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La ragazza con la stella blu
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E-book377 pagine5 ore

La ragazza con la stella blu

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller La ragazza della neve
Oltre 1 milione di copie nel mondo

«Un libro che si legge tutto d’un fiato.»
Washington Post

1942. Sadie Gault ha diciotto anni e vive insieme ai genitori nel ghetto di Cracovia. Quando i nazisti rastrellano la città, Sadie e la madre, incinta, sono costrette a cercare rifugio nelle fogne. Ha così inizio per loro un lungo periodo di terrore, trascorso al buio nel sottosuolo. Un giorno Sadie alza lo sguardo e, attraverso una grata, vede una ragazza della sua età che compra dei fiori. Ella Stepanek è un’agiata giovane polacca che ha conservato molti privilegi perché la sua matrigna ha ottenuto la benevolenza degli occupanti tedeschi, pur guadagnando per sé e per la famiglia il disprezzo degli amici di sempre. Sola e in pena per il fidanzato partito per la guerra, Ella vaga per Cracovia senza sosta. Un giorno, al mercato, intravede qualcosa che si muove sotto una grata del marciapiede. Quando si accorge che lì si nasconde una ragazza, la sua vita cambia per sempre. Ella decide di aiutare Sadie e la loro diventa presto un’amicizia profonda e intensa, ma la guerra porterà i loro destini in rotta di collisione. Eventi terribili metteranno alla prova tutto ciò in cui credono, ponendole di fronte a delle sfide impossibili.

Dall'autrice del bestseller La ragazza della neve
Oltre 130.000 copie in Italia
Oltre 1 milione di copie nel mondo
Pubblicata in 27 Paesi

«Incantevole... Una storia commovente sulla forza di volontà di sopravvivere nelle condizioni più difficili. Perfetto per i lettori di tutte le età».
Publishers Weekly

«Un libro che si legge tutto d’un fiato.»
Washington Post

«La scrittura di Pam Jenoff è evocativa e coinvolgente…»
The Globe and Mail

«Un racconto sincero e appassionato che mostra come i legami umani e la speranza possano sopravvivere anche durante uno dei momenti più bui dell’umanità.»
Library Journal

«Una storia avvincente, ambientata durante la Seconda Guerra mondiale. Pam Jenoff sa ricostruire le ambientazioni storiche con maestria. Una lettura emozionante.»
Booklist
Pam Jenoff
È nata nel Maryland ed è cresciuta nei dintorni di Philadelphia. Ha frequentato la George Washington University. Dopo un’esperienza al Pentagono, è stata trasferita al Dipartimento di Stato e poi assegnata al Consolato degli USA a Cracovia, in Polonia; rientrata dall’estero, oggi insegna nella facoltà di Giurisprudenza della Rutgers University, in New Jersey. I suoi romanzi sono pubblicati in 27 Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato La ragazza della neve, Le ragazze di Parigi e La ragazza con la stella blu.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2021
ISBN9788822750907
La ragazza con la stella blu
Autore

Pam Jenoff

Laureata in storia e in giurisprudenza, nonché specializzata in affari internazionali, è stata tra le altre cose assistente personale del Ministro della Difesa americano al Pentagono. Attualmente vive a Philadelphia, dove oltre a scrivere lavora come procuratore legale.

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    Anteprima del libro

    La ragazza con la stella blu - Pam Jenoff

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    Capitolo uno. Sadie

    Capitolo due. Ella

    Capitolo tre. Sadie

    Capitolo quattro. Sadie

    Capitolo cinque. Ella

    Capitolo sei. Sadie

    Capitolo sette. Ella

    Capitolo otto. Sadie

    Capitolo nove. Ella

    Capitolo dieci. Sadie

    Capitolo undici. Ella

    Capitolo dodici. Sadie

    Capitolo tredici. Ella

    Capitolo quattordici. Ella

    Capitolo quindici. Sadie

    Capitolo sedici. Ella

    Capitolo diciassette. Sadie

    Capitolo diciotto. Sadie

    Capitolo diciannove. Ella

    Capitolo venti. Sadie

    Capitolo ventuno. Ella

    Capitolo ventidue. Sadie

    Capitolo ventitré. Ella

    Capitolo ventiquattro. Ella

    Capitolo venticinque. Ella

    Capitolo ventisei

    Epilogo

    Nota dell’autrice

    Ringraziamenti

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    2878

    Della stessa autrice

    La ragazza della neve

    Le ragazze di Parigi


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: The Woman with the Blue Star

    Copyright ©2021 by Pam Jenoff

    All rights reserved including the right of reproduction

    in whole or in part in any form.

