che è verso la collina, con una buona vigna, ma bella proprio. E si diceva anche: "Lù fa la tèra", per significare uno che coltivava un fondo a mezzadria. Alcuni terreni potevano essere molto grandi ed estesi, anche più di venti ettari, cioè circa sessanta tornature, ma solitamente i poderi erano di dieci ettari.

    Padroni, amministratori, fattori e contadini misuravano i terreni in ettari, ma era consuetudine misurare la terra in tornature. Naturalmente erano misure locali che avevano le loro varianti in uso fin dai tempi antichi per cui il nome tornatura deriva da tornare e voltare per il movimento dei buoi aggiogati all’aratro.

    Un terreno di dieci ettari di solito serviva per una famiglia di dieci componenti, naturalmente con la possibilità che vi lavorassero tutti e dieci, senza bambini piccoli e senza i vecchi. I terreni non potevano essere tutti lavorabili allo stesso modo, negli stessi spazi, così si poteva prendere a mezzadria anche una famiglia di sole cinque persone, purché i figli fossero maschi. Si creava invece, un grosso problema, a chi aveva solo figlie femmine, a meno che il mezzadro si accontentasse di un terreno di pochi ettari. Una buona soluzione era che, sposandosi le figlie, i generi accettassero di lavorare con i suoceri, per cui i generi sarebbero stati considerati degli ospiti, per questo talvolta canzonati dai falsi amici, magari invidiosi, che avrebbero detto: Bravo, sei andato a lavare i pantaloni a casa della suocera!.

    Il contratto di mezzadria prevedeva che il contadino, al quale era concesso il terreno, dovesse lavorare la terra, governare le bestie, dare la metà del ricavato dei raccolti e della stalla al padrone, oltre a tanti altri impegni ed obblighi, non solo secondo i patti agrari, ma anche seguendo le diverse consuetudini locali.

    Spesso il contadino aveva rari rapporti col padrone, anche perché molti dei grandi proprietari vivevano nelle città, soprattutto a Roma, e visitavano i loro terreni sì e no una volta all’anno, indifferenti al famoso detto L’uocchie de lu patrò n’grassa lu cavallo. A badare la proprietà ci pensavano non tanto gli amministratori quanto i fattori, i quali, oltre a fare l’interesse del padrone, non disdegnavano al proprio, sì che alla fine della loro carriera potevano diventare proprietari, loro stessi, di un terreno, o anche più. Il fattore era una figura di solito molto rispettata, spesso temuta dal contadino, anche perché più esoso ed avido del padrone stesso a cui non spettavano altrettante regalie come al fattore. Infatti a Natale gli spettava un paio di capponi; a Carnevale due galline; a Pasqua l’ovo pinto, cioè da trenta a quaranta uova. Dopo la mietitura il contadino ed il fattore facevano insieme il cosiddetto conto dei cavalletti, un’usanza che consisteva nel contare i covoni, detti cavalletti, che erano ancora nei campi, quindi prima di fare il barco si poteva avere in anticipo un’idea di quanti quintali di grano si sarebbero avuti. Oltre a tutto ciò, sempre al fattore, erano dovuti due pollastri nel caso prendesse moglie, ed ancora altri due in occasione della nascita del primo figlio, maschio, s’intende.

    La casa

    La casa contadina, nelle Marche, era solitamente a pianta rettangolare, a due piani, con un corpo centrale e altri due annessi ai lati.

    Al piano terra si trovava, proprio al centro, la stalla, e a un lato, solitamente, la cantina, da un altro lato il forno. Un po’ discosti anche tra loro il porcile e il pollaio. Il portico, come invece in altre regioni, non c’era.

    Salendo la scala esterna si arrivava al primo piano, ove subito si trovava la grande cucina, e ai lati le porte delle diverse camere da letto. L’ultima stanza, o a destra o a sinistra, e che possibilmente avesse non solo una ma due finestre per l’areazione, era il magazzino, ma a volte, per opportunità particolari, poteva trovarsi invece a pianterreno. Dalla cucina, tramite una botola, scendendo una scaletta a pioli, si poteva accedere direttamente alla stalla sottostante, un sistema utile per poter tenere direttamente sotto controllo le bestie ma soprattutto poterle governare senza uscire all’aperto, particolarmente d’inverno o comunque in caso di maltempo.

    La casa, spesso vecchia e con scarsa possibilità di buona manutenzione, poteva essere piena di correnti e spifferi, i pavimenti talvolta sconnessi ed il tetto non sempre a prova d’acqua. L’unico luogo confortevole era la grande cucina col suo focolare, in dialetto la rola, ricco di mille possibilità. Era poi lì che, dalla fine d’Autunno all’inizio della Primavera e nelle sere dovute, ci si faceva la vegghia, la veglia, alla luce de la luma o della lampada all’acetilene, e lì potevano arrivare alcuni delle case vicine, e si giocava alle carte bevendo qualche bicchiere, le donne cucivano chiacchierando, i bambini forse disturbavano, i giovani speravano che lì, prima o poi, arrivasse l’amore. Poteva anche capitare che venisse qualcuno bravo a suonare la fisarmonica, o il mandolino, o un altro capace di raccontare leggende, favole, le storie del Guerrin Meschino, o altre delle lotte contro i Mori, storie trovate in qualche libro al mercato. Poi, per Carnevale, nelle sere adatte, la cucina, insieme all’accostato magazzino, si trasformava in vera e propria sala da ballo con tanto di bettolino.

    Solo in alcune famiglie, scarse di legna da ardere, il luogo delle chiacchiere diventava la stalla.

    L’acqua in casa non c’era e si andava a prenderla al pozzo. Il gabinetto consisteva in una buca scavata dietro al pagliaio, oppure in un capannetto vicino al letamaio, e d’Inverno ci si arrangiava nella stalla.

