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Cornelia
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E-book200 pagine2 ore

Cornelia

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Info su questo ebook

Ci sono persone che hanno vissuto mille vite in una sola, persone che non si sono mai tirate indietro di fronte a niente, in grado di affrontare qualsiasi difficoltà e sapersi reinventare in ogni momento. Persone come Cornelia, che ci viene presentata in queste pagine con uno sguardo amico. Insieme a Cornelia viaggiamo dall’Italia al Medio Oriente; ci immergiamo nelle bellezze degli arredi tedeschi, delle città italiane e degli odori speziati persiani; ci ritroviamo a fronteggiare rivolte e situazioni politiche complesse, accompagnati da musica sofisticata e melodiosa; ci troviamo con il cuore suddiviso tra personalità molto differenti, tutte da amare in un modo diverso. Tutto ciò è stata la vita di Cornelia, e questo viaggio vale la pena di essere ricordato.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2023
ISBN9788830688438
Cornelia

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    Anteprima del libro

    Cornelia - Nicola Stolfi

    cover01.jpg

    Nicola Stolfi

    Cornelia

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-8179-8

    I edizione luglio 2023

    Finito di stampare nel mese di luglio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Cornelia

    In copertina: disegno di Mahvash Alemi

    Se l’italiano, sempre diviso tra l’odio e l’amore, vive di passioni,

    il francese di vanità, i buoni e semplici discendenti degli antichi

    germani vivono di immaginazione… e questo avviene

    in particolare nelle donne.

    Stendhal, Dell’amore

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Capitolo 1

    Epilogo

    Cornelia è morta.

    Unico testimone la fotografia in bianco e nero di un uomo dallo sguardo fiero.

    Il decesso è avvenuto in una cupa domenica di novembre del 2016 intorno alle dieci di sera. Poche ore prima, con mia moglie Mahvash, eravamo andati a trovarla al Policlinico di Roma. Era già accaduto diverse volte, anzi proprio noi l’avevamo accompagnata quando era stata ricoverata una decina di giorni prima. Quel giorno però non riuscivamo a trovarla, le avevano cambiato reparto trasferendola in una stanza singola in quanto non tollerava più la convivenza con altri pazienti.

    Appena entrati in ospedale fummo aggrediti da un orribile odore, un misto di etere e di fenolo, quell’odore che ti attacca la gola.

    «Stiamo cercando la signora Ghaed. Sa: quella signora corpulenta che parla italiano con un leggero accento straniero» chiesi a una infermiera grassa con i baffi che letteralmente correva nei corridoi inseguendo inutilmente continui campanelli.

    «Ma che pe’ caso è quella signora co’ cinque cognomi?».

    «Sì, deve essere quella: si chiama Ghaed o Lehmann».

    «Sta nella stanza 15. Ammazza quanto è incazzosa quella. Sta sempre a lamentasse. Diteje ch’è mejo esse tranquilla che ricca».

    Trovammo Cornelia molto agitata, afflitta da dolori lancinanti; la malattia non l’aveva cambiata fisicamente se non che aveva perso completamente la lucentezza dei suoi occhi sognanti e l’inedia aveva deformato quella bocca fatta per sorridere.

    Sembra quasi che le donne sopportino e reagiscano meglio degli uomini alle malattie e ai dolori, anche nell’aspetto fisico.

    Mahvash cercava di darle sollievo accarezzandole amorosamente la pancia diventata una montagna per un’ernia troppo a lungo trascurata. Il gesto, consueto tra le donne, si dimostrò più affettuoso che efficace. Il respiro della paziente diventava sempre più affannoso e solo quando espirava, emettendo un leggero rantolo, sembrava guadagnasse un attimo di sollievo.

    Era la prima volta che vedevo Mahvash e Cornelia nelle posizioni invertite: Mahvash protettrice e Cornelia assistita. Per una strana combinazione normalmente era Cornelia che proteggeva Mahvash tenendola su un piedistallo, consentendole libertà che non concedeva a nessun’altra: come ad esempio la possibilità di entrare in cucina a darle una mano mentre stava ai fornelli. Come assoluto privilegio chiamava l’amica con lo stesso appellativo che aveva riservato solo alla sua gatta preferita: la mia principessa. Questo diritto esclusivo nasceva dal fatto che Cornelia riconosceva in Mahvash una gran classe e una avvenenza unica, come se queste atouts fossero meriti personali e non doti naturali.

