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Corrispondenze afghane: Storie e persone in una guerra dimenticata
Corrispondenze afghane: Storie e persone in una guerra dimenticata
Corrispondenze afghane: Storie e persone in una guerra dimenticata
E-book425 pagine9 ore

Corrispondenze afghane: Storie e persone in una guerra dimenticata

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Info su questo ebook

In questo libro ci sono le storie di persone che vivono in mezzo ad un feroce conflitto tra disperazione, sorprendente resilienza e voglia di guardare al futuro. In Afghanistan la guerra non è finita dopo il ritiro del grosso delle truppe occidentali nel 2014, come invece il grande pubblico è spinto a credere dal silenzio dei media e della politica. Nonostante i miliardi spesi e le vite sacrificate dall’Occidente (Italia compresa) per un conflitto più lungo della II guerra mondiale, l’Afghanistan è nel caos: il numero di vittime civili è al suo massimo storico, la produzione di oppio pure, il corrotto governo “democratico” controlla solo metà del territorio, gli USA sono pronti a riconsegnare il Paese ai talebani; gli afghani sono pronti ad una nuova grande fuga verso l’estero.
 
“ Per scrivere questo libro sono stato in astanterie sporche di sangue fresco; ho visitato covi nascosti in bella vista; attraversato umili botteghe dove si trattavano affari da milioni di dollari; camminato in uffici prestigiosi popolati da grandi corrotti; scelto i melograni migliori al bazar di un villaggio crocevia della guerriglia; comprato del caldo pane nan da vecchi appollaiati dentro vetrine con la tv accesa; bevuto tè il cui fumo caldo ha sciolto la diffidenza delle persone che me l’avevano versato; viaggiato su pickup delle truppe afghane come un bersaglio mobile; infilato le mani nella stessa ciotola di riso e montone con giornalisti, intellettuali, talebani, tagliagole, trafficanti di pietre preziose e reperti archeologici, infiltrati dei servizi segreti, padri di famiglia, mercenari, guardie private, poliziotti, politici, atleti, medici, infermieri, feriti, rifugiati e aspiranti tali, vedove e orfani di guerra. In una parola con il popolo afghano, che mi ha sempre trattato come uno di loro; di questo privilegio non posso che essere grato al destino. ”
 
I numeri numeri chiave della guerra dimenticata
Nel 2018 sono stati uccisi 3.804 civili nel corso di combattimenti e attentati, 7.189 i feriti. Nel primo semestre del 2019 le forze governative e i bombardamenti americani hanno ucciso più civili che i talebani e l’ISIS.
Ogni giorno in Afghanistan vengono uccisi almeno 25 tra soldati e poliziotti. La guerra al terrorismo in Iraq, Afghanistan e Pakistan ha fatto 507.000 morti tra il 2001 e il 2018. Nel 2018 caccia, bombardieri e droni americani hanno sganciato 7.362 ordigni, un record storico.
Gli USA hanno speso oltre 100 miliardi di dollari per la ricostruzione. Nel 2000 nel paese sono stati coltivati circa 82.000 ettari a papavero da oppio, sedici anni dopo, nel 2017, si è passati a 328.000 ettari, nel Paese si raffina sempre più eroina e si producono metanfetamine a basso costo. Nel secondo trimestre del 2019 si sono contati 6.445 EIA (Enemy-Initiated Attacks ovvero scontri a fuoco, esplosioni di IED, fuoco indiretto e così via), in media circa 70 attacchi della guerriglia al giorno senza considerare le operazioni avviate dalle forze governative e dagli alleati americani. Dopo il ritiro delle truppe della colazione ISAF a guida NATO nel 2014, sono rimasti 17.148 soldati stranieri per la missione Resolute Support più almeno 6.000 militari della missione USA antiterrorismo Freedom’s Sentinel. Per l’addestramento delle forze locali, operano circa 1.000 soldati italiani. Non esistono dati certi sulle milizie al servizio della CIA, spesso accusate di esecuzioni sommarie di civili innocenti durante i raid notturni.
L’Afghanistan è il Paese più pericoloso al mondo dove lavorare come giornalista, nel 2018 sono stati uccisi 15 reporter. Il governo controlla solo il 55% del Paese, i restanti distretti sono sotto controllo talebano oppure “contesi”, con continui combattimenti e rovesciamenti di fronte.
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2021
ISBN9791280551016
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    Anteprima del libro

    Corrispondenze afghane - Nico Piro

    Per scrivere questo libro sono stato in astanterie sporche di sangue fresco; ho visitato covi nascosti in bella vista; attraversato umili botteghe dove si trattavano affari da milioni di dollari; camminato in uffici prestigiosi popolati da grandi corrotti; scelto i melograni migliori al bazar di un villaggio crocevia della guerriglia; comprato del caldo pane nan da vecchi appollaiati dentro vetrine con la tv accesa; bevuto tè il cui fumo caldo ha sciolto la diffidenza delle persone che me l’avevano versato; viaggiato su pickup delle truppe afghane come un bersaglio mobile; infilato le mani nella stessa ciotola di riso e montone con giornalisti, intellettuali, talebani, tagliagole, trafficanti di pietre preziose e reperti archeologici, infiltrati dei servizi segreti, padri di famiglia, mercenari, guardie private, poliziotti, politici, atleti, medici, infermieri, feriti, rifugiati e aspiranti tali, vedove e orfani di guerra. In una parola con il popolo afghano, che mi ha sempre trattato come uno di loro; di questo privilegio non posso che essere grato al destino.