    This edition is published by arrangement

    with Harlequin Books S.A.

    Traduzione dalla lingua inglese di Carlotta Mele

    Prima edizione ebook: settembre 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5090-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Pam Jenoff

    La ragazza con la stella blu

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Al mio shtetl… Ci rivedremo

    Prologo

    Cracovia, Polonia

    Giugno 2016

    La donna che ho di fronte non è quella che mi aspettavo.

    Dieci minuti fa ero nella mia camera d’hotel, intenta a rimuovere qualche pelucco dai polsini della camicetta azzurra e a sistemarmi un orecchino di perle. Guardandomi allo specchio ho avuto un senso di disgusto. Sono diventata lo stereotipo della settantenne: i capelli grigi tagliati corti, il tailleur che ogni anno mi va più stretto sui fianchi.

    Ho accarezzato il bouquet di fiori freschi sul comodino, dei boccioli rosso acceso avvolti in una carta marroncina. Poi mi sono avvicinata alla finestra. L’Hotel Wentzl, una villa del sedicesimo secolo, si trova all’angolo sudovest della Rynek, l’immensa piazza di Cracovia. L’ho scelto di proposito e mi sono assicurata che la stanza avesse la giusta vista. La piazza, che ricorda la forma di un colino per via dell’angolo concavo a sud, a quest’ora della sera brulica di vita. I turisti si accalcano tra le chiese e le bancarelle di souvenir del Sukiennice, il monumentale palazzo del Mercato dei tessuti che con la sua forma oblunga taglia la piazza a metà. Gruppi di amici prendono un aperitivo fuori dai pub dopo il lavoro, mentre i pendolari si precipitano a casa con le loro buste, gli occhi rivolti verso le nuvole che si addensano a sud, sopra il castello del Wavel.

    Sono già stata altre due volte a Cracovia: dopo la caduta del comunismo e dieci anni più tardi, quando avevo iniziato le ricerche in modo serio. Le perle nascoste della città mi hanno conquistato dal primo istante. Anche se eclissata da Praga e Berlino, che attirano i turisti come calamite, la Città Vecchia di Cracovia, con le sue cattedrali perfettamente conservate e le case in pietra lavorata riportate al loro antico splendore, è una delle più eleganti d’Europa.

    Ogni volta che sono venuta l’ho trovata cambiata. Ora è tutto più luminoso, più nuovo – tutto migliore agli occhi dei residenti; gente che ha dovuto affrontare lunghi anni di sacrifici e di stallo sia economico che sociale. Le case, un tempo grigie, sono state dipinte di giallo e di blu in toni sgargianti. Così i vecchi vicoli sembrano la versione cinematografica di sé stessi.

    Gli abitanti della città poi sono una contraddizione ambulante: giovani vestiti alla moda e perennemente impegnati in conversazioni telefoniche si fanno strada tra gente di montagna, venuta in città a vendere maglioni di lana e formaggio di capra su teli stesi a terra, e qualche babcia che chiede l’elemosina sul marciapiede avvolta nella sua sciarpa. Sotto la vetrina di un negozio che pubblicizza piani tariffari per internet e WiFi, i piccioni beccano i duri ciottoli della piazza come fanno da secoli. Sotto la patina scintillante della modernità, l’architettura barocca della Città Vecchia risplende con aria di sfida, un pezzo di storia che non sarà mai dimenticato.

    Ma non è stata la storia a portarmi in città… Perlomeno, non quella storia.

    Quando la tromba nella torre della basilica di santa Maria ha suonato l’hejnał per segnalare lo scoccare dell’ora, ho puntato gli occhi all’angolo nordovest della piazza, aspettando la donna che appariva ogni giorno alle cinque in punto. Non vedendola arrivare, ho avuto paura che non si sarebbe presentata: così il mio viaggio dall’altra parte del mondo sarebbe stato vano. Il primo giorno ho voluto assicurarmi che fosse la persona giusta. Il secondo, avevo intenzione di parlarle ma poi ho perso il coraggio. Domani tornerò in America. È la mia ultima occasione.

