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Il profumo delle foglie di tè
Il profumo delle foglie di tè
Il profumo delle foglie di tè
E-book515 pagine7 ore

Il profumo delle foglie di tè

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Info su questo ebook

«Ricco e incredibilmente evocativo, il miglior romanzo dell’anno!»
Sunday Express

Numero 1 in Inghilterra
Tradotto in 19 Paesi

Londra, anni Venti. Gwendolyn Hooper, giovane donna inglese appena sposata, si trasferisce nella lontana isola di Ceylon per raggiungere il marito. Ma l’uomo che le viene incontro nella piantagione
di tè non è lo stesso di cui si era innamorata in Inghilterra tempo addietro. Distante e indaffarato, Laurence trascorre le giornate nella piantagione, lasciando la sua sposa da sola a occuparsi della casa, della servitù e delle nuove incombenze. La grande casa coloniale, agli occhi di Gwendolyn, appare un luogo misterioso, con porte chiuse a chiave e indizi di un torbido passato: in un baule polveroso è nascosto un vecchio velo da sposa ingiallito e le ombre del giardino celano una piccola tomba… Quando Gwen rimane incinta, suo marito è finalmente felice e tutto sembra andare per il verso giusto, ma c’è poco tempo per festeggiare. Al momento del parto la neomamma dovrà prendere una decisione terribile, di cui non potrà fare parola con nessuno, neanche con Laurence. Quando, infine, arriverà il momento della verità, Gwen sarà in grado di spiegare che cosa ha fatto e perché? 
Un’appassionante storia di tradimenti, colpe e segreti indicibili che avvince il lettore e non lo lascia più andare.

Numero 1 in Inghilterra
Tradotto in 17 Paesi

«Ricco e incredibilmente evocativo!»
Sunday Express

«Una fuga in piena regola nel passato.»
Independent

«Un racconto avvincente di amore, gelosia, avidità e tragedia.»
Woman

«Sono rimasta incantata dall’inizio alla fine.»
Deborah Rodriguez
Dinah Jefferies
È nata a Malacca, in Malesia, e si è trasferita in Inghilterra all’età di otto anni. Ha insegnato Studi teatrali e Inglese. Ha iniziato a scrivere nei cinque anni che ha trascorso in un piccolo villaggio sulle montagne andaluse. Ha esordito con il romanzo La separazione, pubblicato da Penguin in Inghilterra e in Italia dalla Newton Compton. Il profumo delle foglie di tè alla sua uscita ha raggiunto il primo posto dei più venduti in Inghilterra e vi è rimasto per diversi mesi.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2016
ISBN9788854192577
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    Anteprima del libro

    Il profumo delle foglie di tè - Dinah Jefferies

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    Indice

    Prologo

    Parte prima – La nuova vita

    Parte seconda – Il segreto

    Parte terza – Il sacrificio

    Parte quarta – La verità

    1212

    Titolo originale: The Tea Planter’s Wife

    Copyright © Dinah Jefferies 2015

    The author has asserted her moral rights.

    All rights reserved.

    Original English language edition first published by Penguin Books Ltd, London

    Traduzione dall’inglese a cura di Elisa Tramontin e Angela Ricci

    Prima edizione ebook: maggio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9257-7

    www.newtoncompton.com

    Dinah Jefferies

    Il profumo delle foglie di tè

    Newton Compton editori

    Prologo

    Ceylon 1913

    La donna si portò una sottile busta bianca alle labbra. Indugiò ancora per un istante, soffermandosi ad ascoltare le dolci e disperate note di un lontano flauto singalese. Rifletté sulla propria decisione, rigirandosela nella mente come un sassolino nel palmo della mano, poi sigillò la busta e l’appoggiò a un vaso di rose rosse appassite.

    L’antica ottomana si trovava in fondo al letto a baldacchino. Fatto di legno scuro, ai lati era ricoperto di raso moiré, con un coperchio di pelle imbottito. Sollevò il coperchio, tirò fuori l’abito da sposa color avorio e lo accomodò sullo schienale di una sedia, arricciando il naso all’odore nauseabondo delle palline di naftalina.

    Scelse una rosa, ne staccò il bocciolo e lanciò uno sguardo al bambino, felice che dormisse ancora. Al tavolo da toletta prese un fiore e se lo avvicinò ai capelli biondi; sottili fili di seta, diceva sempre lui. Scosse la testa e abbandonò il fiore. Non quel giorno.

    Sul letto i vestitini del bambino erano già sistemati in pile irregolari. Con la punta delle dita sfiorò il coprifasce fresco di bucato, ricordando che aveva trascorso ore a tesserlo, finché non le bruciavano gli occhi. Accanto agli abitini c’erano dei fogli bianchi di carta velina. Senza indugiare oltre piegò la piccola giacchina blu, la sistemò tra due fogli di carta e la posò sul fondo dell’ottomana zincata.

    Ogni capo fu piegato, sistemato tra la carta e poi aggiunto agli altri strati di cappelli di lana, scarpine, camiciole e tutine. Blu. Bianco. Blu. Bianco. In cima c’erano i fazzoletti di mussola e gli asciugamani, piegati in due. Quando ebbe finito esaminò il lavoro di quella mattina. Nonostante ciò che significava, guardandolo non impallidì.