    I numeri numeri chiave della guerra dimenticata

    Nel 2018 sono stati uccisi 3.804 civili nel corso di combattimenti e attentati, 7.189 i feriti. Nel primo semestre del 2019 le forze governative e i bombardamenti americani hanno ucciso più civili che i talebani e l’ISIS.

    Ogni giorno in Afghanistan vengono uccisi almeno 25 tra soldati e poliziotti. La guerra al terrorismo in Iraq, Afghanistan e Pakistan ha fatto 507.000 morti tra il 2001 e il 2018. Nel 2018 caccia, bombardieri e droni americani hanno sganciato 7.362 ordigni, un record storico.

    Gli USA hanno speso oltre 100 miliardi di dollari per la ricostruzione in Afghanistan, più che con il Piano Marshall per aiutare l’Europa nel dopoguerra. Nel 2000 in Afghanistan sono stati coltivati circa 82.000 ettari a papavero da oppio, sedici anni dopo, nel 2017, si è passati a 328.000 ettari, nel Paese si raffina sempre più eroina e si producono metanfetamine a basso costo, mentre la tossicodipendenza sta diventando un’emergenza nazionale. Nel secondo trimestre del 2019 si sono contati 6.445 EIA (Enemy-Initiated Attacks ovvero scontri a fuoco, esplosioni di IED, fuoco indiretto e così via), in media circa 70 attacchi della guerriglia al giorno senza considerare le operazioni avviate dalle forze governative e dagli alleati americani.

    Dopo il ritiro delle truppe occidentali della colazione ISAF a guida NATO nel 2014, restano in Afghanistan 17.148 soldati stranieri per la missione Resolute Support più almeno 6.000 militari della missione americana antiterrorismo Freedom’s Sentinel. Per l’addestramento delle forze locali, operano circa 1.000 soldati italiani.

    Non esistono dati certi sulle milizie al servizio della CIA, spesso accusate di esecuzioni sommarie di civili innocenti durante i raid notturni.

    L’Afghanistan è il Paese più pericoloso al mondo dove lavorare come giornalista, nel 2018 sono stati uccisi 15 reporter. Il governo controlla solo il 55% del Paese, i restanti distretti sono sotto controllo talebano oppure contesi, con continui combattimenti e rovesciamenti di fronte.

    Nel Paese ci sono oltre 3 milioni e mezzo di IDP, sfollati, profughi interni in fuga dalla guerra: circa il 10% della popolazione. Gli afghani, dopo i siriani, sono secondi per numero di richieste d’asilo in Europa.

    Crisi dimenticate

    Nico Piro

    Corrispondenze Afghane

    Storie e persone in una guerra dimenticata

    Logo Poets & Sailors

    Poets & Sailors di Francesco Mizzau

    Via Renacci, 1, 52027 San Giovanni Valdarno (AR) - Italy

    www.poetsandsailors.com

    posta@poetsandsailors.com

    © 2021 Poets & Sailors

    Tutti i diritti riservati

    ISBN 9791280551016

    Direzione editoriale: Francesco Mizzau

    Grafica e impaginazione: Alessandra Casinelli

    In copertina: foto dell’autore

    Si ringraziano le centinaia tra singoli e associazioni che hanno aderito alle campagne di crowdfunding tenutesi dal 22 guigno 2018 al 9 agosto 2018 e poi dal 1 settembre al 12 novembre 2018 per sostenere il viaggio dell’autore e la pubblicazione di questo libro (https://www.ulule.com/afghanistan-missione-incompiuta-2/).

    Seconda edizione: agosto 2021

    Ai miei figli, Alexander Teseo e Caterina Victoria,
    affinché possano vedere quello che io non ho mai visto:
    l’Afghanistan in pace.
    E molto altro ancora, fino ai confini del mondo.
    Ai morti ammazzati di questi decenni,
    di cui nessuno ricorderà mai il nome.
    A Gianfranco Botta (1960-2017),
    compagno d’avventure,
    grande telecineoperatore e amico dell’Afghanistan.
    Nei tempi bui, resistere è non consentire menzogne
    Albert Camus
    La Guerra è Pace, 1984
    George Orwell
    "Il coraggio viene giustamente considerato la prima delle qualità
    umane perché si è detto sia la qualità che garantisce tutte le altre"
    Wiston Churcill