    Alla fine la donna è sbucata dalla farmacia all’angolo con un ombrello stretto in modo elegante sotto il braccio. Ha attraversato la piazza a una velocità sorprendente per una signora di circa novant’anni. Non è curva: ha la schiena dritta, ed è alta. Ha i capelli bianchi raccolti in uno chignon, ma alcuni ciuffi le svolazzano selvaggi attorno al viso. Indossa una gonna dai colori vivaci con un motivo esuberante, in netto contrasto con i miei vestiti seriosi. Mentre cammina, il tessuto luminoso sembra danzarle attorno alle caviglie in modo naturale, e io riesco quasi a sentirne il fruscio.

    Poi ha fatto qualcosa di familiare: anche due giorni fa l’avevo vista avvicinarsi al Café Noworolski e chiedere il tavolo più lontano dalla piazza, quello che il profondo ingresso ad arco dell’edificio protegge dai rumori e dalla folla. L’ultima volta che sono stata a Cracovia ero ancora in cerca. Adesso sapevo chi era e dove trovarla. L’unica cosa che devo fare è prendere coraggio e avvicinarmi.

    La donna si è seduta al solito tavolo all’angolo e ha aperto un giornale. Non poteva immaginare che stessimo per incontrarci… e nemmeno che fossi viva.

    A distanza si è sentito il rombo di un tuono. Poi hanno iniziato a cadere le prime gocce, a schiantarsi sui ciottoli come lacrime scure. Devo sbrigarmi. Se la caffetteria chiudesse e la donna se ne andasse, non avrei più nessuna occasione di fare quello per cui sono venuta.

    Allora mi sono tornate in mente le parole dei miei figli: era troppo pericoloso viaggiare da sola alla mia età, non c’era motivo di andare dall’altra parte del mondo, non c’era più niente da sapere. Dovrei tornare a casa. Non farebbe alcuna differenza rimanere.

    Tranne che per me… e per lei. Ho sentito la sua voce dentro di me, così come l’ho sempre immaginata, e mi ha ricordato il motivo per il quale sono venuta fin qui.

    Mi sono fatta forza, ho afferrato i fiori e sono uscita dalla stanza.

    Una volta fuori, ho attraversato la piazza. Poi mi sono fermata. Sono stata invasa da un senso di incertezza. Perché ho fatto tutta questa strada? Cosa sto cercando? Ho proseguito testardamente senza badare ai goccioloni che si riversavano su di me bagnandomi dalla testa ai piedi. Ho raggiunto la caffetteria e mi sono fatta strada tra tavoli di clienti che pagavano il conto e si affrettavano ad andarsene a causa della pioggia sempre più forte. Quando mi sono avvicinata, la donna dai capelli bianchi ha sollevato lo sguardo dal giornale. E ha spalancato gli occhi.

    Adesso, da vicino, riesco a vedere il suo viso. Riesco a vedere tutto. Rimango immobile, impietrita.

    La donna che ho di fronte non è quella che mi aspettavo.

    Capitolo uno

    Sadie

    Cracovia, Polonia

    Marzo 1942

    Tutto cambiò quando vennero a prendere i bambini.

    Sarei dovuta rimanere nel sottotetto dell’edificio a tre piani che condividevamo con una decina di altre famiglie del ghetto. Ogni mattina, prima di unirsi alle squadre di lavoro dirette in fabbrica, la mamma mi aiutava a nascondermi lassù, lasciandomi con un secchio pulito per i bisogni e l’ammonimento severo di non uscire. Ma in quello spazio angusto nel quale non potevo correre né muovermi e nemmeno stare in piedi, sentivo tutto il peso del freddo e della solitudine. Le ore passavano lente, il silenzio rotto solo dal suono di qualcuno che graffiava: erano i bambini stipati dall’altro lato del muro, più piccoli di me, che non potevo vedere ma riuscivo a sentire. Li tenevano separati uno dall’altro senza spazio per correre o giocare. Però si mandavano messaggi in codice graffiando e tamburellando con le dita, in una specie di Morse improvvisato. A volte, per la noia, mi univo a loro.

