Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il dolore del fango: Un'altra indagine del commissario Marcenaro
Il dolore del fango: Un'altra indagine del commissario Marcenaro
Il dolore del fango: Un'altra indagine del commissario Marcenaro
E-book262 pagine3 ore

Il dolore del fango: Un'altra indagine del commissario Marcenaro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il 4 ottobre 2010 la città-quartiere di Sestri conosce la sua prima, catastrofica alluvione. Qualche mese dopo, il corpo senza vita di un vigile del fuoco viene trovato nel loculo destinato a ospitare un eroe della Resistenza. Questa volta il commissario Elia Marcenaro dovrà affrontare le indagini senza l’aiuto del migliore dei suoi agenti. Dopo il caso Rouvery, Beatrice Palazzesi è stata trasferita alla Squadra Scomparsi, richiesta sul complicato fronte del rapimento del piccolo Giacomo Campisi. Un nuovo orrore d'acqua e fango tornerà ad affacciarsi su Genova. Prima, però, Elia dovrà fare i conti con le ferite degli anni di piombo, le glorie e le sconfitte del passato industriale della Superba, la “ragazza delle camelie”, un’abbazia abbandonata e lo strano segreto del paese degli amaretti morbidi. E con la fotografia di un bambino con la testa ritagliata e sul retro sempre la stessa scritta: “Credimi, sorrido ancora”.
LinguaItaliano
Data di uscita9 feb 2014
ISBN9788875639310
Il dolore del fango: Un'altra indagine del commissario Marcenaro

Correlato a Il dolore del fango

Ebook correlati

Noir per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il dolore del fango

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il dolore del fango - D. Grillo e V. Valentini

    Capitolo uno

    L’orrore si presentò intorno alle quindici di un lunedì apparentemente come tanti. Carico di detriti, arbusti e rifiuti squarciò la città-quartiere di Sestri Ponente. Nulla, di quei luoghi, sarebbe stato più lo stesso. I rivi Molinassi e Chiaravagna, che fino a quel giorno avevano a malapena segnalato la propria esistenza, esondarono in più punti abbracciando la piana e risalendo i canali delle strade come mercurio in un vecchio termometro. La marea scura di fango e odorosa di terra investì auto, saracinesche e persone, alimentando dietro di sé un corteo galleggiante di devastazione. Dalla finestra di casa, quarto piano di un modesto edificio di via Vado, il piccolo Fabio seguì con lo sguardo il corpo di un’anatra scivolare sulle rapide a velocità innaturale. La malcapitata riuscì a raggiungere l’imbocco di un garage, evitando per un soffio l’impatto col furgone incastrato contro il cancello del Tempio del Sole. Poi scomparve. Fabio era certo che non l’avrebbe più vista. Enormi tronchi d’albero comparivano di tanto in tanto a intervallare la massa d’acqua. Nello stesso istante, poco più a monte, un vecchio veniva tratto in salvo dal figlio quasi per miracolo. Fu colto dalla piena mentre si trovava in uno scantinato sottostrada di piazza Clavarino. Mentre era aggrappato all’ultima bolla d’aria pensò al suo vecchio cane Tom, alla prima volta che vide l’orlo delle mutande di Sandra, al primo vagito di Margherita. Pensò anche che non avrebbe ancora voluto lasciare questo mondo. Fu accontentato.

    Colonne intere di auto di grossa come di insignificante cilindrata coloravano il dorso cangiante del mostro. Il fango le aveva rese tutte identiche, full optional e usate di serie. Le traverse di via Merano diventarono vasche. La melma in un attimo riempì ogni spazio, arrivando a lambire i primi piani degli edifici e inondandone i seminterrati. Nel bar pasticceria Solimeni si metteva in salvo quanto possibile. Ma un inatteso cliente come questo non lo puoi fermare invitandolo all’assaggio di un cannolo. Non serve tenere chiuse le porte, le finestre. Lui entra e basta, con buona pace dei tuoi sacrifici, delle cambiali, di quel sogno che avevi di dare un aspetto migliore al bancone, o di sostituire la vecchia lavastoviglie che da troppo tempo funziona male.

    In via Leoncavallo, Franco Parente piangeva sul volante della Mercedes bianca mentre tentava di farla arrancare sulla rampa dell’autorimessa. Il fiume, ormai, aveva invaso la strada e si stava prendendo il grande garage sotterraneo per il quale l’uomo aveva impegnato ogni avere. Debiti per un milione, in gran parte ancora da pagare.

    – Franco, che cazzo fai? Vieni via da lì! Vieni via da lì!