    Le ciglia tremanti del bambino le rivelarono che si sarebbe svegliato di lì a poco. Doveva sbrigarsi. Il vestito che aveva scelto per sé era di seta orientale, di un vivido verde mare, con l’orlo che le arrivava all’incirca alle caviglie e con una fascia a vita alta. Dei vestiti arrivati da Parigi quello era il suo preferito. L’aveva indossato la sera della festa, la sera in cui era sicura che il bambino fosse stato concepito. Si fermò di nuovo. Forse indossarlo sarebbe stato interpretato come un risentito tentativo di provocazione? Non poteva esserne sicura. Adorava quel colore. Era ciò che diceva a se stessa. Si trattava solo del colore.

    Il bambino piagnucolò e cominciò ad agitarsi. Lanciò uno sguardo all’orologio, prese il bambino dal lettino, e sedendosi sulla poltrona a dondolo accanto alla finestra sentì una leggera brezza sfiorarle il collo. Fuori il sole era alto nel cielo e il caldo stava aumentando, da qualche parte nella casa un cane abbaiò e dalle cucine arrivava l’inebriante profumo di cibo.

    Aprì la camicia da notte, che rivelò un seno bianco come il marmo. Il bambino ci si strofinò il naso e poi si attaccò. Ciucciava con forza, al punto che i capezzoli le si erano infiammati e, per sopportare il dolore, fu costretta a mordersi il labbro. Per distrarsi si guardò attorno. In ogni angolo della stanza i ricordi si erano attaccati agli oggetti: il poggiapiedi intarsiato arrivato dal Nord; il paralume da comodino che aveva cucito lei stessa; lo scendiletto proveniente dall’Indocina.

    Non appena accarezzò la guancia del bambino, lui smise di mangiare, alzò la mano libera, e in un bellissimo e struggente momento, le sue dita delicate le sfiorarono il volto. Sarebbe stato il momento giusto per piangere.

    Dopo avergli fatto fare il ruttino, lo posò sul letto avvolto in un morbido scialle fatto all’uncinetto, e una volta vestito lo cullò con un braccio dando un’ultima occhiata in giro. Con la mano libera chiuse il coperchio dell’ottomana, gettò la rosa abbandonata in un cestino dei rifiuti laccato, e poi sfiorò con il palmo i fiori rimasti nel vaso, staccando i petali rovinati. Fluttuarono oltrepassando la busta bianca per cadere come gocce di sangue sul pavimento di mogano tirato a cera.

    Aprì la portafinestra e diede uno sguardo al giardino, poi per tre volte inalò il profumo del gelsomino. La brezza era cessata; il flauto taceva. Si sarebbe aspettata di provare paura, invece si sentiva pervasa da un’accogliente sensazione di sollievo. Era tutto lì, e bastava. Poi, decisa, iniziò a camminare, un inevitabile passo dopo l’altro, e mentre si lasciava la casa alle spalle immaginò la tonalità più chiara del lilla: il colore della tranquillità.

    Parte prima

    La nuova vita

    Capitolo 1

    Dodici anni dopo

    Ceylon 1925

    Con il cappello di paglia in mano, Gwen si sporse dalla balaustra ricoperta di salsedine e guardò di nuovo in basso. Per un’ora aveva fissato il colore cangiante del mare, seguendo con lo sguardo i pezzi di carta, le bucce d’arancia e le foglie trascinate dal vento. Ora che l’acqua era passata dal turchese scuro al grigiastro, sapeva che non poteva mancare molto. Si sporse un po’ di più per guardare un pezzo di tessuto argentato che scompariva alla vista.

    Quando suonò la sirena della nave – un suono forte, prolungato e ravvicinato – sussultò, staccando la mano dalla balaustra per la sorpresa. La borsetta di raso, un regalo d’addio della madre, con il suo delicato cordoncino di perline, le sfuggì di mano. Restando a bocca aperta allungò il braccio, ma si rese conto che era troppo tardi e la borsetta cadde nell’oceano, vorticò nelle acque sporche, e infine affondò. E insieme a essa il denaro e la lettera con le istruzioni di Laurence che stava all’interno.

    Si guardò intorno e sentì un’altra vampata di quel disagio che non era ancora riuscita a scrollarsi di dosso da quando era partita dall’Inghilterra. Non c’è posto più lontano dal Gloucestershire, aveva detto suo padre. Mentre la sua voce le riecheggiava in testa, rimase basita perché ne sentì un’altra, maschile, ma con un tono insolitamente smielato.

    «Prima volta in Oriente?».

    Abituata al fatto che i suoi occhi violacei e il suo incarnato chiaro attirassero sempre l’attenzione, si voltò a guardare, e fu costretta a strizzare gli occhi per l’accecante luce del sole.

    «Io… sì. Raggiungo mio marito. Ci siamo sposati da poco». Fece un bel respiro, solo per impedirsi di sciorinare tutta quanta la storia.

    Un uomo dalle spalle molto larghe e di media altezza, con un naso massiccio e occhi scintillanti color caramello, la stava guardando. Le ciglia nere, i capelli ondulati e la pelle scura e lucida la pietrificarono. Rimase a fissarlo, un po’ nervosa, finché lui non le sorrise.

    «È fortunata. Di solito a maggio il mare è molto più impetuoso. Un coltivatore di tè, suppongo», disse. «Suo marito».

    «Come fa a saperlo?».

    Allargò le mani. «Ci sono dei segni distintivi».

    Gwen si guardò il vestito beige: a vita bassa, ma a collo alto e maniche lunghe. Non voleva essere etichettata, ma si rese conto che se non fosse stato per la sciarpa di chiffon legata al collo, sarebbe potuta apparire trasandata.