    Amate la gente e fateglielo capire

    Robert Capa

    Indice

    COPERTINA

    PROLOGO: L'OBLIO

    SILENZIO

    LA STRADA

    A TUTTO VOLUME

    CONDANNATI A MORTE

    IL VAIOLO

    LA FABBRICA DELLE GAMBE

    PAPAVERI DI CRISTALLO

    DONNE CONTRO

    ADDIO AL BURQA

    DEL TORTO E DELLA RAGIONE

    IL CALIFFATO DEL KORASAN

    IL VETERANO

    SENZA VITTIME

    MASS CASUALTY

    PRENDIAMO UN CAFFÈ

    DALL’ALTRA PARTE DEL MARE

    UN CALCIO ALLA PAURA

    IL COMPLOTTO

    DISACCORDO DI PACE

    NOSTOS

    DENTRO LA NOTIZIA

    NOTA DELL’AUTORE E RINGRAZIAMENTI

    Nico Piro

    Note

    Mappe

    PROLOGO: L’OBLIO

    Tutti i fatti descritti nelle pagine che seguono, sono purtroppo veri. In questo libro ogni riferimento a persone esistenti e a eventi realmente accaduti è assolutamente volontario.

    Sono eventi che attengono a quell’inferno che solo l’uomo riesce a creare in Terra e che va sotto il nome di guerra; un inferno capace di combinare insieme gli effetti di epidemie, catastrofi naturali, carestie e ogni altro genere di orrore che invece il nostro Pianeta riesce a generare, solo per Natura e senza cattiveria.

    Oltre ad essere creata dall’uomo, oltre ad essere carica di ferocia, la guerra ha anche altre caratteristiche che la rendono unica tra i disastri planetari.

    Alla guerra ci si abitua, la si trasforma in un fatto normale, si riesce persino a dimenticarla, a non farci caso come per i gesti ripetuti e quotidiani di una vita ordinaria: camminare, andare in bagno, pettinarsi, scendere le scale, respirare.

    E’ quello che è accaduto al popolo afghano negli ultimi quarant’anni - all’incirca dall’intervento sovietico del 1979. Intere generazioni sono cresciute senza conoscere il significato reale della parola pace, milioni di persone sono fuggite all’estero, centinaia di migliaia di famiglie si sono spostate da una parte all’altra del Paese inseguite da mine, esplosioni, attacchi, dal fuoco incrociato.

    Quando da bambini giochiamo con i soldatini di plastica, il tappeto di casa - trasformato in campo di battaglia - segna per sempre la nostra idea di guerra. Anche da adulti continuiamo a pensare che un conflitto sia fatto da due eserciti, dove i buoni possono ammazzare i cattivi e riuscire a tornare a casa in a single piece (tutti interi) accolti dagli applausi e celebrati dalla Storia.

    Questa è forse la più grande bugia che ci siamo mai raccontati: le guerre si svolgono in luoghi dove vivono persone comuni. Si combatte tra le case, nei villaggi, nei campi dove i contadini vanno a seminare e a raccogliere perché ci sono famiglie da sfamare. A morire, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono i buoni né i cattivi, ma persone che non c’entrano nulla. Un tempo le chiamavamo innocenti, perché appunto non avevano alcuna colpa se non quella di non aver avuto i soldi o il tempo per fuggire; innocenti parola a cui abbiamo perso l’abitudine, sostituita dal più tecnico vittime civili, termine perfetto per le burocratiche statistiche dove i morti - le loro storie, i loro sogni, i loro nomi - vengono sterilizzati fino a diventare solo numeri.

    I soldati vanno a combattere con un obiettivo nobile, quello che la politica usa per vendere la guerra ai propri elettori: la difesa della libertà, della sicurezza, della patria a seconda delle evenienze.

    Ma di fronte all’orrore della guerra anche i soldati capiscono che di nobile un conflitto ha molto poco e nel tentativo di sopravvivere se ne fanno una ragione. Ho ascoltato dozzine di soldati, con indosso divise diverse, in luoghi tra loro lontani e in climi drasticamente differenti, ripetere sempre l’unica cosa che sentano li unisca: Combatto per il compagno che mi sta affianco, lui è mio fratello.

    Non ci sono più né bandiere né grandi cause da difendere, c’è solo l’impegno d’onore a tornare tutti quanti insieme - vivi - a casa. Ma anche quando si torna a casa la guerra non ti lascia mai, resta dentro di te e spesso porta a drammi che durano fino all’ultimo respiro.

    Alle ferite permanenti dei mutilati e dei disabili, salvati dai progressi della medicina tattica e dall’intervento dei combat medic sul campo di battaglia ma costretti per sempre senza gambe, quando non gambe e braccia1, o su una sedia a rotelle, si sommano quelle di chi è tornato a casa in a single piece, tutt’intero a livello fisico ma con la mente devastata.

    A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, l’altra grande bugia della guerra è venuta meno. Ormai è impossibile vedere un conflitto finire in maniera chiara, con dei vincitori e dei vinti, a volte è impossibile anche solo, semplicemente, vederlo finito. L’Afghanistan, anche in questo, è un modello per gli studiosi e gli storici: una guerra che negli anni ha cambiato titolari, ha visto nemici diventare alleati, ha visto le parti in conflitto modificarsi, i motivi della guerra cambiare, gli amici stranieri ritrovarsi da una parte dove un tempo non avrebbero pensato di finire. Eppure continua, senza sosta e tutto sommato senza che nessuno si ponga il problema della sua assoluta inutilità: un gioco a somma zero.