    Genny Mascalzo, il suo unico dipendente, urlò con tutte le forze al principale di abbandonare l’auto e di pensare a mettersi in salvo. Erano riusciti a portar fuori dall’officina soltanto sette vetture. Il resto era rovina. Rovina pura e bagnata, che non sarebbe bastata una vita per asciugare.

    Dal balcone sul piccolo cortile di via Chiaravagna, Cristina Haas osservava arrabbiarsi il rio che dava il nome a quell’assurdo nastro d’asfalto. Raccolse dietro l’orecchio destro il solito ciuffo ribelle di capelli biondi e portò istintivamente una mano alla bocca. Il torrentucolo che a stento guadagnava un sottile tratto azzurro sulle cartine geografiche più dettagliate si era ingrossato in un attimo. Mosso forse da un desiderio di rivincita, aveva gonfiato il petto lanciando la sua sfida alla città. In pochi minuti l’acqua si era accorta che quel letto stretto tra i palazzi non le poteva più bastare. E decise di saltar fuori. La marea nera s’infranse contro la facciata posteriore del condominio costruito a cavallo dell’alveo, e non riuscendo ad abbatterlo tornò indietro, provocando un’esplosione di melma e onde impazzite sui due lati liberi. In pochi minuti il Chiaravagna si era impossessato della strada, l’argine di separazione ridotto a una linea ormai impercettibile e sommersa. Cristina si asciugò il viso bagnato da mille goccioline di fango e continuò a guardare il cortile farsi contenitore. L’acqua salì in maniera preoccupante. Inondò l’atrio del palazzo e arrivò a lambirle i piedi. Spaventata, iniziò a urlare e tornò dentro. Oltre all’acqua, i tronchi. Tronchi pesanti di alberi sradicati colpirono le ringhiere del cortile; si accastellarono quasi a formare una diga. Cristina rimase qualche minuto alla finestra con gli occhi sbarrati. Per la prima volta si trovò a pensare se sarebbe sopravvissuta a quell’incubo.

    – Tutto quello che avevamo, Marco! Tutto quello che avevamo va a puttane. Ma perché? Perché?

    Nel piccolo negozio di articoli sportivi di via Vado, Marika abbracciò il compagno sognando di essere lontana. Anni di stenti, la vita che ricomincia a quarant’anni grazie all’uomo giusto e a un buon aiuto della Camera di Commercio. Adidas, Nike, Diadora, il sogno che si avvera sugli scaffali. I primi scontrini, una piccola lista di clienti affezionati. Era bastato un mese, per pensare di essere sul binario giusto. Un minuto, per accorgersi che il momento del riscatto era già un ricordo. L’acqua gelida del Molinassi entrò dalle fessure della porta principale e si fece beffa delle assi di legno sistemate alla bell’e meglio. Marika abbracciava il suo Marco con sguardo assente. Ricordò la cugina di Sarno, di quando la vide disperata nelle immagini della tv, nel giorno in cui la collina si prese la valle e i suoi abitanti. Non avrebbe mai pensato di poter vivere qualcosa di così maledettamente simile. Gli scatoloni della merce più preziosa erano lassù, affacciati sulla piscina d’acqua e fango che stava conquistando il loro mondo. La luce saltò quasi subito e la penombra della chiusa stradina del negozio li avvolse. Se ne stavano lì. Marco seduto sul bancone col registratore di cassa sulle ginocchia. Lei, in lacrime, appoggiata sulla tastiera e su di lui. Fottuto il magazzino, fottuto il computer, fottuti gli ordini di una settimana, le magliette dei ragazzi che avevano già dato l’anticipo. Scarpe di ogni colore e modello galleggiavano in mezzo agli scaffali. Le fotografie dell’inaugurazione sul muro vicino all’entrata sventrata, sembravano scattate in un’altra dimensione. Ci sarebbero stati altri sorrisi, e la soddisfazione di avercela fatta ancora. Ma in quel momento, Marika e Marco non potevano neppure immaginarlo.

    – Oh, Gregorio. Oh, Gregorio. Che sia l’Apocalisse?

    – Sinceramente, Luisa, m-me la immaginavo un po’ diversa. M-ma non vorrei contraddirti. È il mi-mio pensiero di fronte all’inconsapevole.