    «Ho visto cos’è accaduto. Mi dispiace per la sua borsetta».

    «Sono stata una stupida», disse, sperando di non arrossire.

    Se fosse stata un po’ più simile a sua cugina Fran, avrebbe intavolato una conversazione, ma immaginando che quel breve scambio fosse finito, si voltò di nuovo per guardare la nave che si avvicinava a Colombo. Sulla scintillante città un cielo cobalto si allungava fino alle colline viola in lontananza, all’ombra degli alberi. Nell’aria risuonavano i versi dei gabbiani che si avventavano sulle piccole barche ammassate in acqua. L’eccitazione per ciò che stava facendo la scosse dentro. Laurence le era mancato, e per un momento si era concessa di sognarlo. Sognare non costava niente, ma la realtà era così eccitante che sentiva le farfalle nello stomaco. Prese una bella boccata di un’aria che avrebbe creduto salmastra, e si meravigliò del profumo di qualcosa di molto più forte del sale.

    «Che cos’è?», chiese, voltandosi verso l’uomo, il quale, come aveva intuito, non si era spostato.

    Lui fece una pausa e inspirò profondamente: «Cannella e probabilmente sandalo».

    «C’è qualcosa di dolce».

    «Fiori di gelsomino. Ci sono molti fiori a Ceylon».

    «Che bellezza», disse lei. Tuttavia, c’era qualcos’altro. Oltre al profumo seducente avvertiva un sentore acido.

    «E anche fognature, temo».

    Lei annuì. Forse era proprio quello.

    «Non mi sono presentato. Mi chiamo Savi Ravasinghe».

    «Oh». Fece una pausa. «Lei è… Voglio dire, non l’ho vista a cena».

    Lui fece una smorfia. «Non sono un passeggero di prima classe, se è ciò che vuole dire. Sono singalese».

    Fino a quel momento non aveva notato che l’uomo stava dall’altra parte della fune che separava le classi. «È un vero piacere conoscerla», disse, sfilandosi uno dei guanti bianchi, «mi chiamo Gwendolyn Hooper».

    «Allora dev’essere la nuova moglie di Laurence Hooper».

    Gwen toccò con il dito il suo grande anello di zaffiri di Ceylon e annuì sorpresa: «Conosce mio marito?».

    Inclinò la testa. «Ho incontrato suo marito, sì, ma ora temo di dovermi ritirare».

    Lei gli porse la mano, per salutarlo.

    «Le auguro ogni felicità a Ceylon, signora Hooper».

    Dal momento che l’uomo ignorò la sua mano, lei la lasciò cadere. Lui giunse i palmi davanti al petto, con le dita puntate verso l’alto, e fece un lieve inchino.

    «Che i suoi sogni si realizzino…». Rimase in silenzio per un istante, con gli occhi chiusi, e poi se ne andò.

    Gwen provò un po’ di sconcerto per le sue parole e per il bizzarro gesto di commiato, ma aveva in mente questioni più pressanti, perciò scrollò le spalle. Doveva sforzarsi di ricordare le istruzioni ormai perdute di Laurence.

    Fortunatamente la prima classe sbarcò per prima, e di conseguenza anche lei. Pensò di nuovo a quell’uomo e non poté non sentirne il fascino. Non aveva mai conosciuto qualcuno tanto esotico e sarebbe stato molto più divertente se fosse rimasto a tenerle compagnia. Ma ovviamente non poteva.

    Niente l’aveva preparata allo shock del caldo afoso di Ceylon, né ai colori stridenti, o al contrasto tra il bianco luminosissimo della luce e la profondità dell’ombra. I rumori la bombardavano: campane, corni, gente e insetti ronzanti la circondavano, vorticosamente, finché non si sentì come se l’avessero messa sottosopra, quasi fosse uno dei detriti che aveva visto galleggiare prima. Quando il rumore di fondo fu eclissato da una fortissima tromba, si voltò per guardare il pontile di legno, e rimase incantata alla vista di un elefante che alzava la proboscide in aria e barriva.

    Non appena si fu abituata a quello spettacolo, si fece coraggio e si diresse all’edificio dell’autorità portuale, sistemò il suo baule, e poi si sedette su una panchina di legno nell’aria calda e afosa, sotto la sola ombra del cappello, con il quale, di tanto in tanto, scacciava i nugoli di mosche che le brulicavano all’attaccatura dei capelli. Laurence aveva promesso di farsi trovare sulla banchina, ma di lui non c’era alcuna traccia. Provò a ricordare cosa le aveva detto di fare in caso di emergenza, e scorse di nuovo Mr Ravasinghe che stava uscendo dal boccaporto della seconda classe sul fianco della nave. Evitando di guardarlo, sperò di riuscire a nascondere l’imbarazzo e si voltò dall’altra parte per osservare le casse del tè che venivano disordinatamente caricate su una chiatta dall’altra parte del molo.

    L’odore di fognature si era da tempo impossessato della piccante fragranza della cannella, e ora si mescolava ad altri odori: grasso, sterco di bue, pesce marcio. Mentre la banchina si riempiva di altri contrariati passeggeri tormentati da venditori ambulanti che proponevano pietre preziose e seta, Gwen ebbe un crollo di nervi. Che cosa avrebbe fatto se Laurence non fosse arrivato? Gliel’aveva promesso. Lei aveva solo diciannove anni, e lui sapeva che non si era mai spinta oltre Owl Tree Manor se non per un paio di viaggi a Londra insieme a Fran. In un attacco di solitudine, l’umore le scese sotto terra. Era un vero peccato che sua cugina non fosse riuscita a partire insieme a lei, ma era stata trattenuta in Francia, e anche se Gwen si fidava di Laurence ciecamente, tutto considerato, non poté evitare di sentirsi un po’ triste.