    «La libertà sta dove la trovi», diceva spesso mio padre quando mi lamentavo. Papà aveva la capacità di vedere il mondo esattamente come lo voleva. «La prigione più grande è la nostra mente». Era facile dirlo, per lui. Anche se il lavoro manuale che svolgeva nel ghetto era ben distante dalla professione di contabile che esercitava prima della guerra, almeno poteva uscire ogni giorno e vedere altra gente. Non doveva starsene rintanato come me. Non ero quasi mai uscita dall’edificio da quando, sei mesi prima, eravamo stati costretti a lasciare lo storico quartiere ebraico nel centro e a trasferirci nel distretto di Podgórze, sulla sponda meridionale del fiume, dove era stato stabilito il ghetto. Io volevo una vita normale, la mia vita. Volevo essere libera di correre oltre quelle mura verso tutti i posti che avevo sempre frequentato, e che avevo dato per scontati fino a quel momento. Immaginavo di prendere il tram per andare nei negozi della Rynek, oppure al kino a vedere un film, o a esplorare le antiche colline erbose nei dintorni della città. Desideravo almeno che Stefania, la mia migliore amica, fosse nascosta accanto a me. Invece viveva in un appartamento indipendente dall’altra parte del ghetto, designato alle famiglie della polizia ebraica.

    Ma quella volta non fu la noia o la solitudine a farmi uscire dal mio nascondiglio. Fu la fame. Avevo sempre avuto un grande appetito e quella mattina la mia colazione era stata mezza fetta di pane, ancora meno del solito. Mamma mi aveva offerto la sua porzione, ma sapevo che aveva bisogno di forze per la lunga giornata di lavoro che la attendeva.

    Con il passare della mattinata la pancia vuota iniziò a tormentarmi. Tra i pensieri si insinuarono prepotenti le visioni del cibo che mangiavamo prima della guerra: abbondanti zuppe di funghi, saporiti borscht e i pierogi, i ravioli ripieni che faceva mia nonna. A metà mattinata mi sentivo così debole che mi avventurai fuori dal nascondiglio. Scesi giù nella cucina condivisa, che consisteva in un solitario fornello a gas e un lavandino da cui sgocciolava tiepida acqua marroncina. Non avevo intenzione di prendere del cibo: se ce ne fosse stato, non mi sarei mai azzardata a rubare. In realtà volevo vedere se nella credenza fossero rimaste delle briciole, e riempirmi lo stomaco con un bicchiere d’acqua.

    Rimasi in cucina più a lungo del dovuto, a leggere la copia spiegazzata del libro che avevo portato con me. La cosa che odiavo di più del nascondiglio nella soffitta era che fosse troppo buio per leggere. Avevo sempre amato i libri, e papà ne aveva portati il più possibile dall’appartamento del ghetto, malgrado le proteste di mia madre secondo cui lo spazio negli zaini serviva per i vestiti e il cibo. Era stato mio padre ad alimentare la mia passione per lo studio e a sostenere il mio sogno di studiare medicina all’Università Jagellonica, almeno fino a quando le leggi tedesche non lo resero impossibile. Le università vennero prima interdette agli ebrei, poi chiuse del tutto. Anche nel ghetto tuttavia, alla fine di una lunga giornata di duro lavoro, papà non perse l’abitudine di trasmettermi le sue conoscenze e dibattere con me delle sue idee. Qualche giorno prima, non so come, era persino riuscito a trovarmi un libro nuovo, Il conte di Montecristo. Ma il mio nascondiglio era troppo buio per leggere, e di sera c’era poco tempo perché dopo il coprifuoco venivano spente tutte le luci. Solo un altro pochino, dissi a me stessa voltando una pagina in cucina. Un paio di minuti in più non avrebbero fatto la differenza.

    Avevo appena finito di leccare il coltello sporco del pane quando avvertii lo stridore di pesanti pneumatici, seguito da un vociare ululante. Mi pietrificai e per poco non feci cadere il libro. Fuori c’erano le SS e la Gestapo, affiancate dalla spregevole Jüdischer Ordnungsdienst, la polizia ebraica del ghetto, che eseguiva gli ordini. Si trattava di una aktion: senza alcun preavviso, un grande numero di ebrei veniva prelevato dal ghetto per essere deportato nei campi di concentramento. Era proprio quello il motivo per cui dovevo nascondermi. Schizzai fuori dalla cucina, superai l’atrio e salii le scale. Dal basso si udì un grande fracasso quando la porta principale della palazzina si frantumò e la polizia fece irruzione. Non sarei mai riuscita a tornare in tempo nella soffitta.