    Angelo e Simona restarono a osservare l’alluvione dalla settima finestra del secondo corridoio del terzo piano di Villa Futura. Sempre quella, sempre la stessa. Via Merano pareva il Po’ della cartolina che inviava sempre gabriele, stanza quattordici. La settima finestra, quel pomeriggio, raccontava una storia brutta. Guardavano la gente agitarsi, uscire dagli scantinati con l’acqua alle ginocchia e tentare di mettere in salvo un computer portandolo in alto come si fa con i trofei. A Simona scappò una risatina quando vide un gatto arrampicarsi sulla grondaia del palazzo di fronte. Scivolando a tratti sul ferro, il felino tentava di guadagnare il davanzale di una finestra del piano terra. Una volta conquistato lo snodo del tubo, si fermò un paio di secondi a rifiatare, abbassando le orecchie infastidito dai goccioloni che dal limitare del tetto gli tormentavano il capo striato. Mulinò l’aria con la zampina libera dalla presa, nel tentativo di un contatto con la meta. Simona aveva smesso di ridere, Angelo le teneva la mano sinistra. Il gattino rimase sospeso mentre l’acqua saliva, finché non decise di spiccare il suo ultimo balzo. Non raggiunse quel davanzale bianco. Fu inghiottito dalla piena, ricomparve una sola volta e poi mai più. Simona fece un passo indietro, poi piantò il viso contro la spalla di Angelo, per non vedere. Lui le passò il braccio attorno alla nuca. Restarono così per un po’. Poi furono distolti dal campanello della terapia.

    – Ci-ci vediamo! – disse Angelo alla sua bella.

    – Ciao amore. Povero gattino! Ciao amore!

    Le solite pastigliette, per lei pure una puntura per quel fastidio alla spalla. Angelo Spadrigli era down e solo. Come Simona Tentoni del resto. Nell’istituto dove i genitori, anni prima, li avevano di fatto abbandonati, si erano costruiti un mondo speciale. Di amore puro, semplice e insolitamente forbito. Erano due soggetti svegli, intelligenti oltre la norma. Si erano trovati. Amavano parlare difficile per sentirsi come tutti gli altri. Si auguravano di non lasciarsi mai più. L’amore, l’amicizia complice, i libri letti lentamente, la collezione di biglietti dell’autobus di ogni parte del mondo. Li catalogavano almeno dieci volte al mese. Una volta al giorno, invece, sfogliavano l’album che riuniva quei ticket usati portati da ogni dove da infermieri ed educatori. Era il loro modo per viaggiare lontano senza muovere un passo da Sestri. Per Angelo, Simona era Luisa. Per Simona, Angelo era Gregorio. Era il loro modo per inventarsi un mondo e una normalità. Una normalità senza ansie, senza quelli che ti prendono in giro e con tutto quanto chiaro, comprensibile, alla portata. Niente lavoro, quando piove. Per entrambi era una festa. Lui non doveva recapitare le lettere alle scuole, lei non doveva appilare i moduli all’Agenzia delle Entrate. Stavano bene, davvero bene, solo quando pioveva. Potevano stare insieme tutto il giorno, dedicarsi all’album e guardare via Merano dalla settima finestra del secondo corridoio al terzo piano della villa. Quel giorno, però, non era un bel vedere. Il gattino era morto nell’acqua, Simona-Luisa lo sapeva. Doveva essere stato come per la nonna: veniva a trovarla ogni primo giovedì del mese. Poi, un bel giovedì, non è venuta più. A Gregorio-Angelo, invece, tutta quell’acqua ricordava il lago delle Lame e la crudeltà del suo amato papà. Quando per temprarlo, per farlo diventare un uomo, lo gettò nel gelo più freddo che aveva mai sentito. Lui forse l’avrebbe lasciato morire, lo sapeva. Un down non è il figlio che un papà vorrebbe. La mamma, la sua cara mamma, si tuffò e lo portò via da un principio d’ipotermia. Quando lei si ammalò, più avanti, decise di mandare Angelo a Villa Futura.

    L’alluvione violentò Sestri a fondo. Dalla città che conta, quella dei palazzi e dei politici, ci misero un sacco di tempo, ad accorgersi del dramma che aveva distrutto i negozi e gli appartamenti della città operaia. Non c’è fango che tenga, avrebbero urlato i ragazzi poco più di un anno dopo. Tranne quello dell’indignazione. Il messaggio al partito dominante e ai suoi uomini, alla prima occasione, sarebbe arrivato forte e chiaro.