    Uno sciame di bambini scuri mezzi nudi si intrufolò rapidamente tra la folla, tenendo in mano fasci di cannella, mentre, con enormi occhi imploranti, elemosinava qualche rupia. Un bambino di non più di cinque anni porse un fascio di cannella a Gwen. Lei se lo portò al naso e annusò. Il bambino parlò, ma Gwen non capì una parola e con tristezza constatò di non avere neanche una moneta locale da dare a quel monello, e nemmeno denaro inglese.

    Si alzò e s’incamminò, ci fu una breve folata di vento, e da qualche parte in lontananza arrivò un suono inquietante. Bum, bum, bum. Tamburi, pensò. Forti, ma non troppo. Non si allontanò molto dalla piccola valigia che aveva lasciato accanto alla panchina e quando udì Mr Ravasinghe che la chiamava, sentì la fronte imperlarsi di sudore.

    «Signora Hooper. Non può lasciare la valigia incustodita».

    Lei si asciugò la fronte con il dorso della mano. «La stavo tenendo d’occhio».

    «La gente è povera e opportunista. Venga, le porto io la valigia e le trovo un posto più fresco dove aspettare».

    «Lei è molto gentile».

    «S’immagini». La accompagnò spingendole il gomito con la punta delle dita, e si fece largo verso l’edificio principale del porto. «Questa è Church Street. Ora guardi laggiù, proprio in fondo ai Giardini Gordon, c’è il Suriya, o albero di tulipano, come lo chiamano».

    Lei guardò l’albero. Il grosso tronco aveva grinze profonde come le pieghe di una gonna e la chioma punteggiata da fiori di un arancione chiaro a forma di campana. Offriva una bellissima ombra.

    «Qui sotto è un po’ più fresco, sebbene con il caldo torrido del pomeriggio, e il monsone che non è ancora arrivato, proverà ben poco sollievo».

    «Dico sul serio», disse lei. «Non c’è bisogno che resti qui con me».

    Lui socchiuse gli occhi. «Non posso lasciarla sola, una straniera senza un soldo nella nostra città…».

    Contenta della sua compagnia, lei sorrise.

    Si incamminarono verso il punto che lui aveva indicato, e Gwen trascorse un’altra ora appoggiata all’albero, sudando e grondando sotto ai vestiti, chiedendosi cosa le fosse venuto in mente quando aveva accettato di andare a vivere a Ceylon. Il rumore si era amplificato, e sebbene lui le stesse accanto, circondato dalla folla, doveva comunque gridare per farsi sentire.

    «Se suo marito non arriva per le tre, spero non le dispiaccia se nell’attesa le suggerisco di accomodarsi al Galle Face Hotel. È arieggiato, ci sono ventilatori e bibite fresche e starà senz’altro meglio».

    Lei esitò, riluttante a lasciare quel posto. «Ma come farà Laurence a sapere che sono lì?»

    «Lo saprà. Ogni britannico di qualunque estrazione va al Galle Face».

    Gettò uno sguardo all’imponente facciata del Grand Oriental. «Non lì?»

    «Assolutamente no. Si fidi di me».

    Nella feroce lucentezza del pomeriggio, il vento le soffiò una nuvola di sabbia in faccia, facendole scendere le lacrime sulle guance. Gwen chiuse e riaprì gli occhi rapidamente, poi se li strofinò, sperando di potersi veramente fidare di lui. Forse aveva ragione. Si rischiava di morire con quel caldo.

    Poco distante da dove stava, sotto file e file di sventolanti nastri bianchi tesi da una parte all’altra della strada, si era formato un gruppetto compatto e un uomo vestito con un saio marrone emetteva un suono ripetitivo e acutissimo, in piedi al centro di un gruppo di donne variopinte. Mr Ravasinghe notò che Gwen li guardava.

    «Il monaco sta cantilenando il pirith», disse. «Viene spesso convocato al capezzale di un moribondo per garantirgli un buon passaggio. Credo sia qui perché in quel punto è accaduto qualcosa di malvagio, o forse è morto qualcuno. Il monaco sta tentando di purificare il luogo da ogni malevolenza rimasta invocando la benedizione degli dèi. A Ceylon crediamo ai fantasmi».

    «Siete tutti buddisti?»

    «Io sì, ma ci sono anche indù e musulmani».

    «E cristiani?».

    Mr Ravasinghe chinò la testa.

    Alle tre del pomeriggio non c’era ancora traccia di Laurence, e l’uomo tese una mano facendo un passo indietro. «Allora?».

    Gwen annuì, e lui chiamò uno degli uomini dei risciò, che indossava poco oltre al turbante e un lurido perizoma.

    Lei rabbrividì alla vista della magrezza di quell’uomo dalla pelle scura. «Io su quel coso non ci salgo».

    «Preferisce un carro trainato da buoi?».

    Lei si sentì arrossire mentre guardava il mucchio di frutti ovali e arancioni ammassati su un carro che aveva enormi ruote di legno e un tettuccio di stuoie.

    «Le chiedo perdono, signora Hooper. Non avrei dovuto prenderla in giro. Suo marito usa quei carri per trasportare le casse di tè. Prenderemo un piccolo calesse. Con un bue soltanto e una cappotta di foglie di palma».