    Dopo l’11 settembre, il tappeto dei nostri giochi di bambini, in cameretta, si è allontanato ancora di più dal mondo reale: i soldatini di plastica che abbattevamo con un bang, un pcium, un ratatatà e un colpo secco delle nostre dita, avevano indosso delle divise. E i più bravi tra di noi, riuscivano persino a dipingerle con il pennello per togliere, ai quei giocattoli, il monotono color verde o grigio petrolio della plastica stampata degli anni Settanta.

    Nei conflitti contemporanei, ormai solo una delle due parti in guerra porta un’uniforme, i soldati in divisa di fronte si ritrovano dei combattenti vestiti come civili e che spesso in mezzo ai civili si nascondono. Non sono militari, non hanno gradi né gerarchie, tranne quella imposta dal comandante che a volte è un fanatico religioso, a volte un trafficante che deve difendere i propri interessi, altre un capo locale che deve vendicare la morte di un parente ucciso perché uno straniero l’aveva confuso con un terrorista.

    In questo genere di conflitti, i portavoce militari devono faticare non poco per trovare un termine neutro che definisca il nemico senza dargli l’aura mitica che i termini guerriglia e guerriglieri si portano dietro.

    Gli insurgents o le forze anti coalizione di notte escono di casa e poco distante si nascondono per spararti, pronti all’imboscata.

    A lavoro finito interrano il Kalashnikov in una buca, per recuperarlo quando servirà di nuovo. Del resto l’Ak-47 riesce a sopravvivere sotto un metro di terra e polvere anche quando non è avvolto nemmeno in un banale straccio imbevuto d’olio.

    Quella al nemico senza divisa, è una caccia quasi sempre impossibile: come anche molti militari ammettono. Almeno quelli che provano ad ammazzarli e rischiano di finire ammazzati, non gli alti gradi che invece sono impegnati in articolate dichiarazioni pubbliche e altrettanto difficili relazioni istituzionali. Se i nemici li prendi, li trovi disarmati e giureranno di essere solo delle vittime della sorte, la persona sbagliata, frutto dell’errore di chi li ha arrestati. Di fatali errori del genere, del resto ne sono stati commessi non pochi, in luoghi come l’Iraq e l’Afghanistan.

    Se con il muro di Berlino è caduta l’idea di guerra tradizionale, quella a cui ci eravamo preparati per mezzo secolo (pronti a difendere il territorio o a invadere quello dell’altro blocco), assieme alle Torri Gemelle è crollata la speranza di un mondo tutto sommato in pace e sono cominciate le guerre di counter-insurgency. All’inizio non lo sapevamo, ci illudevamo che entrando in Iraq e conquistando il territorio saremmo stati capaci di controllarlo. Eravamo strategicamente convinti che dopo il take, sarebbe arrivato l’ hold and build ovvero dopo la conquista del territorio, sarebbe arrivata l’ora di una pacifica amministrazione e di una plaudita ricostruzione. Invece sono cominciati conflitti che nessuno riusciva a vincere contro bande di cui a tutt’oggi fatichiamo a capire le motivazioni, la storia, persino la lingua visto che spesso si tratta di dialetti di valli remote che nemmeno i locali della piana confinante riescono a capire.

    L’Afghanistan è la guerra regina del dopo 11 settembre, un conflitto che dura quasi da diciotto anni, la lunga guerra, più lunga persino del secondo conflitto mondiale, di sicuro la più lunga che l’Occidente abbia mai combattuto e di cui non si vede in alcun modo la fine.

    L’Afghanistan è anche la guerra regina del nuovo approccio del potere e dell’informazione alle guerre: si combattono, ma spesso senza ammetterlo, usando coperture diverse dal peace keeping al nation building; quando le cose vanno male si dimenticano spesso in nome dell’interesse nazionale, altrettanto spesso dimenticando il sangue versato dai nostri connazionali.

    Di recente, a Mosca, ho parlato con dei veterani del conflitto afghano che mi hanno detto: Noi non siamo stati sconfitti, noi ce ne siamo andati con le nostre bandiere in pugno e al vento. Come dargli torto?

    Eppure noi comunemente, quella del 1989, la definiamo come la sconfitta dell’Unione Sovietica, l’unica dopo la Seconda guerra mondiale (esattamente come chiamiamo invasione l’intervento delle truppe di Mosca per sostenere il governo amico che a Kabul stava collassando).

    Alla fine del 2014, a missione ampiamente incompiuta, le truppe dell’ISAF (la coalizione a guida NATO) si sono ritirate dall’Afghanistan, nell’impossibilità di vincere un conflitto che per costi (umani, politici ed economici) i governi occidentali non potevano più permettersi, anticipati da un bel pezzo dall’opinione pubblica. Eravamo ormai arrivati ad un punto in cui era difficile tenere buona la gente, insofferente verso quel conflitto, nonostante la politica (tutta) abbia abbandonato il valore della pace e abbia fatto della guerra un concetto normale.

