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L'ombra del Gabbiano
L'ombra del Gabbiano
L'ombra del Gabbiano
E-book133 pagine1 ora

L'ombra del Gabbiano

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Info su questo ebook

La “Casta Diva” Maria Callas, l’ammiraglio Horace Nelson, i Paolo e Francesca di dantesca memoria, e poi ancora il re Enrico VIII d’Inghilterra, Maria Antonietta e la spia olandese Mata Hari: sono alcuni dei protagonisti de L’ombra del gabbiano, raccolta di ventidue brevi racconti in grado di appassionare e coinvolgere con il loro mix di situazioni dai toni ora ironici ora drammatici, facendo emergere il piacere creativo dell’autrice nello scrivere e nell’immaginare eventi singolari e personali avvolti nella loro dimensione storica.

Barbara Garosi, nata a Milano, dopo un diploma di traduttore ha collaborato per organizzazioni fieristiche in qualità di addetto ufficio stampa. Ha esercitato la professione di traduttore soprattutto in campo tecnico. Si è occupata per anni di studi di filosofia orientali e di teatro giapponese. Insegnante di dizione e condirettrice dell’Acting Studio (unica scuola con Metodo Stanislavskj). Dopo anni di collaborazioni giornalistiche ha insegnato presso l’Istituto Europeo di Design e ha tenuto corsi sulla scienza della comunicazione. Ha pubblicato un saggio su Salvatore Quasimodo, tiene conferenze storico-letterarie, ha lavorato come pubblicista presso svariate testate giornalistiche.
Dal 2010 si occupa, in prima persona, della creazione e messa in scena degli spettacoli del “Concerto di Dame”. 
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2022
ISBN9788830665590
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    Anteprima del libro

    L'ombra del Gabbiano - Barbara Garosi

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    La messa di mezzanotte

    Nevicava. Dorotea Von Lechis si infilò i guanti con un’ultima occhiata alla specchiera del salotto; fissò poi la pendola sopra il camino: segnava venti minuti alla mezzanotte.

    Venti minuti alla messa nella Cattedrale. La carrozza sostava già sulla strada, in attesa.

    «Herman» impaziente chiamò il marito. Non ebbe risposta. Si avviò verso il vestibolo.

    «Herman» ripeté ai piedi delle scale. Ancora silenzio. «Ecco» si disse, «lo fa apposta, eppure lo sa che le scale mi danno l’affanno.»

    L’affanno nel fare le scale lo provava da sempre, ma negli ultimi tempi anche di notte, a letto, il cuore le sbatteva come un volo di foglie secche e lei ad occhi sgranati nel buio, ad aspettare che le passasse. Herman dormiva voltandole la schiena un sonno pesante e quieto, fino al mattino, un sonno che tanto gli somigliava a ben vedere. Placato l’affanno, Dorotea si addormentava a notte alta facendo sogni agitati e confusi, mai lieti.

    Cominciò a salire i gradini: la pendola batté il quarto.

    A quell’ora suo fratello Hans, con Flora la sua giovane moglie, aveva senz’altro già occupato il banco di famiglia nella Cattedrale.

    Hans e Flora si erano conosciuti da bambini, promessi da adolescenti, sposati appena la legge glielo aveva permesso; ora vivevano l’armonia incantata in una casa che a Dorotea pareva di zucchero filato. Solo l’affetto verso il fratello le impediva di provare un’invidia aspra e avvelenata.

    D’un tratto si sentì stanca d’una dolente stanchezza; si lasciò scivolare su uno scalino chiusa nel mantello di velluto bordato di martora.

    «Mezzanotte meno dieci, mi toccherà salire in camera.»

    Non si mosse. Come una bambola di pezza abbandonata, restava nel silenzio della notte invernale: si vedeva qualche anno prima seduta al piano sommersa dagli applausi. Clara Wieck l’abbracciava. «Brava, molto bene.» Clara Wieck la grande pianista, moglie di Robert Schumann. «Brava, potrai diventare una grande pianista se non commetti l’errore di sposarti.»

    E lei quell’errore l’aveva commesso. Aveva sposato Hermann Dreier, l’erede di una famosa fabbrica di porcellane; giovane e gentile, serio, senza difetti come le sue zuppiere e che di musica non capiva nulla.

    Quando Dorotea suonava, se ne stava seduto buono buono lisciandosi la manica: appena lei si interrompeva faceva un breve inchino abbandonando rapido la stanza alla volta del suo studio, del giardino, del cancello della villa. La libertà insomma.

