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Basta con l'amore
Basta con l'amore
Basta con l'amore
E-book244 pagine3 ore

Basta con l'amore

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Info su questo ebook

Nel 1944, dalle pagine del Secolo XIX, Flavia Steno commentava causticamente, a proposito dei libri di testo scolastici approvati dal regime fascista, che "in blocco non è eccessivo giudicarli un obbrobrio". Condannata, per questa medesima ragione, a quindici anni di carcere, l'autrice si sarebbe allora rifugiata nel cascinale di Moncalvo, unendosi alla Resistenza e celandosi dietro la falsa identità di "Rina Fantoni". Nello stesso periodo "Basta con l'amore" viene dato alle stampe a Milano: è quindi un'opera tarda, tipica degli ultimi anni della grande cronista e scrittrice. Leggere questo romanzo – così bello e toccante – è come entrare in sintonia con chi l'ha concepito, addentrandosi in una mente che, nonostante le insidie della Storia, ha continuato inesorabilmente a scrivere, scrivere, scrivere... -
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2022
ISBN9788728411162
Basta con l'amore

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    Anteprima del libro

    Basta con l'amore - Flavia Steno

    Basta con l'amore

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1944, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411162

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    I

    — È a un passo, da casa vostra, signorina: Via Aterno. Sapete dov’è?

    — Immagino sarà nel quartiere dei fiumi. Sono già stata dai Nicastro, in Via Reno.

    — Brava; proprio lì vicino.

    — Che sia a un passo da Via Crispi, non direi, ma non ha importanza. Piuttosto, che gente?

    — Donna Felicia Giovagnoli è un’intellettuale e il ricevimento di stasera è in onore di uno scrittore ungherese che è venuto a conoscere Roma. È anzi ospite dell’Ambasciata ungherese, mi ha precisato la signora. Questo, per dirvi la sua importanza.

    — Sapete il nome?

    — L’ho chiesto, naturalmente. Si chiama Stefano Gömöry.

    — Conosco. Romanziere. È importante davvero. Suppongo sia per lui che la signora è ricorsa a voi.

    — Infatti; vuole qualcuno che parli l’ungherese a perfezione.

    — Sta bene. Ci saranno molte signore?

    — Le mogli degli invitati; un Accademico; due diplomatici; forse, qualche scrittore.

    — Ambiente di lusso, naturalmente.

    — S’intende. Ma voi sarete perfettamente a posto.

    — Sta bene. Alle otto precise sarò in Via Aterno.

    — E domattina da me per il regolamento. Ci tengo a sentire come sarà andata.

    — E domattina, verso le undici, da voi.

    — Verso le undici? non potreste prima?

    La voce di Margherita Lauri — per gli intimi, Margit — assunse il tono freddo e reciso col quale ella soleva sempre troncare un discorso increscioso.

    — Penso — disse che farò tardi stasera e perciò non potrò alzarmi presto.

    — Allora sta bene alle undici. Grazie.

    Tolta la comunicazione, Margherita Lauri passò subito nella sua camera da letto. Bisognava, prima di tutto, passare in rassegna la guardaroba.

    Metteva sempre molta cura nel comporre la sua toeletta in quelle occasioni perchè sapeva benissimo che gran parte del prestigio col quale ella disimpegnava il suo eccezionalissimo mestiere era in diretta rispondenza della impressione di eleganza che produceva comparendo in un salotto. Il suo nome non diceva nulla, ma la sua persona naturalmente elegante e il suo portamento altero, valorizzati da un abbigliamento composto con gusto ricercato e sicuro, s’imponevano sempre all’attenzione dei convenuti.

    Gran cosa il vestito. Il proverbio « l’abito non fa il monaco » doveva essere stato inventato da un idiota. È proprio vero il contrario, invece: l’abito non fa il monaco, ma fa il gentiluomo, fa la bella donna.

    Margherita ne era tanto convinta che, pur sapendosi bella, non indugiava mai a guardarsi nello specchio quando « non era vestita », nel significato che ella dava a questa parola di toeletta compiuta. Vi passava invece delle ore quando si trattava di studiare un insieme nuovo fino a raggiungere quell’armonico accordo col suo tipo e la sua espressione, capace di dare l’impressione che intendeva produrre:

    Ella definiva i molti abiti che stipavano la sua guardaroba: « gli arnesi del mestiere » e infatti era veramente così. Ma non si fosse trattato del mestiere, sarebbe stato ugualmente così. Il vestire era stata sempre la sua maggior preoccupazione, il suo bisogno più sentito. Sarebbe stata capace di digiunare interi giorni; non di indossare un vestito dimesso o logorato dall’uso. Le sarebbe parso di sentirsi peggio che menomata, quasi non pulita e sospetta alla gente.