    Anche quella non è stata una sconfitta, ma un ritiro strategico condito da un’altra parola.

    Siamo nell’era di quelle guerre che gli esperti chiamano asimmetriche (una parte dei soldatini di plastica non ha la divisa e usa armi non convenzionali), guerre dove il concetto di vittoria e di sconfitta è diventato assolutamente relativo.

    Il termine transizione (il passaggio della titolarità della guerra dalle truppe occidentali alle forze di sicurezza locali) è stata una trovata politica per non ricorrere al termine sconfitta a chiusura della spedizione in Afghanistan. La missione si è formalmente conclusa con il passaggio del testimone a forze locali ufficialmente definite ormai mature. Un’alchimia diplomatica a chiosa (non chiusura) di un conflitto sin dall’inizio sottovalutato, inquadrato strategicamente male, gestito tatticamente peggio. Al posto di ISAF, dietro ci siamo lasciati la missione Resolute Support che con circa 18 mila effettivi (per lo più americani assieme a circa 1000 italiani) punta ad addestrare le truppe afghane, rendendole sempre più operative.

    In realtà soldati occidentali - quelli statunitensi - continuano a combattere al fianco di truppe afghane ancora impreparate, mentre sul Paese cadono più bombe che mai (il supporto aereo è ancora praticamente tutto americano, nonostante i primi passi dell’aviazione locale).

    Una gigantesca campagna aerea come mai si era registrato in Afghanistan, nemmeno negli anni in cui le bombe servivano a proteggere i soldati occidentali sul campo di battaglia: 7.362 gli ordigni sganciati da caccia, bombardieri e droni2.

    Dopo il ritiro di fine 2014, dell’Afghanistan ce ne siamo dimenticati, non se n’è parlato più, come se noi occidentali non ci fossimo mai stati, come se noi intanto - essendoci stati e a lungo - non fossimo diventati parte del problema. E’ stato un altro modo per non fare i conti con la sconfitta, se non con quella militare mai avvenuta, con il fallimento di un’intera strategia per lo più politica e diplomatica.

    Gli uffici di corrispondenza a Kabul di tv e agenzie internazionali hanno chiuso o sono passati nelle mani di personale locale, giornalisti afghani che si sono caricati sulle spalle il rischio crescente di essere minacciati, picchiati, feriti, uccisi pur di raccontare quello che avveniva nel Paese, seguendo il principio occidentale secondo cui una libera stampa è la colonna dorsale della democrazia.

    Parallelamente nell’informazione di casa nostra - in particolare quella della nostra piccola Italia - le notizie afghane sono andate scomparendo. Del resto, ritirate le truppe occidentali, il rischio che ci fossero morti nostri si è praticamente azzerato. E allora perché parlare di vittime lontane? Quelle che vanno a tanto al kilo? Quelle che cominciato a valere qualcosa da un certo numero in su, da un livello minimo solitamente non inferiore alle trenta?

    Il silenzio è stato funzionale a non fare i conti con gli errori che gli Stati Uniti e l’Occidente in genere (all’Italia manca una politica estera autonoma da anni quindi va sotto la generica dicitura di Occidente) hanno commesso in questo Paese e ripetuto altrove, a non ragionare su quali siano gli effetti delle guerre al terrore dopo che sono formalmente (in realtà solo apparentemente) finite.

    Non bisogna essere degli analisti dei media per notare come le guerre al terrore si raccontino (e tanto) quando iniziano, mentre si spendono solo spiccioli di parole sui loro effetti - su quello che accade dopo la dichiarazione di missione compiuta. E così i giornali cominciano a tacere, distratti da altre emergenze, facendo torto alle vittime come ai soldati, di quelle guerre al terrore. Mosul è stata liberata nell’estate del 2017, notizia che venne celebrata come passaggio chiave - militarmente lo era - della guerra all’estremismo islamico fattosi Stato. Poco o nulla si è detto sul fatto che il numero delle vittime civili - lo si è scoperto mesi dopo - è stato di almeno novemila persone3. Poco o nulla si è detto sul fatto che, due anni dopo, Mosul è ancora in buona parte in macerie. La guerra all’ISIS4 è stata vinta, quello che si è lasciata dietro non fa notizia.

    Esattamente come, perso nello stillicidio di attacchi quotidiani, il numero delle vittime della guerra al terrore non solo non faccia notizia ma sembri quasi un dettaglio accademico, da studiosi. Lo calcola la Brown University nel suo progetto Costs of War che alla fine del 2018 individua fino a 507 mila morti nelle tre principali zone di combattimento: Iraq, Afghanistan, Pakistan5; cifra che non include le vittime indirette, non uccise dai combattimenti ma dai loro effetti (per esempio per la distruzione di fogne, acquedotti, ecc. ecc.).

