Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne
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Anteprima del libro
Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne - Sara Manisera
I
Estate
Era un venerdì di fine luglio. Viaggiavo da Ovest verso Est, da Potenza a Bari. La strada era circondata da colline e terreni scoscesi su cui pascolavano greggi di pecore. Oltre le colline, s’intravedevano fitte foreste e borghi arroccati sulle Dolomiti Lucane. Ai due lati della strada, piantagioni di grano, uliveti, boschi di faggi e cerri; qua e là cascinali di contadini e vignaioli resistenti. Sbagliai direzione e mi ritrovai inerpicata su un sentiero che conduceva a Brindisi di Montagna, un groviglio di vicoli e casupole. Scesi dall’auto a contemplare un paesaggio spoglio e arcano, quasi ai confini del mondo. L’aria era fresca, incontaminata e ricca di ossigeno. Sembrava che il tempo, in questo lembo di Lucania, si fosse fermato e che l’antica civiltà contadina, narrata da Carlo Levi, fosse ancora lì, viva e immutata. tfeci dietrofront e ripresi la giusta carreggiata. Avevo un appuntamento nel tardo pomeriggio di fronte al Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. La città era sonnecchiante, svuotata dei suoi cittadini già in vacanza e degli studenti rientrati ai propri paesi, dopo la sessione estiva degli esami. La cappa umida d’afa era smorzata da un venticello caldo che arrivava dal mare. Da una Seat Ibiza, scese un giovane uomo, alto e di grande corporatura, con i capelli lunghi e la barba arruffata. Aveva una faccia curiosa, bonaria, che trasmetteva una certa familiarità.
«Piacere, sono Federico, parcheggiati pure lì, vicino a quella pianta di fico», disse.
«Finalmente ci conosciamo di persona», gli risposi.
«Benvenuta, all’Orto Gentile. Con calma, ti faccio vedere tutto».
Con Federico avevamo intrapreso una corrispondenza virtuale nei mesi precedenti, grazie a Cecilia, un’amica in comune che ci aveva messo in contatto.
Parcheggiai l’auto e ci dirigemmo su un viottolo sterrato, delimitato da bassi muretti a secco. Lo aiutai a trasportare alcune cassette di melanzane e peperoni, pronte per essere vendute. A sinistra, c’era un vasto campo di pomodori San Marzano; accanto il Fiaschetto, un seme autoctono del sudest barese; di fronte una rimessa in pietra su cui campeggiava un manifesto verde con la scritta Apriamo gli orti, liberiamo la terra
. A destra, grigi palazzoni facevano da scenografia scadente a quest’oasi di campagna immersa nell’area urbana di Bari. Accanto al deposito, uno sparuto gruppo di contadini stava allestendo delle tavole in legno per la vendita dei prodotti ortofrutticoli al mercatino di Fuori Mercato, una rete nazionale che univa, dalla Lombardia alla Sicilia, realtà urbane e rurali in nome dello scambio, del mutuo soccorso e della solidarietà. Era il secondo appuntamento estivo della stagione. I produttori si incontravano una volta a settimana per vendere frutta e ortaggi direttamente ai cittadini, senza intermediari.
«Dobbiamo fare una premessa», esordì Federico, «tutto quello che vedi, nasce da un gruppo di giovani italiani precari e di rifugiati politici, protagonisti di alcune lotte per il diritto alla casa, per i documenti e per contratti di lavoro regolari. Insieme abbiamo dato vita a quest’esperienza di tipo cooperativo e mutualistico, avviando l’autoproduzione di salsa di pomodoro all’interno di una filiera etica e naturale». Il progetto si chiamava SfruttaZero. Univa l’associazione Solidaria di Bari e Diritti a Sud di Nardò, in provincia di Lecce. Il loro obiettivo era coltivare pomodori senza sfruttamento e creare una filiera agroalimentare, alternativa alle sole logiche del profitto, che tutelasse l’ambiente e la dignità dei