    Lei indicò i frutti arancioni. «Cosa sono quelli?»

    «Noci di cocco. Si raccolgono per il latte. Ha sete?».

    Sebbene fosse molto assetata, Gwen scosse la testa. Sulla parete dietro a Mr Ravasinghe un grande manifesto mostrava una donna dalla pelle scura che teneva in equilibrio sulla testa un cesto di vimini e portava un sari giallo e rosso. Era scalza, alle caviglie aveva dei braccialetti d’oro e sulla testa un foulard giallo. tè mazzawattee pubblicizzava il manifesto. Le mani di Gwen divennero sempre più umidicce e un’ondata di panico la invase. Era così lontana da casa.

    «Come può vedere», stava dicendo Mr Ravasinghe, «le macchine sono veramente rare e il risciò è di certo più veloce. Se ciò la turba, posso cercare di procurarmi un cavallo e una carrozza. Oppure, se è d’aiuto, posso accompagnarla con il risciò».

    Neanche a farlo apposta, una grande macchina nera arrivò suonando il clacson e facendosi largo tra la folla di pedoni, ciclisti, carri e carrozze. Schivò per un pelo numerosi cani che dormivano. Laurence, pensò Gwen in un impeto di sollievo, ma quando guardò all’interno del veicolo che passava, vide soltanto due grasse donne europee di mezz’età. Una di loro si voltò a guardare Gwen, con un’espressione di disapprovazione.

    Va bene, pensò Gwen, spronata ad agire, e risciò sia.

    Uno sciame di palme sottili ondeggiava nella brezza all’esterno del Galle Face Hotel. L’edificio sorgeva accanto alla riva dell’oceano, alla maniera britannica. Mr Ravasinghe la salutò all’orientale, e con un sorriso molto caloroso. A Gwen dispiacque vederlo andare via, poi, superate le due scalinate, si dispose all’attesa al discreto fresco del Palm Lounge. Si sentì immediatamente a casa. Chiuse gli occhi, felice di avere una piccola tregua dal quasi totale sconvolgimento dei sensi. Il riposo non durò a lungo. Era fin troppo consapevole dello stato penoso in cui l’avrebbe trovata Laurence, se fosse arrivato in quel momento, e non era quella l’impressione che voleva fare. Sorseggiò il suo tè di Ceylon e poi guardò verso i tavoli e le sedie disposte sul pavimento di tek tirato a cera. In un angolo un discreto segnale indicava la toilette per signore.

    Nella stanza piena di specchi e delicatamente profumata, si sciacquò il viso, che si rifletteva sulle molteplici superfici, e applicò uno strato di cipria Après L’Ondée, che fortunatamente era stata riposta al sicuro nella sua piccola valigetta e non nella borsetta caduta in acqua. Si sentiva appiccicosa, con il sudore che le correva sotto le braccia, ma si risistemò i capelli, raccogliendoli ordinatamente sulla nuca. Quei capelli erano la sua somma gloria, diceva Laurence. Erano neri, lunghi e ondulati. Quando lei gli aveva detto che stava pensando di tagliarli corti come quelli di Fran, in stile charleston, lui l’aveva guardata inorridito, e stirandole un ricciolo sulla nuca, si era piegato in avanti e le aveva strofinato il mento sopra la testa. Poi, con i palmi ai lati del viso, sostenendole i capelli con le dita, l’aveva squadrata.

    «Non tagliarli mai. Promettimelo».

    Lei aveva annuito, incapace di parlare: il contatto con le sue mani era così piacevole da scatenarle una serie di sensazioni mai provate.

    La loro prima notte di nozze era stata perfetta sebbene non avessero mai dormito e lui si fosse dovuto alzare prima dell’alba per raggiungere Southampton in tempo per imbarcarsi verso Ceylon. Nonostante fosse scontento del fatto che lei non partisse con lui, erano d’accordo sul fatto che il tempo sarebbe trascorso in fretta, e a lui non era importato che lei rimanesse per aspettare Fran. Gwen si era pentita di quella decisione nel momento in cui Laurence era partito: non aveva proprio idea di come avrebbe sopportato la lontananza. Con il suo modo di fare accattivante, non era mai stata a corto di pretendenti, ma aveva amato Laurence dal primo momento in cui l’aveva notato alla serata di musica a cui l’aveva portata Fran a Londra, e quando lui le aveva sorriso e le era andato incontro deciso a presentarsi, lei era già perduta. Si erano visti tutti i giorni da quella sera in poi e quando lui le aveva fatto la proposta, Gwen aveva sollevato il volto in fiamme e senza alcuna esitazione aveva detto sì. I suoi genitori non erano stati molto contenti che un vedovo di trentasette anni volesse sposarla, e suo padre aveva cercato di persuaderla, ma era rimasto colpito quando Laurence si era offerto di lasciare un amministratore al comando della piantagione e ritornare a vivere in Inghilterra. Ma Gwen non aveva voluto sentire ragioni. Se Ceylon era il luogo a cui apparteneva il cuore di Laurence, anche il suo cuore sarebbe appartenuto a quel posto.