    Quando il 22 marzo del 2016, un commando di terroristi lancia un assalto coordinato a diversi luoghi della capitale belga con l’obiettivo di fare vittime civili e diffondere la paura, la notizia fa in breve il giro del mondo. In quell’occasione, è stato bello vedere come i media siano riusciti, in breve, a ricostruire nomi, volti, storie, speranze, sogni delle vittime che da numeri sono tornate ad essere persone.

    Mentre la caccia ai terroristi è in corso, tre giorni dopo, il 25 marzo, in un’altra parte del mondo, un attentatore suicida si fa esplodere. Colpisce un campo di calcio, dov’era in corso una partita tra squadre di ragazzi, nella provincia di Babil a Sud di Baghdad. All’inizio le vittime sono numericamente equivalenti rispetto a quelle di Bruxelles ma con il passare delle ore, purtroppo, il bilancio dei morti aumenta: tra loro ventinove sono ragazzi sotto i diciassette anni.

    Ciò nonostante i media occidentali danno all’attentato di Al Asriya - Iskandariya non la stessa attenzione di quello di Bruxelles ma, semplicemente, nessuna attenzione. La tragedia finisce dimenticata, seppellita dal pur sentito e apprezzabile Je suis… e similari che alluvionano i social.

    Nel settembre del 2017, un’esplosione ha devastato il centro di Mogadiscio, il numero dei morti e dei feriti non è stato mai chiarito, man mano che si scavava nelle macerie i bilanci oscillavano tra le trecento e le seicento vittime. Statistiche alla mano, anche nella migliore delle ipotesi - quella con il numero minore di morti - si tratta di uno dei dieci peggiori attentati terroristici della storia dopo l’11 settembre; nella peggiore delle ipotesi (quella delle 600 vittime, che pur mai potremo confermare visti i numeri incerti e ballerini) potrebbe essere persino il terzo di quella macabra classifica. Eppure la notizia ha fatto solo una timida apparizione su alcuni notiziari e giornali italiani. Quando chiacchierando l’ho fatto presente ad un collega - di quelli che provano a travestire l’indifferenza e il cinismo da esperienza e competenza - mi sono sentito dire: Beh ma quello è uno Stato fallito, che vuoi che altro accada?. Come se noi italiani non avessimo contribuito al fallimento di quel Paese già dall’epoca coloniale, come se Restore Hope - con il suo carico di drammi anche per il giornalismo italiano - fosse stato solo un incidente di percorso, come se le vittime contassero diversamente a seconda della loro localizzazione geografica - vittime con il gps; ma soprattutto come se raccontare quello che accade nel mondo e informare non fosse un dovere di noi giornalisti ma solo una sorta di eventuale giudizio di merito: Sei uno Stato fallito? Le tue notizie non contano. Questo libro è nato ed è stato scritto partendo da un punto di vista diametralmente opposto.

    Raccontare le guerre, senza pregiudizi verso chi le combatte e chi le subisce, provarne a capire i meccanismi è non solo un dovere dell’informazione, ma è anche un bisogno del pubblico, una di quelle necessità informative lasciate a lungo insoddisfatte. Non ho dati statistici per dimostrarlo ma nelle dozzine di incontri che cerco di fare ogni anno in Italia, sento sempre salire un bisogno di informazione negato. Questo libro è nato ed è stato scritto per colmare un vuoto, quello in cui abbiamo lasciato dalla fine del 2014 il popolo afghano, a cui abbiamo negato il diritto a far sentire la propria voce e a raccontare la propria vita quotidiana tra bombe e - incredibilmente - speranze. Anche temporalmente, questo è un seguito al mio Afghanistan: Missione Incompiuta, che raccontava della missione occidentale nel Paese ma anche della complessa storia locale e delle ben più semplici mire politico-coloniali che, da sempre, si addensano su Kabul.

    Riparto da lì per raccontare, dopo gli anni dell’ intervento, quelli dell’abbandono e dell’oblio.

    SILENZIO

    Sono quasi le tre di notte in Italia, ma quando il comandate nel suo sgangherato inglese annuncia che è cominciata la discesa verso Kabul non posso che togliermi la mascherina con la quale avevo provato a restare nel fuso orario da cui ero partito, raccattando qualche ora di sonno. La luce del sole che arriva dai finestrini, mi sveglia come se mi fossi davvero addormentato.

    La capitale afghana è a duemila metri di quota, incoronata dalle vette dell’Hindo Kush che superano i tre chilometri d’altezza. Gli aerei di linea ci arrivano quasi planando, con più dolcezza rispetto alle traiettorie tagliate con il rasoio dei velivoli militari, quel volo tattico che ti porta lo stomaco in gola e complica la vita a chi vorrebbe trasformarti in un bersaglio per missili ed RPG (Rocket Propelled Grenade, sistema di arma anticarro sparato a spalla).

    L’Airbus 320 sfiora le vette delle montagne che si avvicinano sempre più man mano che diminuisce la quota di volo. Il cielo ha il colore dei lapislazzuli, un azzurro chiaro che è luminoso, trasparente ma a guardarlo negli occhi diventa profondo come il blu del mare.