    Capitolo due

    Attese con impazienza che la nuova commessa del fruttivendolo le consegnasse il suo dannato resto. Poi, abbozzando il solito sorriso finto, girò i tacchi e si gettò sul budello di porfido che nasce dalla piazza principale e muore davanti all’incanto del presepe di San Sebastiano. Quella mattina le pareva che gli autoctoni la squadrassero più del solito. Forse era semplicemente per l’atteggiamento da foresta, da straniera, che nonostante abitasse lì ormai da anni non era mai riuscita a scollarsi di dosso. O forse era per via di quel foulard a pois che aveva scelto per raccogliere la chioma liscia sempre più intervallata da bianchi crini. La corporatura esile non attraeva più sguardi da parecchio tempo. A eccezione del Tonio, che lei chiamava il babbeo, un porco senza ritegno che dicevano amasse copulare pure con lo straccio di cane che si portava appresso. Procedeva sicura, ma tesa come una corda. Come sempre, da quando era arrivata in quel paese di dolci, prati, chiacchiere e sogni. Sogni di chi è riuscito a spiccare il volo, dell’imprenditore fortunato e capace, quello che te lo do io, il provinciale!, e si mangia il mercato. Sogni di chi vorrebbe tanto e ci prova. Ci prova. Finché esausto non si arrende, e per coprire il fallimento in giro dice che Sì, rendeva, ma questo mestiere non fa per me. Sogni di chi ha famiglia e per lui è tutto. Sogni da fedifrago. Perché nelle valli dove tutto scorre tranquillo, la voglia di crearsi tentazioni è potente. Ti spacca il cervello. Sogni di brava gente. Quelli che comunque vada una mano te la daranno sempre. Ammesso che tu sia uno della comunità, oppure ne meriti la fiducia rigando dritto e lavorando sodo. Strano paese, Sassello, la perla delle campagne savonesi. Il nome dice tutto. Duro come il sasso, dolce come un vezzeggiativo. Sotto il campanile della Santissima Trinità la vita procedeva nell’immutato avanzare delle grandi lancette dell’orologio. Con i suoi alti e bassi, ma con poche tragedie degne di un ricordo, di una nota, di un articolo sul giornale. Ogni tanto usciva fuori l’idea del rilancio. I commercianti e la Corrida in piazza, delirio assoluto negli anni Novanta. Prima, per anni, le feste e le sagre degli amaretti, quel dolce che in paese pochi sopportano più. Ma che è vita, per tutti, sostanziale benessere anche in tempo di crisi. Per ultima l’invenzione geniale della bandiera arancione, un brand superato solo da chi più tardi, altrove, si inventò l’etichetta di borgo più bello d’Italia. E ancora, le streghe e le sante. Se le prime rappresentarono il frutto di un’idea non troppo originale, le seconde ottennero una testimonial vera e bellissima, d’eccezione: Chiara Badano, detta Luce, portata alla beatificazione a furor di cuori.

    Carmen non sopportava il gran movimento di quei giorni. I fiori per strada, le televisioni, i manifesti. Chiara era ovunque, ma per Carmen la splendida figura della ragazza strappata alla vita dalla leucemia pareva simile a quella di una straniera in patria. Che ci azzeccava con le varie umanità del luogo? Forse si sentiva come Luce. Diversa. Ma il paragone, considerati i fatti, sembrava un tantino ardito pure a lei.

    – Oh ciao, Carmela! Come va? Vieni al mercato domani mattina?

    L’assalto della Isa, all’altezza della piazzetta della macelleria di Piero, la colse impreparata e la costrinse a una rapida re-immersione nel ruolo della felice mogliettina. La Isa era la madre di Nicolas, il ragazzino al quale lei dava ripetizioni di chimica, di tanto in tanto. Un bamboccio succube di cotanta madre, spedito come un pacco a ogni alba in un ignobile istituto professionale di acqui. Se era arrivato in seconda, era per le corpose spinte del maresciallo tornatore, che conosceva la moglie del preside e gli aveva fatto arrivare qualche messaggino su un mezzo abuso edilizio del quale s’era macchiato. Carmen fece un cenno di saluto e sfoderò un sorriso a trentadue denti, come se fosse lieta di quell’incontro.

    – Ciao Isa. Sì, penso che un salto lo farò. Sempre che un lupo non mi sbrani nella notte.

    – Ah come fai, ragazza mia, a vivere in Deiva, lo sai solo tu. Bello, il castello, ma tenerlo pulito sarà un’impresa. Dammi retta, molla tutto e vieni giù in paese.

    – Eh no, lo sai. Io e il Neri siamo come eremiti. Se ci togli da lassù diventiamo due iene. Dobbiamo vivere in mezzo alla natura. D’altra parte l’abbiamo scelto.

    – E Leonardo come sta? – sussurrò la pettegola, una delle poche a sapere del bambino e della sua malattia.