    La dolcezza del gesto generoso illuminava il viso di Mahvash e faceva risorgere quella bellezza che aveva caratterizzato e allietato la sua gioventù. Una bellezza di uno stampo particolare per i canoni occidentali ma straordinariamente diffuso in Iran, suo paese di origine: occhi verdi, capelli scuri, zigomi pronunciati, bocca carnosa e sensuale, leggere efelidi distribuite su una pelle decisamente bianca.

    Nella stanza, accanto al letto, si stagliava, su un comodino di metallo con un piano in formica scrostato, zoppo di uno dei quattro piedi in equilibrio precario, la fotografia, da cui non poteva mai separarsi, di Ghassemlou, il leader curdo ucciso da agenti dei servizi segreti iraniani; oltre alla foto, una bottiglia di liquido, di quelle per la flebo, una sedia di plastica bianca, un libro enorme e un’agenda. Nel cassetto aperto un paio di occhiali, una collana di perle, un anello d’oro con uno stemma inciso in un cammeo, un mazzo di chiavi e un vecchio telefonino. Nonostante l’ambiente fosse ben riscaldato regnava un freddo che entrava nelle ossa e che si prova solo negli ambienti di dolore.

    Cornelia cadde in un leggero torpore; la notte le capitava di dormire con sempre maggiore difficoltà, quasi un dormiveglia segnato da un respiro più lento e regolare. Appena svegliata il cervello tornò a funzionare senza opacità e a combinare le tessere della memoria; cominciò a chiedere insistentemente, con un tono più autoritario del solito, una camomilla: difficile da trovare in quella zona a quell’ora per di più in un giorno festivo. Mahvash mi guardò interdetta: frustrata di non potere soddisfare la richiesta così naturale di una malata terminale.

    Non si dovrebbe morire poche ore dopo avere chiesto una camomilla!

    L’impresa si dimostrò così difficoltosa che, non volendo negare a una moribonda un desiderio in fondo così semplice, dopo una lunga ricerca dirottammo necessariamente la scelta su un semplice tè. Dovemmo arrivare fino a uno squallido bar, ubicato proprio di fronte all’ospedale, frequentato da infermieri, portantini e persone dall’aspetto poco raccomandabile che si possono incontrare solo di domenica.

    «Speriamo che non si accorga che non è una camomilla e che non ce lo tiri appresso» se ne uscì Mahvash.

    Rientrati nella stanza con la bevanda incrociammo un nuovo visitatore: un vecchio signore che a fatica si reggeva su un bastone, lo sguardo assente di chi è concentrato a meditare, attraverso l’imminente dipartita di una persona vicina, la propria fine e dava l’idea di aver dimenticato da tempo come si fa a ridere. Mahvash lo riconobbe e lo abbracciò, lui ricambiò con un impeccabile baciamano: Virgilio Colombo, questo il suo nome, diplomatico con una lunga permanenza nella sede dell’ambasciata italiana a Teheran. La barba brizzolata e una capigliatura completamente bianca, che una volta doveva essere di un nero accecante, definivano i lineamenti di un volto perfettamente tondo segnato da due increspature profonde, stampigliate sulla fronte, che inducevano a immaginare una vita combattuta tra il peso di avere svolto un ruolo lavorativo inadeguato alla sua posizione in contrasto con il dolce piacere della carne e della tavola. Il vecchio mostrava quello che era nel profondo: quando cioè, come tutti, si è perso il proprio talento che serve per nascondersi. Indossava un vestito marrone di buon taglio, sicuramente di sartoria di provincia, che copriva una corporatura massiccia ancora robusta; all’asola della giacca portava un vistoso stemma dell’Unione Monarchica Italiana con la corona reale su un nodo Savoia.

    Se Cornelia fosse stata completamente in sé avrebbe notato che questa immagine decadente di un signorotto di campagna era ben lontana da quella del rampante diplomatico che aveva conosciuto nella cornice fastosa della residenza dell’ambasciatore italiano a Teheran. In Iran tra i due era nato un sentimento di solidarietà basato sul bisogno di una reciproca assistenza: per Cornelia di natura pratica, per Virgilio di copertura sociale. Col tempo la relazione si era andata consolidando, intrecciata in diversi momenti della vita e oggi, rafforzata dalle reciproche difficoltà, era stata promossa dai due, forse immeritatamente, a rango di solida amicizia.

    Scambiai un sorriso di circostanza con Colombo e dopo essermi accertato che saremmo stati sostituiti nella visita, cogliemmo l’occasione per rientrare a casa. Uscendo persi per un momento il senso di orientamento: la penombra rende tutto indifferenziato. I lunghi corridoi del Policlinico mi sembrarono più alti e bui del solito: a quell’ora erano disperatamente vuoti, rimbombavano i passi degli zoccoli di legno degli infermieri e si potevano sentire in lontananza amplificate anche le voci dei radi visitatori.