    Le montagne sono come giganti, l’uno abbracciato all’altro, fino a comporre una distesa senza fine. Riferita a questi rilievi la parola catena perde di senso, perché ti fa immaginare una fila di monti, non il mare di vette sul quale galleggiamo.

    Volare sull’Afghanistan è un’esperienza che ti riempie gli occhi. All’alba poi è uno spettacolo che ogni persona merita di vedere almeno una volta nella vita, come meriterebbe di visitare questo Paese. Qui un giorno - con la pace - vorrei portare i miei genitori, i miei figli, mia moglie e tutte le persone che si sono preoccupate per me, così per far capire loro perché valeva la pena venire fin qua giù. O forse, solo, per scusarmi.

    L’Afghanistan è un Paese complesso, che ha molte facce e dove non sai mai quale sia la verità.

    La luce dell’alba è radente, come lo sguardo laterale che devi avere quando provi a capire questa terra. Quando il sole è appena nato, la sua luce arriva di lato sul fianco delle montagne e ne riesce a descrive i dettagli che nel resto della giornata vengono cancellati. Ti fa vedere la pelle, la corazza di questi giganti di pietra. E’ a quel punto che riesci a realizzare quanto aspri siano questi rilievi: rocce ripide, aguzze, taglienti. Il marrone cacao che le ricopre è un colore troppo morbido per farti capire quanto feroce sia il loro profilo; il sole dell’alba, invece, ci riesce e ti spiega senza troppe chiacchiere perché in questo Paese nessuno ha mai vinto.

    Gli afghani riescono a salire lì in alto con l’agilità di una capra, un paio di ciabatte di plastica ai piedi e una coperta indosso nonostante il freddo ti entri nelle ossa. Sempre pronti a conquistare elevazione di quota, sparare dall’altro verso il basso; fattore chiave per vincere.

    Più ci avviciniamo a Kabul, più le montagne si ingrandiscono: nuvole di nebbia sono intrappolate tra valloni e creste, in attesa che il sole le sciolga, liberando passi e sentieri almeno fino al tramonto.

    Più ci avviciniamo, più la luce disegna dettagli, sempre più piccoli, sempre più chiari. Sono forme che il sole di mezzogiorno azzera, abbagliandoti nel freddo terso d’autunno, mentre nell’aria incandescente dell’estate fonde cielo e terra dello stesso colore.

    Dalla polvere color cacao, d’un tratto emergono forme geometriche che all’inizio la mente - pur familiare con quei luoghi - non riesce a riconoscere. Sono quadrati che sembrano geometriche pustole o anomale fistole, ripetute sulla pelle di questi draghi di roccia.

    Sono le case di fango con i giardini cinti, murati, che da millenni segnano il panorama afghano. Quelle che scorrono sotto i miei occhi, sono ancora più affascinanti perché misurano la forza e il coraggio di chi è riuscito a costruirle persino su certi crinali estremi.

    Nel giro di pochi minuti, lasciano posto ad altre case, queste sì molto simili a delle escrescenze. Le montagne cominciano ad aprirsi per dare spazio all’altopiano di Kabul: negli ultimi anni una delle città cresciute di più al mondo. Sin dal ritorno dei primi rifugiati dal Pakistan, dopo il 2003, la capitale è stata assediata da case costruite alla buona, senza luce, fogne e acqua corrente.

    Un monumento alla miseria il cui spazio viene oggi insidiato da edifici che vogliono assomigliare a Dubai, tirati su dai palazzinari locali senza sosta, senza piani urbanisti, senza criteri, senza considerare la sismicità di questa zona e probabilmente senza preoccuparsi nemmeno di nascondere troppo la provenienza dei soldi che stavano usando per costruire brutti scatoloni alti dodici piani.

    Il viaggio ipnotico dei miei occhi si interrompe all’improvviso. Un altro senso prende il controllo: l’udito.

    Come svegliato di soprassalto, realizzo quello che sta accadendo intorno a me, nell’aereo: il silenzio è dappertutto, talmente fitto che si sente solo il rumore dell’aria condizionata. E’ talmente distinguibile, il getto che stride nelle bocchette, da dare fastidio alle orecchie. I passeggeri sono immobili, i loro volti tirati, i lineamenti di pietra.

    Nel 2015, il primo anno senza missione ISAF, quindi senza forze internazionali sul campo a combattere, le vittime civili hanno toccato un record assoluto pari a 11.002 tra feriti e morti (3.545) uccisi per lo più da combattimenti, il segno dell’offensiva delle forze antigovernative per togliere terreno al governo.

    Nel 2016, la missione delle Nazioni Unite ha registrato un altro record: 11.418 vittime civili, di cui 3.498 morti. Una crescita che rallenta nel 2017 con 10.453 vittime civili anche se il numero dei morti resta sostanzialmente lo stesso (3.438) e si registrano attacchi pensati solo ed esclusivamente per massacrare civili come quello del camion cisterna il 31 maggio a Kabul (92 morti e 491 feriti).