    Quindi corsi al nostro appartamento al terzo piano. Mi guardai attorno disperatamente, con il cuore in gola, cercando un armadio o qualsiasi cosa adatta a nascondermi in quella stanzetta in cui non c’era nulla se non il letto e un comò. C’erano altri posti, lo sapevo: la finta parete di gesso che una delle famiglie aveva costruito nell’edificio adiacente nemmeno una settimana prima. Ma era troppo distante, ormai impossibile da raggiungere. Mi focalizzai sul grande baule riposto ai piedi del letto dei miei genitori. Una volta, poco dopo esserci trasferiti nel ghetto, la mamma mi aveva mostrato come nascondermi. Ci eravamo esercitate come in un gioco, lei apriva il baule per farmi sgattaiolare dentro prima di richiuderlo.

    Era un pessimo nascondiglio, esposto proprio al centro della stanza. Ma non avevo altro. Dovevo provare. Corsi verso il letto e mi infilai nel baule, chiudendolo a fatica. Ringraziai il cielo di essere piccina come la mamma. Avevo sempre odiato quella caratteristica, perché mi faceva sembrare di almeno due anni più piccola. Ma in quel momento mi sembrò una benedizione, come del resto il fatto di essere dimagrita negli ultimi mesi viste le scarse razioni di cibo del ghetto. Riuscivo ancora a entrare nel baule.

    Quando avevamo fatto le prove, avevamo immaginato che la mamma mettesse una coperta o dei vestiti sopra il baule. Certo non potevo farlo da sola. Perciò ora il baule era lì, nudo, e chiunque fosse entrato nella stanza avrebbe potuto vederlo e aprirlo. Mi rannicchiai in posizione fetale con le braccia attorno alle gambe, percependo sulla manica la fascia bianca con la stella blu che tutti gli ebrei erano tenuti a indossare.

    Dall’edificio accanto udii un gran frastuono, il rumore del gesso che veniva spaccato da un’ascia, o da un martello. La polizia aveva scovato il nascondiglio dietro la parete, sicuramente a causa della vernice troppo fresca. Nell’aria risuonò un grido sconosciuto, un bambino scoperto e trascinato via. Se fossi andata nella soffitta mi avrebbero trovato lo stesso.

    Qualcuno si avvicinò alla porta dell’appartamento e la spalancò. Il mio cuore ebbe un tuffo. Sentivo respirare, percepivo gli occhi che perlustravano la stanza. Mi dispiace mamma, pensai, immaginando che mi rimproverasse per aver lasciato il mio nascondiglio. Mi preparai a essere scovata. Sarebbero stati più gentili con me se mi fossi arresa e fossi uscita? I passi si fecero più leggeri, il tedesco proseguì per il corridoio fermandosi a ogni porta.

    La guerra era arrivata a Cracovia durante un tiepido giorno d’autunno di due anni e mezzo prima, quando le sirene antiaeree avevano suonato per la prima volta e fatto scappare i ragazzini dalle strade. La vita si era fatta subito molto dura, e poi le cose erano andate anche peggio. Il cibo era scomparso, facevamo file lunghissime per i generi di prima necessità. Una volta mancò il pane per una settimana intera.

    Poi, circa un anno prima, per ordine del Governatorato Generale, migliaia di ebrei provenienti da paesini e villaggi si erano riversati a Cracovia, confusi, trascinando i propri averi in spalla. All’inizio mi ero chiesta come avrebbero fatto a trovare tutti un posto in cui stare a Kazimierz, il già sovraffollato quartiere ebraico. Per legge però i nuovi arrivati furono costretti a vivere nel distretto industriale di Podgórze, dall’altra parte del fiume, in una zona isolata da alte mura. Mamma collaborava con Gmina, l’organizzazione ebraica locale, per aiutare quella gente a sistemarsi. Spesso, prima che si stabilissero nel ghetto, ospitavamo a cena amici di amici. Raccontavano storie dei loro paesi natali troppo spaventose per crederci, e la mamma mi cacciava dalla stanza così che non le ascoltassi.