    La solitudine e il silenzio in questi ambienti di dolore sono particolarmente insopportabili, come se la presenza e la voce di altre persone abbia la capacità di distrarre e condividere la tristezza. Non a caso è facile e frequente che tra i familiari o gli amici dei pazienti nelle sale di attesa si rompa il silenzio e si parli, magari a voce bassa, delle proprie pene. La sofferenza fa reclinare leggermente la testa ai visitatori ma stabilisce una immediata confidenza sulle sventure umane: parlare dei propri mali, a chi per uniformità di condizione è disposto ad ascoltarti, è già una consolazione.

    Ritrovammo la via di uscita solo per aver riconosciuto all’angolo di un corridoio una delicata statuina in gesso di una madonnina dalla carnagione avorio e la veste nera, letteralmente coperta da collanine da poco prezzo e da rosari. Ai piedi della statuetta mani riconoscenti avevano depositato una rosa rossa ormai appassita e una boccetta di profumo svampito, semivuota, a forma di cuore. Anche gli impolverati busti bronzei di medici emeriti nel patio buio in stile antica Roma a pian terreno contribuivano a conferire un’aria di mestizia.

    Non erano trascorse neppure due ore dal rientro a casa, passate in totale silenzio tra me e mia moglie, che squillò il telefono. Per presentimento non volli rispondere, non sarei stato in vena di imbastire una qualsiasi discussione o ascoltare una notizia normale; alla fine alzai la cornetta di malavoglia.

    Una metallica voce femminile annunciò: «Parlo con Nicola Stolfi?».

    «Sì, sono io».

    «Sono una infermiera del Policlinico, mi dispiace darle una notizia triste» disse con l’intonazione di chi è abituata a dare annunci simili e parlando velocemente per timore di essere interrotta. «La signora Cornelia Ghael è deceduta pochi minuti fa. Mi aveva lasciato detto che per qualsiasi evenienza avrei dovuto chiamarla. Abbiamo qualche effetto personale che la signora ha chiesto di consegnare alla signora Mahvash. Si dice così?».

    «Sì, si dice così. Grazie».

    Il colpo fu così improvviso che non mi venne neppure l’impulso di piangere. Nel viaggio di ritorno al Policlinico con Mahvash non smettemmo un secondo di parlare: come avvertire le figlie che, vivendo all’estero, forse non sapevano della malattia della madre? Cosa avremmo dovuto fare per il funerale? Come avremmo dovuto sistemare la casa?

    «Come può essere che si muoia in un paio d’ore?» imprecò Mahvash.

    Il silenzio questa volta faceva paura; nell’ambiente chiuso dell’ascensore sarebbe stato ancora più pesante e per questa ragione salimmo molto lentamente a piedi i due piani dell’ospedale.

    Il dolore impone lentezza, solo la felicità stimola la velocità.

    Entrammo nella stanza e l’unica differenza apparente che notai rispetto a poche ore prima era un leggero sorriso sul volto di Cornelia. Oltre il viso le uniche parti del corpo scoperte che risaltavano erano le grandi mani rimaste miracolosamente affusolate; le palme erano rimaste lisce mentre sul dorso spiccava ormai un intreccio fitto di vene azzurrognole.

    Mi scorreva rapidamente nella mente quel tratto della vita passata in comune con Cornelia. Ripensai che in fondo i suoi sogni erano rimasti uguali da quando era bambina fino a quando era diventata adulta e probabilmente sarebbero stati gli stessi se le fosse stato consentito di arrivare a una età veneranda. Per non cadere nella disperazione ogni tanto distoglievo lo sguardo da quel corpo inanimato e lanciavo furtivamente un’occhiata implorante a Mahvash; neppure questo riusciva a darmi conforto. Lei, con un filo di voce, ebbe la forza di rompere il silenzio: «Ricordi che diceva che la teneva in vita solo la bellezza e l’estetica?».

    Mi distrassi solo quando sentii il cigolio della porta della stanza: era l’infermiera che, accertatasi della identità di Mahvash, le consegnò il libro Il conte di Montecristo, un mazzo di chiavi, un orologio, un telefonino di prima generazione, un anello e un’agenda.

    Il giorno successivo Mahvash telefonò in Germania a una delle figlie di Cornelia – la primogenita Firuzeh – per comunicare la triste circostanza. La risposta alla notizia fu agghiacciante ed espressa apparentemente senza alcuna emozione: «No. Noi non veniamo. Non è stata la nostra madre».

    Ci volle tutta la comprensione

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