    Nella prima metà del 2018, si contano 1.692 morti. Considerando il riferimento semestrale è un altro record assoluto6 che purtroppo viene confermato dai dati globali.

    Nell’anno che si concluderà di lì a pochi mesi da quel viaggio in aereo, vengono uccise complessivamente 3.804 persone, mai così tante. Un macabro record che nasconde un altro triste primato: il più alto numero di bimbi mai uccisi nel Paese, 927.

    Le 10.993 vittime civili del 2018 (sommando ai morti anche i 7.189 feriti) confluiscono nel tragico bilancio del decennio, che dal 2009, da quando cioè si calcolano con precisione queste statistiche, vede oltre 32 mila morti e circa 60 mila feriti.

    Dopo il triste primato del 2018, i dati sui primi tre mesi del 2019 registrano un calo complessivo delle vittime7(non si sa quanto influenzate dalle dure condizioni meteo di quella parte dell’anno) ma a guardare bene i numeri emergono altri elementi allarmanti: in quei primi mesi dell’anno, per la prima volta, le forze filogovernative (forze di sicurezza locali e alleati internazionali) hanno ucciso più civili che quelle antigovernative, un aumento del 39% rispetto allo stesso periodo del 2018.

    Le statistiche conteggiano il più alto numero di vittime mai registrato nelle categorie attacchi aerei e raid (operazioni di perquisizione, solitamente notturne).

    Una mattanza che non si ferma in primavera con 596 civili uccisi e 1.892 feriti dal 21 marzo - il capodanno persiano - e nei tre mesi successivi, stando ai dati della Commissione indipendente afghana per i diritti umani (Afghanistan Independent Human Rights Commission)8.

    I dati del primo semestre del 2019 confermano la riduzione di vittime innocenti rispetto al 2018, soprattutto per la diminuzione degli attacchi suicidi, ma la loro crescita rispetto ai primi tre mesi dell’anno (al migliorare delle condizioni meteo, presumibilmente). Il 53% dei morti ammazzati senza ragione va attribuito alle forze filogovernative (bombardamenti americani e operazioni delle truppe governative). Se oltre ai morti innocenti si considerano i feriti, la guerriglia torna in testa (con il 54%) in questa tragica classifica9.

    La riprova statistica di un’evidenza sotto gli occhi di tutti: la missione ISAF durata tredici anni e quella parallela Enduring Freedom10(la prima a guida NATO, la seconda in pratica esclusivamente statunitense) non sono riuscite a garantire né a migliorare la sicurezza nel Paese.

    Nel momento in cui le truppe straniere sono andate via ed è diminuita la presenza di unità filogovernative sul campo (diminuzione numerica ma anche di spessore militare e di armamenti), i talebani hanno cominciato a riprendersi terreno mentre le forze di sicurezza hanno preso a perdere unità a ritmi che persino il generale, comandante in capo del Centcom, il comando centrale delle forze armate americane, definisce non sostenibili11. Il dato è talmente drammatico che viene tenuto segreto. Alcuni elementi di massima li fornisce il presidente Ghani, quando ricorda che dal 2015 le truppe statunitensi hanno perso 58 unità, nello stesso periodo polizia ed esercito locali hanno registrato 28.529 caduti. Parliamo di 25 al giorno, 175 a settimana12.

    Una situazione che è diventata ancora più tragica e complessa quando sulla scena afghana ha fatto la sua comparsa l’ISIS, aprendo un fronte duplice con le forze di sicurezza e i talebani.

    Ricordo altri voli verso Kabul decisamente diversi, molto più rumorosi: i cellulari - mai spenti al decollo - che cominciavano a squillare appena si scendeva verso terra e afferravano una scia di segnale; laptop che mandavano a manetta video musicali purché di prosperose e scosciate cantanti americane; le fragorose risate dei ragazzi che li guardavano stretti l’uno addosso all’altro, nella fila centrale.

    Ora c’è solo silenzio, e il rumore bianco dell’aria condizionata. Tutto questo è il ritratto dell’incertezza, il sigillo della paura, la conferma che tornare a casa per tutti noi significa interrogarci su quanto tempo ci resti da vivere. Mentre scendiamo sull’aeroporto, dal suo versante militare, ci saluta la guerra con un tappeto di elicotteri Mil-Mi e Black Hawk pronti al decollo.

    LA STRADA

    Siamo nel mezzo di un fiume immobile, bloccati da tanto di quel tempo che non riusciamo più nemmeno ad innervosirci. Il buio, intanto, è arrivato portando con sé un freddo che entra nelle ossa e impasta la stanchezza. L’autista ci chiede: Volete scendere qui? Ne abbiamo per tanto in questo ingorgo….

    Siamo in tre, carichi di attrezzatura tecnica, l’albergo è dall’altra parte della città, e salire su questo taxi è stata una battaglia. Restiamo seduti e - quasi a darci ragione - il cielo s’illumina tra rombi fragorosi.

    Amir dimostra quasi settant’anni e, nonostante ciò, sta ancora dietro al volante di un’auto pur di arrivare a fine mese. Il cappello di

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