    Non appena chiuse la porta della toilette dietro di sé, lo vide in piedi di spalle nella grande hall e le mancò il respiro. Si toccò il girocollo di perle, sistemando la goccia blu al centro, e sbalordita dall’intensità delle proprie sensazioni, rimase immobile a godersi l’immagine di lui. Era alto, i capelli castani e corti, un po’ brizzolati sulle tempie, e una bella schiena ampia. Era un prodotto uscito dal college di Winchester, e dava l’impressione che la sicurezza gli scorresse nelle vene: un uomo adorato dalle donne e rispettato dagli uomini. Eppure leggeva Robert Frost e William Butler Yeats. Gwen lo amava per questo, e perché aveva capito che lei non era affatto la ragazzina timida che la gente si aspettava che fosse. Come se avesse sentito i suoi occhi addosso, Laurence si voltò di scatto. Nei suoi intensi occhi marroni e nell’ampio sorriso che le fece mentre la raggiungeva, Gwen colse un senso di sollievo. Aveva la mascella squadrata e una fossetta sul mento, e lei trovava entrambe le cose incredibilmente irresistibili, insieme al modo in cui i folti capelli gli coprivano la fronte. Indossava pantaloni corti, e poté vedere che aveva le gambe abbronzate. Sembrava molto più impolverato e mascolino di quanto non lo fosse stato nella fredda campagna inglese.

    Piena di aspettativa, Gwen gli corse incontro. Lui la tenne a distanza per un istante, poi la avvolse in un abbraccio vigoroso e così stretto che a stento le permise di respirare. Il cuore le batteva ancora all’impazzata quando lui smise di farla volteggiare e finalmente la lasciò andare.

    «Non sai quanto mi sei mancata», disse, con la sua voce profonda e un po’ rauca.

    «Come facevi a sapere che ero qui?»

    «Ho chiesto al capitano dove era andata a finire la donna più bella di Ceylon».

    Lei sorrise. «È molto carino da parte tua, ma non lo sono di certo».

    «Una delle cose più adorabili di te è che non hai idea di quanto tu sia carina». Prese le mani nelle sue. «Mi spiace per il ritardo».

    «Non importa. Un signore si è occupato di me. Mi ha detto che ti conosceva. Mr Ravasinghe, mi pare fosse questo il suo nome».

    Fino a quel momento Laurence l’aveva guardata con uno sguardo così limpido da inorgoglirla. In quel momento però sembrò accigliarsi.

    «Savi Ravasinghe?»

    «Sì». Gwen sentì un prurito sulla nuca.

    Laurence si accigliò ancora di più. Lei notò il ventaglio di linee sottili che avevano segnato la pelle attorno ai suoi occhi e desiderò toccarle. Era un uomo che aveva vissuto e per lei questo lo rendeva ancora più attraente.

    «Non fa niente», disse, recuperando velocemente il buonumore. «Ci sono qui io, ora. Quella maledetta macchina ha avuto un problema. Per fortuna Nick McGregor è riuscito a sistemarla. È troppo tardi per tornare indietro, quindi vado a prenotare una stanza».

    Si incamminarono verso la reception e, una volta fatta la prenotazione, lui le si avvicinò. Quando le sue labbra le sfiorarono la guancia, Gwen sentì un brivido e il respiro le uscì in un soffio.

    «Il tuo baule sarà trasportato in treno», disse. «Almeno fino a Hatton».

    «Lo so, ho parlato con l’impiegato dell’autorità portuale».

    «Va bene. McGregor si organizzerà con uno dei coolie per andare a prenderlo alla stazione con un carro. Quello che hai nella valigetta ti basterà fino a domani?»

    «Andrà bene».

    «Vuoi un tè?»

    «E tu?»

    «Tu che ne dici?».

    Lei sorrise e soffocò una risata, mentre lui chiedeva al fattorino di portare le valigie al piano di sopra, il più in fretta possibile.

    Salirono le scale a braccetto, ma una volta arrivati in cima lei si sentì inaspettatamente intimidita. Laurence la lasciò e la precedette, per spalancarle la porta.

    Gwen entrò e diede un’occhiata alla stanza.

    Il sole del tardo pomeriggio si diffondeva attraverso le alte finestre, tingendo le pareti di una delicata sfumatura di rosa, le lampade dipinte a ogni lato del letto erano già accese e la stanza profumava di arancio. Alla vista di quello scenario chiaramente allestito per l’intimità, sentì un bruciore alla nuca e si grattò. Il momento che aveva immaginato così tanto era finalmente giunto, tuttavia rimase esitante sulla soglia.

    «Non ti piace?», disse lui, gli occhi luminosi e scintillanti.

    Gwen aveva il cuore in gola.

    «Tesoro?».

    «Mi piace tantissimo», riuscì a dire.

    Lui le andò incontro e le sciolse i capelli raccolti. «Ecco. Così va meglio».

    Lei annuì. «Ora porteranno le borse».

    «Abbiamo ancora qualche istante», disse lui, e le sfiorò il labbro inferiore con la punta del dito. Ma in quel preciso momento, neanche a farlo apposta, qualcuno bussò alla porta. «Vado ad aprire la persiana», disse lei, facendo un passo indietro, felice di avere una scusa per non far notare al facchino la sua stupida ansia.

    La stanza si affacciava sull’oceano. Spalancò la finestra semiaperta e osservò le increspature dorate e argentate del sole sulla cresta delle onde. Era ciò che voleva, ma casa sua le sembrava così lontana e si accorse di essere sul punto di piangere. Chiuse gli occhi e sentì il facchino che portava dentro i bagagli. Poi, una volta che l’uomo se ne fu andato, si voltò di nuovo per guardare Laurence.

    Lui le rivolse un sorriso sbilenco. «C’è qualcosa che non va?».

    Lei chinò la testa e si mise a fissare il pavimento.

    «Gwen, guardami».