    Non era per stolta vanità che ella provava quel bisogno di eleganza; esso faceva parte della sua natura, era tutta una cosa con la sete di bellezza che aveva ereditato da quell’artista che era stato suo padre e che ora dominava la sua vita.

    Avventurosa vita per quanto ancora all’aurora chè, da quando suo padre l’aveva lasciata, ella aveva dovuto pensare non soltanto a sè ma anche alla madre, una creatura di lusso per la quale lo scoprirsi quasi povera, alla morte improvvisa del marito, dopo di essere vissuta sempre fastosamente, era stato un colpo che per poco non l’aveva stroncata. Buon per lei che c’era stata Margherita. La fanciulla aveva dimostrato subito una forza insupposta in lei perchè mai aveva avuto occasione di rivelarsi.

    — Bisogna lavorare — ella si era detta appena aveva conosciuto che suo padre, il grande scultore Lauri, che aveva guadagnato denari a cappellate, non lasciava nulla; che tutto il lusso nel quale era stata allevata era una facciata dietro la quale non c’erano che rovine; che il palazzo di Budapest era ipotecato e così la casa di Hadad, la bella casa costruita da Lauri con un doppio ordine di logge coperte che portava nella pustza una sensazione d’Italia.

    Come un maschio si era rivelata, Margherita, nella liquidazione di quella situazione disastrosa. Pagati i creditori, venduto gran parte del mobilio di lusso, le automobili, i sei cavalli; liquidato anche lo studio di suo padre con i bozzetti e due busti quasi compiuti, era rimasto alla vedova e ai due figli di Lauri un capitale appena sufficiente per vivere quasi poveramente.

    — Meglio morire! — aveva esclamato Stefania Lauri, la vedova.

    Ma sua figlia le aveva detto quasi rudemente:

    — Non dir sciocchezze.

    Però, quando si era trattato di discutere seriamente la necessità di mettersi a lavorare, Stefania Lauri aveva avuto quasi un deliquio. Lavorare lei! una della famiglia Heggesy che aveva avuto sempre più persone al servizio che componenti! Mai!

    Tranquilla, Margherita aveva continuato a esporre il suo piano: lavorare, ma non a Budapest. A lei pure era intollerabile il pensiero di portare il peso della decadenza nell’ambiente che l’aveva sempre conosciuta in posizione privilegiata. A Budapest, no.

    — Vuoi andare in provincia? — aveva chiesto la madre sgomenta all’idea di lasciare la capitale.

    — Voglio tornare in Italia.

    — E a far che?

    — Te l’ho detto. A lavorare. Quattrini non ce ne sono più ma io ho un capitale di cultura. Sono grata a papà di avermi fatto studiare. E a te di avermi dato istitutrici di tutti i paesi. Conosco bene quattro lingue oltre la mia: ho un’educazione artistica non comune; è un patrimonio anche questo. Cinque lingue, la storia dell’arte e ventidue anni; sarebbe sciocco disperare della vita. Vado in Italia. E tu vieni con Geza e con me.

    Geza era il fratellino appena decenne.

    — Io non vengo.

    Non era andata. Si era stabilita a Gyõrs, un piccolo centro non troppo lontano da Budapest dove la sua piccola rendita avrebbe potuto, a rigori, bastare per lei e il figlio ove ella avesse saputo fare a meno del superfluo e regolare il necessario. Non avrebbe mai saputo farlo.

    Margherita era partita sicura che la madre avrebbe dato fondo al piccolo capitale rimastole ove ella non avesse avuto cura di assicurarlo in modo che soltanto il reddito le fosse consegnato ogni mese.

    Questa sua previdenza era parsa a sua madre una dimostrazione di sfiducia e di crudeltà inaudite cosicchè madre e figlia si erano separate quasi freddamente.

    Non era stato facile trovare.

    Il nome del padre aveva aperto alla bella figliola tutto il mondo artistico di Roma, ma nessuno le aveva offerto del lavoro. E quale lavoro avrebbero osato offrire a quella bellissima creatura che vestiva con eleganza raffinata e portava alta la testa come una regina? Qualcuno l’aveva consigliata di rivolgersi al mondo ufficiale, ma sarebbe stato come un mendicare, e la figlia di Lauri aveva troppo orgoglio per farlo. Poi, ella sapeva bene che non avrebbe incontrato eccessive simpatie, presso le sfere ufficiali: il nome di suo padre che se ne era andato dall’Italia a trent’anni e non vi aveva esposto quasi più; che aveva sposato un’ungherese e cresciuto i figli in un ambiente internazionale dove il culto dell’arte e del bello tenevano luogo di religione, di patria, di morale, non poteva rappresentare un diritto a protezione.