    Libertà che a Dorotea pareva negata in quell’inverno rigido e nevoso. Alle quattro era buio; si agitava da una stanza all’altra incapace di leggere o di suonare, non trovando requie: mai, mai la primavera avrebbe fatto ritorno nel giardino dagli alberi ischeletriti su cui si era appollaiata la Morte. Un diluvio di giorni uguali che la soffocavano, un interminabile e lentissimo scorrere del calendario, ed era sera con la serva che recava il lume per preparare la tavola tirando fuori le posate dal cassetto e stendendo la tovaglia.

    Sempre, sempre gli stessi gesti.

    Un suono la riscosse dal torpore: un suono forte, potente, insistito. Un suono di gioiosa esultanza.

    «Le campane. Le campane. È mezzanotte, dio è mezzanotte.»

    «Hermann» gridò salendo gli ultimi gradini e precipitandosi in camera da letto. «Hermann è mezzanotte, la messa…»

    Hermann sedeva accanto al fuoco, un libriccino fra le mani: gli occhiali gli brillarono guardando sorpreso sua moglie.

    «È tardissimo! Sei pronto?» Lui le sorrise posando il libro. Aveva delle belle mani, dopo tutto, e dopo tutto era anche un bel giovane.

    «Sali in carrozza, ti raggiungo subito.» Lei si voltò rapida, impaziente.

    «Dorotea» la fermò sulla porta, «Che c’è ancora?» e la voce le era divenuta subito colma di insofferenza.

    «Dorotea, quel mantello ti sta molto bene: stasera sei incantevole.» «Grazie» si sentì rispondere e la lama del rimorso le penetrò nell’anima. Forse avrebbe potuto amarlo, forse avrebbero potuto essere felici. Forse le sue belle mani potevano placare il suo cuore di notte, al buio, conducendolo al sonno e alla quiete.

    Uscì nella neve: il ghiaccio brillava azzurrino. Salì in carrozza aiutata dal cocchiere.

    «Buon Natale» gli si rivolse con una dolcezza che la sorprese.

    «Buon Natale signora e che Dio la benedica.»

    Si aggiustò il mantello: incantevole, pensò, mi trova incantevole, certo sono incantevole e ancora giovane. Sentì chiudere il portone e accostare il cancello. La primavera non le parve poi lontana.

    Hermann le si accomodò accanto: Dorotea gli strinse una mano.

    Sventura

    L’uomo camminava svelto sul sentiero. Il sole tramontato dietro il promontorio, il mare una lastra grigia; il freddo incattiviva. Gennaio. Un desiderio di fuoco allegro e benefico: cibi buoni e nutrienti, vino rosso che scalda e rianima.

    Da che la sventura si era abbattuta sulla sua casa, Jérôme mangiava in fretta una scodella di minestra spesso in piedi; beveva il vino senza goderselo e sedeva presso il camino fissando i ciocchi ardenti fino al giungere del sonno. Si infilava nel letto quando il sonno era svanito, rimasto nel camino tra le braci: nel letto era tutto un voltarsi e rigirarsi finché non comparivano loro, i ricordi. Uno in particolare veniva a tormentarlo, ad artigliarlo come un uncino.

    Erano due estati fa, una notte di luna. La finestra spalancata, sua moglie appoggiata al davanzale respirando il profumo del gelsomino che saliva la facciata della casa. Il mare era tutto una scaglia d’argento. «Vieni, vieni a sentire!» Contenta, lieta, esile nella veste leggera; lo cingeva felice e gli si abbandonava. Un raggio di luna penetrava la stanza e batteva sulle sponde della culla.

    Tre mesi dopo accompagnava moglie e bimbo al cimitero: una febbre maligna, veloce come una saetta, ribelle alle cure, implacabile, crudele crudele che, maledetta sempre la sua fibra non lo aveva nemmeno sfiorato.

    Al bivio si incontrò con padre Gérard, di ritorno dalla visita alla vedova Sabelle. Da giorni la vecchia pareva sul punto di andarsene: una lunga quieta agonia priva di spasimi, come una candela che si accorcia eppure non si spegne mai.

    «Buonasera Jérôme.» « Buonasera padre Gérard.»

    Padre Gérard in Dio ci credeva veramente: era un prete indulgente, paterno, severo solo coi bigotti e gli ipocriti.

    Un gatto sulle ginocchia,

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