    Lei sbatté velocemente le palpebre e la stanza sembrò piombare nel silenzio. I pensieri si affollarono nella sua mente, mentre si chiedeva come spiegargli la sensazione di essere catapultata in un mondo che non capiva, sebbene non fosse soltanto quello. Si sentiva nuda sotto il suo sguardo, e questo la rendeva nervosa. Per evitare che l’imbarazzo le tendesse un’imboscata, alzò lo sguardo e muovendosi molto lentamente fece qualche passo verso di lui.

    Laurence sembrò sollevato. «Per un attimo mi ero preoccupato».

    Cominciarono a tremarle le gambe. «Sono una sciocca. È tutto così nuovo… Tu sei così nuovo».

    Lui sorrise e le si avvicinò. «Be’, se si tratta solo di questo, si rimedia facilmente».

    Gwen si appoggiò a lui, in preda a un capogiro, mentre lui armeggiava con i bottoni del suo vestito.

    «Lascia fare a me», disse lei e, allungando le braccia dietro la schiena, si sbottonò. «È un’arte».

    Lui si mise a ridere. «Prima o poi dovrò imparare».

    Un’ora dopo Laurence si era addormentato. Eccitati dalla lunga attesa avevano fatto l’amore con un’intensità ancora maggiore della prima notte di nozze. Gwen ripensò ai primi momenti dal suo arrivo in quel Paese; si era sentita come se l’incandescente Colombo le avesse succhiato l’energia dal corpo. Si sbagliava. Ne aveva in abbondanza, sebbene ora, sdraiata ad ascoltare i suoni che arrivavano dal mondo esterno, avesse le braccia e le gambe pesanti e stesse per addormentarsi. Si rese conto che stava cominciando a sentirsi perfettamente a suo agio sdraiata accanto a Laurence e, sorridendo del precedente nervosismo, si spostò un pochino per poterlo guardare e apprezzare ancora la forza del suo corpo nei punti in cui le era parso che fosse un tutt’uno con lei. Spazzate via tutte le emozioni tranne una, il suo amore si era in qualche modo distillato in quel momento perfetto. Sarebbe andato tutto bene. Per un altro paio di minuti respirò il suo odore di muschio e guardò le ombre che si allungavano nella stanza e poi rapidamente si scurivano. Fece un profondo respiro e chiuse gli occhi.

    Capitolo 2

    Due giorni dopo Gwen si svegliò presto a causa della luce che filtrava nella stanza attraverso le tende di mussola. Non vedeva l’ora di fare colazione con Laurence, e poi di essere accompagnata al gran tour. Si sedette sul bordo del letto e disfece la treccia, poi scese giù e affondò il piede in un folto tappetino di pelliccia. Guardò in basso e accarezzò il pelo bianco, chiedendosi a quale animale fosse appartenuto. Fuori dal letto, s’infilò una vestaglia di seta chiara che qualcuno aveva sistemato su una sedia vicina.

    Erano arrivati alla piantagione, nella zona delle colline, la sera prima, proprio mentre il sole stava tramontando. Con la testa che le doleva per la spossatezza e abbagliata dalle violente tonalità rosse e viola del cielo della sera, Gwen era sprofondata nel letto.

    Camminò sulle assi di legno del pavimento e andò alla finestra per scostare le tende. Fece un profondo respiro e guardò fuori. Era il suo primo mattino nel suo nuovo mondo e, sbattendo le palpebre a causa dell’estremo chiarore, udì una raffica di ronzii, fischi e cinguettii che la fece vacillare.

    Sotto di lei, delicati, i giardini pieni di fiori scendevano fino al lago susseguendosi in tre terrazze, con sentieri, scalinate e panchine strategicamente posizionate tra gli alberi. Lo stesso lago era color argento, più luccicante che mai. Tutti i ricordi del viaggio in auto del giorno precedente, i terrificanti tornanti, i profondi burroni e i nauseanti sobbalzi, svanirono all’istante. Dietro il lago si elevava un tappeto verde, fatto di arbusti di tè così simmetrici che sembravano cuciti in file. Le raccoglitrici, che indossavano sari dai colori brillanti e sgargianti, erano simili a minuscoli uccellini ricamati. Appena fuori dalla finestra della camera da letto c’era un albero di pompelmo accanto a un altro che non riconobbe, ma che sembrava carico di ciliegie. Ne avrebbe colta qualcuna per colazione, decise. Sul tavolo all’esterno una piccola creatura la fissava con occhi grandi e tondi: sembrava un incrocio tra una scimmia e un gufo. Gwen si voltò di nuovo verso l’enorme letto a baldacchino, avvolto dalla zanzariera. Il copriletto di raso era appena appena spiegazzato e pensò che fosse strano che Laurence non l’avesse raggiunta. Forse voleva permetterle di dormire dopo il viaggio. Udì il cigolio della porta che si apriva e si voltò. «Oh, Laurence, io…».

    «Signora, sono Naveena. Ai suoi servigi».

    Gwen guardò quella piccola donna tracagnotta. Indossava una lunga gonna a portafoglio blu e gialla e una camicetta bianca, e aveva una lunga treccia grigia che le scendeva lungo la schiena. La faccia rotonda era piena di rughe e gli occhi cerchiati di nero non lasciavano trasparire alcuna emozione.

    «Dov’è Laurence?»

    «Padrone è al lavoro. Da due ore».

    Delusa, Gwen fece un passo indietro e si sedette sul letto.

    «Vuole colazione qui?». La donna indicò un tavolino. Ci fu una pausa mentre si fissavano. «O in veranda?»