    Qualche mese dopo l’istituzione del ghetto, anche a noi venne ordinato di trasferirci. Quando papà me lo aveva detto, avevo stentato a crederci. Noi non eravamo rifugiati, ma residenti di Cracovia. Avevo vissuto nell’appartamento di via Meiselsa per tutta la mia vita. Si trovava in una posizione perfetta: al limitare del quartiere ebraico, a pochi minuti a piedi dalle bellezze e dai piaceri del centro, e anche abbastanza vicino all’ufficio di papà a via Stradomska da permettergli di tornare a casa per pranzo. Inoltre era situato sopra una caffetteria, dove ogni sera suonava un pianista. A volte la musica giungeva leggera fino a noi, e papà faceva volteggiare la mamma in cucina. Ma, secondo i nuovi ordini, tutti gli ebrei erano ebrei. Nel giorno stabilito. Una valigia ciascuno. E il mondo che avevo conosciuto fino a quel punto era svanito per sempre.

    Sbirciai da una fessura del baule, cercando di guardare la stanzetta che condividevo con i miei genitori. Eravamo fortunati, lo sapevo, ad avere un’intera stanza tutta per noi. Era un privilegio che ci era stato concesso perché mio padre era un capocantiere. Gli altri, spesso, dovevano condividere un appartamento con due o tre famiglie. A ogni modo, quel posto era angusto in confronto alla nostra casa. Ci ritrovavamo sempre gli uni sugli altri, i suoni e gli odori della vita quotidiana amplificati.

    «Kinder, raus!», urlò più e più volte la polizia perlustrando i corridoi. Bambini, uscite. Non era la prima volta che i tedeschi venivano a prenderci durante il giorno sapendo che i nostri genitori erano al lavoro.

    Ma io non ero più una bambina. Avevo diciott’anni e avrei potuto unirmi alle squadre di lavoro come avevano fatto altri ragazzi della mia età, alcuni persino di qualche anno più piccoli. Li vedevo mettersi in fila ogni mattina per rispondere all’appello e poi marciare verso le fabbriche. E io volevo lavorare, anche se intuivo quanto fosse duro e terribile il lavoro dall’andatura lenta e dolorosa che aveva preso mio padre, dalla sua schiena curva come quella di un anziano, dalle mani spaccate e sanguinanti di mia madre. Però lavorare voleva dire avere la possibilità di uscire e parlare con la gente. Il fatto di tenermi nascosta era spesso oggetto di discussione tra i miei genitori. Secondo papà dovevo lavorare. Nel ghetto, se avevi una tessera sindacale, eri molto stimato. I lavoratori venivano apprezzati, e avevano molte meno probabilità di essere deportati nei campi. Ma mamma, che di rado contraddiceva papà, si opponeva. «Sembra più piccola della sua età. Il lavoro è troppo duro. Sarà più al sicuro se rimarrà nascosta». In quel momento, sul punto di essere scoperta, mi chiesi se la mamma avrebbe ancora pensato la stessa cosa.

    Alla fine l’edificio tornò silenzioso, il terribile suono degli ultimi passi svanì piano piano. Ma io non mi mossi. Era proprio in quel modo che spesso la polizia coglieva in flagrante chi si nascondeva: faceva finta di andarsene e aspettava che qualcuno uscisse. Rimasi immobile, senza osare lasciare il mio nascondiglio. Mi facevano male le braccia e le gambe, poi mi si addormentarono. Persi la cognizione del tempo. Attraverso la fessura vedevo che la luce della stanza si faceva man mano più fioca, come se il sole stesse calando.

    Qualche tempo più tardi udii di nuovo un suono di passi, stavolta quelli strascicati dei lavoratori che arrancavano a casa, silenziosi ed esausti. Cercai di districarmi dalla mia posizione rannicchiata. Ma avevo i muscoli rigidi e indolenziti, e mi muovevo lentamente. Prima che riuscissi a uscire, la porta dell’appartamento si spalancò e qualcuno corse in camera a passi rapidi e leggeri. «Sadie!». Era la mamma. Aveva un tono isterico.

    «Jestem tutaj!», urlai. Sono qui. Dal momento che era tornata, avrebbe potuto aiutarmi a uscire. Ma la mia voce fu attutita dal baule. Quando provai ad aprire il catenaccio quello rimase bloccato.

    Mamma tornò in corridoio. La sentii aprire la porta della soffitta e correre su per le scale continuando a cercarmi. «Sadie!», gridò. Poi: «Bambina mia, bambina mia», più e più volte. Mi cercava e non mi trovava. Alzava la voce, ormai strillava. Pensava che me ne fossi andata per sempre.