    Il bagno non si faceva spesso, ma era d’obbligo in caso di visita del dottore, o in una occasione importante o nell’approssimarsi delle grandi feste. Quando era Estate ci si lavava di fuori, nel fiume o nel rio vicino, o nella vasca di pietra presso il pozzo, sull’aia, dove anche si abbeveravano gli animali.

    D’Inverno il bagno se non si faceva nella stalla si faceva lì, in cucina, nel mastello del bucato, riempito di acqua scaldata nel caldaro al fuoco del camino. Allora tutti quelli della famiglia dovevano essere pronti ad entrare a turno nel mastello, lavarsi in fretta, che dopo il primo, il più fortunato, doveva entrarvi il secondo e via via fino agli ultimi che erano i bambini, a cui non piaceva lavarsi e quindi non litigavano tra loro come facevano i grandi, che avrebbero voluto potersi lavare, almeno ogni tanto, in un’acqua pulita e con un po’ di calma.

    Le camere da letto erano rudimentali, e solo dopo la Seconda Guerra Mondiale comparvero le reti e i materassi di crine o di lana, che altrimenti tutti dormivano sui sacconi delle foglie di granturco, rinnovati ogni anno dopo la spannocchiatura.

    In Inverno le lenzuola, sempre fredde e umide, si scaldavano con due fantastici oggetti, conosciuti in parte del mondo contadino con il nome di prete e suora. Il prete era un manufatto in legno realizzato in modo da poter tenere sollevate le coperte e per contenervi un coccio, detto suora, ove si mettevano le braci del camino in modo da scaldare il letto senza il pericolo di bruciarlo.

    Un bell’abbellimento della casa rurale marchigiana erano i molti vasi di gerani o di garofani che alle donne piaceva mettere alle finestre delle camere.

    Il magazzino

    Un’altra delle stanze più importanti della casa colonica era il magazzino, che si diceva anche gamanzì, secondo poi i vari luoghi e toni dialettali. Il magazzino non era una stanza qualsiasi. Pur essendo solitamente al primo piano, non doveva essere vicino alla cucina ma, come la cucina, doveva essere abbastanza grande. Inoltre non doveva essere umido, ma fresco ed aerato, e per questo era bene vi fossero due finestre, da potersi ben chiudere quando occorreva. Nel magazzino, steso sul pavimento, vi si conservava il grano. Abbastanza spesso qualcuno della casa veniva a rigirarlo e smuoverlo con il palò, una grossa e larga pala di legno. D’Estate, quando potevano, i bambini più piccoli ci entravano nel magazzino, per fare lo scivolo e le capriole sul grano, che in quella stagione ancora ce ne era tanto e a ruzzolarcisi dentro si provava una particolare sensazione di piacere e di fresco. Ci si tenevano, volta per volta, i sacchi di farina andata a macinare al mulino. Oltre al grano, che era la cosa più importante, il magazzino serviva per tante altre cose, mais e orzo, ma anche per conservare le patate, che si mantenevano in delle cassette di legno. Poi ci si tenevano le mele, le pere, le mele cotogne e le nespole, conservate su di un leggero strato di paglia che, come diceva il Babbo, Col tempo e con la paglia, si maturano le nespole e la canaglia.

    Era importante, sui travi di legno del soffitto, appesi a dei chiodi o a delle canne, metterci dei grappoli d’uva, e un pochi, in rispetto alla tradizione, servivano per le feste di Natale e Capodanno, ma in gran parte si sarebbero usati per, come si diceva, dare le grane al vino, o meglio a una parte del vino per aumentarne così la gradazione alcolica e renderlo anche un po’ frizzante. C’era un’altra zona dove si tenevano i cereali e altro ch’era da seccare, e poi ancora i prodotti per la semina. Insomma nel magazzino c’era sempre d’altro e di più. Il bello poi arrivava verso la fine del Carnevale quando tanti dei prodotti erano già stati usati e s’era già creato parecchio spazio vuoto. Era allora che si permetteva ai giovani di ripulire e risistemare tutto il magazzino così da potervi fare qualche festa, invitando gli amici, con qualcuno che sapesse suonare bene una fisarmonica e un mandolino. Qualche mamma si rendeva disponibile per dei dolci che del vino ce n’era sempre anche se arrivava, avendo capito che c’era festa, qualcuno non previsto o addirittura sconosciuto. L’unica cosa che alla fine mancava era qualche sedia in più per gli anziani, ma bene o male ci si arrangiava, che quel che valeva, in quei momenti, era solo tutti divertirsi.

    Il forno

    Opposto alla stalla, appena di fianco alla scala, oppure di poco discosto dalla casa, c’era il forno, una modesta costruzione in mattoni, con sotto il vano per la legna, e sopra l’apertura del forno da chiudersi col coperchio di ferro. Nel forno il pane si cuoceva di solito il Sabato, e se ne facevano tante grosse pagnotte che, una volta cotte, venivano allineate sull’opportuna asse, in cucina, coperte poi con gli sparò, i grossi e lunghi canovacci di cotone bianco. Poi, approfittando della giusta temperatura, vi si poteva cuocere di tutto, dal pollame, al pesce, ai dolci, secondo i mesi, le stagioni, la tradizione e le necessità. Settembre ed Ottobre era il momento adatto per i padelloni di uva che poi si sarebbe conservata nei cocci, da usarsi o come marmellata, o come condimento per la polenta, o per cuocervi i biscotti col mosto. Tra Ottobre e Novembre vi si potevano cuocere le olive, ma quelle che durante la raccolta apparivano le più belle e grosse. Allora si mettevano in una terrina, con solo una goccia d’olio

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