    Due mesi di vita romana le erano bastati per rendersi conto che avrebbe dovuto contare esclusivamente sulle sue sole forze; ma appena avuta questa convinzione, ella aveva troncato netto con l’ambiente artistico romano sul quale aveva contato e sperato di poter vivere, tanto che, appena giunta, aveva preso alloggio in una vasta soffitta di Via Margutta, decisa a suddividerla in camera da letto, studio, gabinetto di toeletta, cucina, a farne, insomma, un appartamento completo.

    — Finita la prima esperienza — aveva detto a se stessa la mattina in cui aveva portato via da via Margutta i pochi mobili che si era tenuti fra i bellissimi della sua casa di Budapest, per portarli in via Crispi, dove aveva trovato un alloggetto chiaro e raccolto in cima di un caseggiato che non guardava la strada, ma dava, invece, sul rovescio di questa, su un vastissimo giardino chiuso e cintato che doveva appartenere a qualche comunità religiosa, perchè di quando in quando vi passeggiavano dei preti giovani che scomparivano poi a un tratto al suonare di una campana.

    Appena installata nel nuovo alloggio, la fanciulla si era decisa a cercar lavoro attraverso un annunzio nei giornali romani. Il testo dell’annunzio nel quale si parlava di conoscenza perfetta di cinque lingue, di educazione fine, di cultura artistica, le aveva procurato un certo numero di offerte alcune delle quali ambigue, altre addirittura sfacciate, ma anche due proposte per entrare come istitutrice in due famiglie signorili i cui nomi le erano ben conosciuti. Aveva declinato subito queste due offerte: l’istitutrice, no; a parte il suo bisogno di assoluta libertà, aveva conosciuto troppo, attraverso le istitutrici che ella aveva avuto dai quattro ai diciott’anni, quanto ingrata fosse quella vita.

    Una proposta di entrare come indossatrice nella prima Casa di Confezioni di Roma l’aveva tenuta un momento in forse. Non era certamente una posizione, fare l’indossatrice, fosse pure dalle Gori, ma l’idea di vivere in un ambiente di eleganza, di muovere le mani tra le sete fini, i velluti rasati, i laminati luccicanti, i merletti, le pellicce di gran prezzo aveva pure la sua seduzione.

    Aveva messo dunque in disparte la lettera per leggere l’ultima rimasta. Ed era stata quest’ultima, proprio, a decidere del suo destino.

    Misteriosa e perciò attraente, quella lettera firmata Irene Vatton vedova Bertschy, da Losanna.

    Vi si parlava di un’Agenzia nuova, unica del genere in Italia, fondata dalla stessa Vatton e per la quale occorrevano persone giovani, di aspetto gradevole e di fine educazione, eleganti, colte, e sopratutto padrone di parecchie lingue. Il lavoro da esplicare non era faticoso e sarebbe stato compensato in modo da permettere, a chi fosse stata assunta, di vivere su quel piano sociale che doveva rappresentare.

    Misteriosa e invitante, la lettera.

    — Se non nasconde un’insidia più raffinata delle altre — si era detta Margherita — forse ho trovato quello che fa per me. Comunque, val la pena di andarla a trovare questa signora Vatton.

    C’era andata. Si era trovata subito in un ambiente così tipicamente svizzero-francese — stanze tenute con ordine perfetto, tendine bianche alle finestre, fodere alle poltroncine, mensole con scatole musicali e statuine di alabastro, vedute del Rodano alle pareti — che il suo innato esotismo si era ridestato immediatamente disponendola in modo favorevole verso la signora che era andata a trovare.

    Una singolare donna, quella Madame Vatton: tutta energia, nella persona ancora giovane dritta e sicura, nello sguardo chiaro e penetrante che subito si era posato sulla fanciulla con espressione visibilmente soddisfatta, nella stretta di mano decisa e virile.

    — Se le attitudini rispondono all’aspetto esteriore — le aveva detto subito — io sono sicura, signorina, che combineremo.

    E senz’altro le aveva esposto di che cosa si trattava.