    «Mamma!», urlai. Era troppo lontana per sentirmi, e le sue grida troppo forti. Lottai di nuovo disperatamente per liberarmi, senza successo. Mamma tornò correndo nella stanza, gemendo. Udii lo stridio della finestra che si apriva, percepii una ventata di aria fredda. Quindi mi lanciai contro il coperchio del baule, sbattendo la spalla con così tanta forza che iniziò a pulsarmi. Il lucchetto cedette.

    Uscii dal baule e mi tirai in piedi. «Mamma?». La trovai in una posizione stranissima: un piede sul davanzale, la figura flessuosa stagliata contro il gelido cielo del crepuscolo. «Che stai facendo?». Per un secondo pensai che mi stesse cercando fuori. Ma lei aveva il volto stravolto dal dolore e dall’angoscia. E fu allora che capii perché mamma era sul cornicione della finestra. Pensava che fossi stata catturata insieme agli altri bambini. E non voleva più vivere. Se non mi fossi liberata in tempo dal baule, sarebbe saltata giù. Ero la sua unica figlia, ero tutto il suo mondo. Preferiva uccidersi piuttosto che andare avanti senza di me.

    Corsi verso di lei con i brividi che mi attraversavano la schiena. «Sono qui, sono qui». La mamma traballò sul cornicione, e io le afferrai un braccio per impedirle di cadere. Fui sopraffatta dal senso di colpa. Avevo sempre voluto compiacerla, veder comparire quel prezioso sorriso sul suo bellissimo viso. E ora le avevo causato così tanto dolore che era stata sul punto di fare l’impensabile.

    «Ero così preoccupata», disse quando la aiutai a scendere e richiusi la finestra, come se bastasse a spiegare tutto. «Non ti ho trovato in soffitta».

    «Ma mamma, mi sono nascosta dove mi hai detto tu». Indicai il baule. «L’altro posto, ricordi? Perché non mi hai cercata lì?».

    La mamma assunse un’espressione confusa. «Non pensavo potessi ancora entrare lì dentro». Ci fu una pausa. Poi scoppiammo entrambe a ridere, un suono stridente e fuori luogo in quella stanza penosa. Per qualche secondo fu come se fossimo tornate nel nostro vecchio appartamento di via Meiselsa, e niente di tutto ciò fosse mai accaduto. Se potevamo ancora ridere, allora le cose sarebbero andate bene. Mi aggrappai a quell’ultimo pensiero improbabile come a un salvagente in mare.

    Poi però un urlo risuonò nell’edificio. Ne seguì un altro. Le nostre risate si spensero. Erano le madri degli altri bambini che erano stati portati via dalla polizia. Fuori si udì un tonfo. Feci per sbirciare fuori dalla finestra ma mia madre mi bloccò. «Non guardare», ordinò. Era troppo tardi. Avevo intravisto Helga Kolberg, la donna che viveva in fondo al corridoio, giacere immobile sul marciapiede, tra la neve tinta di carbone, gli arti piegati in modo strano, la gonna dispiegata tutt’attorno alla vita come un ventaglio. Si era resa conto che i suoi bambini se n’erano andati e, proprio come mia madre, sentì di non avere la forza di vivere senza di loro. Mi chiesi se saltare fosse un istinto condiviso, o se ne avessero parlato, una specie di patto suicida nel caso i loro peggiori incubi si fossero avverati.

    In quel momento mio padre entrò correndo nella stanza. Io e mamma non dicemmo una parola ma, dalla sua espressione insolitamente cupa, capii che sapeva della aktion e di cosa era successo alle altre famiglie. Papà si limitò ad avvicinarsi e ad avvolgerci con le sue enormi braccia, stringendoci più forte del solito.

    Ci sedemmo, immobili e in silenzio, e io osservai i miei genitori. Mamma era di una bellezza sorprendente: magra e aggraziata, con i capelli biondo platino come le principesse nordiche. Non assomigliava affatto alle altre donne ebree, e più di qualche volta avevo sentito sussurrare che non fosse una di loro, che fosse una forestiera. Avrebbe potuto andarsene dal ghetto e vivere da non-ebrea, se non fosse stato per noi. Ma io assomigliavo a papà, con i capelli scuri e ricci, la pelle olivastra: era innegabile che fossimo ebrei. Mio padre aveva finito per somigliare proprio al tipo di operaio che i tedeschi volevano nel ghetto, con le spalle larghe per sollevare grossi tubi o lastre di cemento. In realtà era un contabile – o meglio, lo era stato fino a quando per la sua società era diventato illegale tenerlo come dipendente. Nonostante volessi sempre compiacere la mamma, era papà il mio alleato, custode di segreti e tessitore di sogni, la persona che rimaneva sveglia fino a tardi con me a sussurrare al buio e con cui avevo esplorato la città a caccia di tesori. Mi strinsi a lui con più forza, cercando di perdermi nella sicurezza del suo abbraccio.