    «Vorrei lavarmi prima. Dov’è il bagno?».

    La donna attraversò la stanza e, osservandola, Gwen notò che i suoi capelli e i suoi vestiti erano pervasi da un’insolita fragranza speziata.

    «Qui, signora», disse la donna. «Dietro il paravento c’è la stanza da bagno, ma il coolie della latrina non è ancora arrivato».

    «Il coolie della latrina?»

    «Sì, signora. Arriva presto».

    «L’acqua è calda?».

    La donna scosse la testa. Gwen non era sicura se fosse un sì oppure un no, e si rese conto di aver palesato la sua perplessità.

    «C’è boiler a legna, signora. Legno d’albizia. Acqua calda arriva, mattina e sera, un’ora».

    Gwen tenne la testa alta e cercò di sembrare più sicura di quanto non si sentisse. «Molto bene. Prima mi lavo e poi faccio colazione all’aperto».

    «Molto bene, signora».

    La donna indicò le portefinestre. «Si aprono sulla veranda. Vado e torno. Porto il tè per lei lì».

    «Che cos’è quella creatura là fuori?».

    La donna si voltò a guardare, ma la creatura se n’era andata.

    In totale contrasto con la soffocante umidità di Colombo, lì la mattina fu luminosa e leggermente fredda. Dopo la colazione Gwen colse una ciliegia; il frutto era di un bel rosso scuro, ma quando lo morse lo trovò aspro e lo sputò. Si avvolse le spalle con lo scialle e si mise a ispezionare la casa.

    Prima esplorò un corridoio ampio e dal soffitto molto alto che percorreva tutto il perimetro dell’edificio. Il pavimento di legno scuro luccicava e le pareti erano punteggiate da lampade a olio. Annusò l’aria. Si sarebbe aspettata che quel posto odorasse di fumo di sigaro, e in effetti era così, ma c’era anche un forte profumo di olio di cocco e di cera aromatizzata. Laurence lo chiamava bungalow, ma Gwen notò una grande scalinata di tek che portava da un salone arioso a un altro piano. Dalla parte opposta rispetto alle scale, una bellissima credenza intarsiata in madreperla era addossata alla parete e accanto c’era una porta. Gwen l’aprì ed entrò in uno spazioso salotto.

    Fece un profondo respiro, aprì le imposte marrone scuro di una delle finestre che percorrevano tutta la parete e vide che anche quella stanza si affacciava sul lago. Si guardò attorno, mentre la luce inondava il locale. Le pareti erano del più delicato verdeazzurro che si potesse immaginare e l’impressione generale era di freschezza, con poltrone apparentemente comode e due divani dai colori tenui sovrastati da cuscini ricamati che raffiguravano uccelli, elefanti e fiori esotici. Una pelle di leopardo penzolava dallo schienale di uno dei divani.

    Gwen rimase in piedi su uno dei due tappeti persiani color blu marino e crema, e fece una piroetta con le braccia aperte. Che bella sensazione. Veramente bella. Un profondo ringhio la colse di sorpresa. Guardò verso il basso e si accorse di aver calpestato la zampa di un cane dal pelo corto che dormiva. Le sembrava un labrador nero, tuttavia era diverso da quelli che aveva visto. Fece un passo indietro chiedendosi se mordesse. In quel momento uno straniero di mezz’età entrò praticamente senza far rumore nella stanza. Era un uomo dalle spalle strette, con un piccolo viso color zafferano, e indossava un saròng bianco, una giacca bianca e un turbante, anch’esso bianco.

    «Il nome del vecchio cane è Tapper, signora. È il cane preferito del padrone. Io sono maggiordomo e qui c’è spuntino». Le mostrò il vassoio che teneva in mano e lo posò su un piccolo set di tavolini. «Il nostro tè Broken Orange Pekoe».

    «Ma ho appena fatto colazione».

    «Il padrone tornerà dopo mezzogiorno. Sentirà il corno dei lavoratori, signora, e poi lui arriverà». Indicò uno scaffale di legno dietro il caminetto. «Ci sono riviste da leggere».

    «Grazie».

    Era un grande caminetto in pietra, con i classici arnesi, pinze in ottone, paletta e attizzatoio, e un enorme cesto pieno di ciocchi. Gwen sorrise. Si prospettava una piacevole serata, lui e lei accoccolati accanto al fuoco.

    Le rimaneva soltanto un’ora prima che Laurence ritornasse, così, ignorando il tè, decise di esplorare l’esterno della casa. Erano arrivati al tramonto con la nuova Daimler di Laurence, e lei non aveva potuto vedere bene la facciata. Si incamminò lungo il corridoio verso la sala principale, poi aprì una delle porte nere a due battenti, con una bella lunetta decorativa, e si ritrovò sulla soglia del portone, sotto il portico ombreggiato. Un vialetto di ghiaia, fiancheggiato da liriodendri inframmezzati da palme, conduceva fuori dalla casa, e poi svoltava verso le colline. Alcuni boccioli giacevano a terra sparsi come grandi tulipani arancioni, lucenti sul ciglio erboso.

    Gwen aveva voglia di salire sulle colline, ma prima fece il giro attorno alla casa, e trovò una veranda rivolta verso il lago, sebbene con un’angolazione leggermente diversa rispetto alla sua camera da letto. Quella stanza aveva otto colonne di legno nero, un pavimento di marmo e mobili di malacca. Il tavolo era già apparecchiato per il pranzo. Quando un piccolo scoiattolo striato si

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