    – Insomma…

    – Ok dai, ci si vede – riprese la donna – Vieni da Nicolas più tardi? Eravamo d’accordo...

    – Va bene.

    – Alle due?

    – No, Isa, alle cinque. Prima non posso mai, lo sai.

    A salvarla era arrivata la signora Tancredi, una villeggiante che dava soldi a tutti. E la Isa era molto sensibile all’argomento. Amava proporre alle facoltose donne di città i suoi corsi per preparare conserve di more e salsa di pomodoro. Un drago del marketing. Perché ogni anno, e sempre più spesso nell’ottocentesca magione della Tancredi, riusciva a radunare frotte nutrite di massaie in cerca di presunti segreti. A ognuna faceva sborsare qualcosa, e la riconoscenza della signora Tancredi per averla scelta come centro di quei raduni – veri antidoti alla solitudine di ricchi annoiati come lei – l’avrebbe fatta stare bene per tutto l’anno. Carmen proseguì con le sue borse svoltando in via Badano, un brulicare composto di persone e suoni. Le voci dei corrieri tuonavano dal fondo della strada pedonale, i phon della parrucchiera Roberta facevano da sottofondo allo squillare ossessivo di un campanello da bici. Carmen giunse davanti al bar Gina, si asciugò con un fazzoletto di carta le perle di sudore accumulate sul naso e attraversò. Poco più in là, nel punto nel quale la strada invita all’amena piana di Sorerolo, il vespino giallo la aspettava. Attaccò le borse al gancio sotto la sella, sistemandole per bene sul pianale. Poi s’industriò col piede per qualche secondo sulla manovella. La vespa partì col solito inconfondibile rombo. Allacciato il casco, spinse col bacino il manubrio per scalzare il mezzo dal cavalletto. Accese le luci anche se non ve n’era alcun bisogno, quindi accelerò. La sua strana esistenza l’aveva portata nel luogo più lontano dalle sue origini che potesse immaginare. Lì non c’era nulla, del rumoroso progresso che aveva accompagnato la sua infanzia, lì l’economia continuava a reggersi su un mix antico di natura, prodotti tipici e ritmi di vita umani. Nonostante tutto, non amava quel posto. Forse perché per lei era soltanto la location di una vita di passaggio. Che avrebbe dovuto restituirle una nuova capacità di stare al mondo. Una vita senza più quell’amaro che non riusciva a togliersi dalla bocca da quando era bambina.

    – Quello che senti è l’amaro del rischio, Salvatore – sentenziò il biondo senza appoggiare il boccale di birra ormai semivuoto – E se qualche volta ti pare una follia, questa, non ti preoccupare. È normale. Ci fai una bella dormita, se ci riesci. E il giorno dopo sei di nuovo pronto e... Come si dice? Combattivo.

    – Ci fai una dormita, dici tu – rispose scettico l’altro, sguardo fisso sul legno del bancone – a volte non riesco neppure a chiudere occhio.

    – Parlane con Philip. Che ce l’hai a fare un medico appresso?

    – La sua robaccia chimica non la voglio. Supererò anche questo momento. Ma è sempre più difficile. È come se...

    – Come cosa?

    – Come se me li sentissi già addosso.

    – Ma smettila! Grazie a me avete aggiustato tutto. Ringraziami, caro.

    – Magari invece ci hai preparato la tomba…

    – Gran bella similitudine, fatta da te. Sei forte.

    Salvatore si soffiò il naso e prese il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Calzò il cappello blu con la visiera che lo faceva tanto assomigliare a un marinaio. Gli serviva per coprire la pelata che ormai da tempo era diventata il suo elemento più caratterizzante. C’erano anche le grandi mani da operaio, eredità degli avi di tre generazioni prima che avevano sempre fatto del lavoro duro la loro unica ragione di esistere. Ma col tempo aveva imparato a tenerle spesso in tasca. Un’astuzia che gli insegnò il padre, che al buon apparire, soprattutto dopo il riscatto sociale della famiglia, aveva sempre tenuto con particolare cura. Tirò fuori venti euro e li mise nel taschino della camicia, quindi fece un cenno con la testa all’amico, invitandolo a uscire dal locale.

    – Facciamo due passi – disse – che domani devo tornare su. E se non cammino un po’, altro che le pastiglie di Philip. Per dormire dovrei farmi fare l’anestesia.

    Quando arrivarono alle rocce del Risveglio, il buio aveva spento ogni tentativo di sopravvivenza del giorno. Le barche ondeggiavano sotto il livello della strada facendo risuonare gli anelli delle vele contro gli alberi metallici. La passeggiata di Pegli, in quel

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1