    Però le braccia di papà offrivano ben poco riparo da tutti i cambiamenti che si susseguivano intorno a noi. Nonostante le condizioni terribili, il ghetto ci era sembrato abbastanza sicuro. Vivevamo insieme ad altri ebrei, e i tedeschi avevano persino istituito lo Judenrat, un consiglio di ebrei per la gestione degli affari quotidiani. Papà diceva spesso che magari, se non avessimo dato nell’occhio e avessimo obbedito agli ordini, i tedeschi ci avrebbero lasciati in pace dentro quelle mura finché la guerra non fosse finita. Lo speravano in molti. Ma dopo quella giornata, io non ne ero più tanto sicura. Osservai l’appartamento, invasa da un misto di disgusto e paura. I primi tempi odiavo vivere lì: ora invece ero terrorizzata all’idea che potessero portarci via.

    «Dobbiamo fare qualcosa», sbottò mamma dando voce ai miei pensieri, il tono più acuto del solito.

    «Domani la porto con me e la faccio registrare per avere un permesso di lavoro», disse papà. Stavolta la mamma non si oppose. Prima della guerra, era bello essere bambini. Ma in quel momento l’unica cosa che poteva salvarci era renderci utili e lavorare.

    La mamma però non parlava solo di un visto lavorativo.

    «Verranno ancora, e la prossima volta non saremo così fortunati». Non si prese la briga di trattenersi per il mio bene. Io annuii, silenziosa. Le cose stavano cambiando, disse una voce dentro di me. Non potevamo stare lì per sempre.

    «Andrà tutto bene, kochana», mi rassicurò papà. Come faceva a dirlo? La mamma gli posò la testa sulla spalla: sembrava credergli, come sempre. Volevo farlo anche io. «Penserò a qualcosa. Perlomeno…», aggiunse papà mentre ci abbracciavamo, «…siamo ancora tutti insieme». Quelle parole riecheggiarono nella stanza, a metà tra una promessa e una preghiera.

    Capitolo due

    Ella

    Cracovia, Polonia

    Giugno 1942

    Attraversai la piazza del mercato in una calda serata d’inizio estate. Passai accanto alle bancarelle di fiori profumati all’ombra del Mercato dei tessuti. C’erano fiori luminosi e boccioli freschi che ben poca gente aveva voglia di comprare, e ancora meno aveva i soldi per farlo. I locali erano aperti, ma non affollati come sarebbero stati un tempo in una serata così piacevole; facevano comunque grandi affari vendendo birra ai soldati tedeschi e ad altri sconsiderati che osavano unirsi a loro. Se non si prestava troppa attenzione, si sarebbe detto che non era cambiato nulla.

    Invece, era cambiato tutto. Da circa tre anni Cracovia era sotto occupazione. Bandiere rosse con svastiche nere sventolavano dal Sukiennice, il lungo edificio giallo del Mercato dei tessuti che correva al centro della piazza, e anche dalla torre di mattoni del Ratusz, il Comune. La Rynek era stata rinominata Adolf-Hitler-Platz, e i centenari nomi polacchi delle strade erano stati convertiti in Reichsstrasse, Wehrmachtstrasse e via dicendo. Cracovia era stata designata da Hitler come la sede del Governatorato Generale ed era stretta nella morsa delle SS e dei soldati tedeschi, scagnozzi con gli stivali che tormentavano i cittadini polacchi a proprio piacimento, percorrendo i marciapiedi a gruppi di tre o quattro e costringendo gli altri pedoni a scansarsi. All’angolo della piazza un ragazzo con i pantaloncini corti vendeva copie del «Krakauer Zeitung», il giornale di propaganda tedesca che aveva sostituito quello locale. Sotto la coda: così lo chiamava la gente, bisbigliando in modo irriverente, per intendere che fosse un pezzo di carta utile solo a pulirsi il fondoschiena.

    Nonostante quegli orrendi cambiamenti, era comunque piacevole uscire, sentire il sole sul viso e sgranchirsi le

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