    — A Roma — aveva detto — si riceve molto. È l’unica città al mondo, questa, dove esistano due mondi internazionali e due diplomazie che fanno capo rispettivamente al Quirinale e al Vaticano. Sono centinaia di famiglie che vi si aggirano intorno formando tutto un sistema aristocratico che, a sua volta, muove tutto un altro mondo socialmente elevato, meno chiuso dell’altro ma molto importante e, oserei dire, più pittoresco di quello del primo sistema che è gelosamente chiuso. Qui, infatti, troviamo l’intellettualità, la Banca, l’alta industria, e anche l’aristocrazia, direi, di seconda mano. La gente di questo mondo ha moltissime relazioni e aspira a farne sempre dippiù; perciò, riceve moltissimo, ma non sempre è in grado di comporre in modo perfetto una, lasciatemi dire, platea d’ospiti. Occorre un’arte tutta speciale per assortire armonicamente i convitati attorno a una tavola, per esempio. Manca sempre la persona che sia in grado di sostenere una conversazione sopra un dato argomento: letterario, se fra gli ospiti si trova uno scrittore o un universitario; musicale, se v’è un Maestro o un compositore; artistico, se il pranzo è in onore di un artista; politico, se è presente una personalità politica; sopratutto, manca quasi sempre la persona capace di parlare bene il francese, il tedesco, l’inglese, il russo, lo spagnuolo e così via, a seconda che al pranzo o al ricevimento figurino degli ospiti stranieri, il che avviene spesso, la persona che sia stata a Parigi, a Vienna, a Budapest, a Varsavia, a Berlino. Ebbene, la mia Agenzia, fornisce queste persone in grado di completare l’assortimento degli ospiti e di aiutare la padrona di casa nel difficile compito di interessare le più importanti personalità che hanno accettato di onorare della loro presenza la sua casa. Mi capite?

    — Perfettamente. È un’idea geniale quella che avete avuto — aveva detto Margherita.

    — Grazie; ho piacere che abbiate afferrato subito la cosa. Se in massima accettate di far parte del mio personale, bisogna mi facciate conoscere esattamente quali sono le lingue che sapete e quali i limiti della vostra cultura.

    Margherita aveva risposto dichiarando di sapere perfettamente il francese, il tedesco, l’inglese e l’ungherese.

    — Molto bene anche l’ungherese?

    — Mia madre è ungherese e io sono nata a Budapest dove ho abitato fino a tre mesi fa.

    — Magnifico! — aveva risposto Madame Vatton segnando tutto in un libriccino che aveva cavato da un cassetto. — È difficile trovare chi parli bene l’ungherese. Non ne ho nemmeno uno fra il mio personale.

    — Numeroso?

    — No; due signorine e due uomini.

    — Anche uomini?

    — Sì; ma in genere sono preferite le signorine. È difficile trovare un uomo che rappresenti bene la sua parte. Sono meno duttili, meno naturali, gli uomini. Tuttavia, poichè per certe cose sarebbe difficile avere un personale femminile adatto, ho dovuto assumere un giornalista che non esercita più, per la parte politica, e un ufficiale del genio a riposo per le conversazioni di natura tecnica intorno alle quali egli si tiene severamente aggiornato.

    — E come dovrò esplicare il mio lavoro?

    — Ve lo dico subito. Quando siete domandata da una cliente (io tratto sempre con le padrone di casa) per un pranzo o per un ricevimento, voi dovete per prima cosa mettervi nello stato di spirito d’una vera invitata e perciò entrare nella casa che non conoscete con tutta la disinvoltura di un’invitata, chè tale dovete apparire di fronte agli altri invitati ai quali la signora vi presenterà come una sua carissima amica. Ella vi farà comprendere subito, dalle persone che vi metterà vicine, qual genere di conversazione dovrete tenere. Quando vi congedate, la signora avrà provveduto a farvi trovare un tassi alla porta, sempre che non possa farvi accompagnare con la sua macchina. È ammesso che accettiate di lasciarvi accompagnare da un invitato, ma si desidera che non facciate relazione con nessuno e, naturalmente, è sottinteso chenessuno dovrà sapere i very rapporti porti che vi uniscono alla padrona di casa dove avrete fatto le conoscenze d’una serata.

    Margherita aveva accettato tutto, anche le condizioni: da tre a cinquecento lire per serata a seconda dell’importanza della casa, tenuto conto delle spese che doveva incontrare per la toeletta e che erano a suo carico. Il regolamento della retribuzione spettava a Madame Vatton che vi ottemperava di volta in volta il giorno successivo a quello di ogni serata di lavoro.

    L’ispezione al guardaroba occupò una buona mezz’ora. Margherita scelse alfine un abito di tulle nero con una molle cintura di velluto color turchese che s’intonava al colore dei suoi occhi, mentre il nero vaporoso dell’abito faceva apparire più dorati i riflessi dei suoi capelli d’un castano caldo quasi ramato che, raccolti intorno al collo in riccioli lievi, temperavano la classicità del bel volto che senza quella acconciatura d’adolescente sarebbe parso quasi severo.

    — Questo — disse a se stessa — va benissimo. Metterò anche le turchesi che staccano bene sul nero.

    Distese subito il vestito sul letto, vi pose accanto il mantello leggero, preparò tutto il necessario a completare la sua toeletta, poi si guardò accuratamente nello specchio. L’ondulazione teneva bene, non era necessario che passasse da Attilio per la messa in piega.

    — Meno male — si disse — tanto tempo risparmiato. Potrò dare un’occhiata ai libri di questo signor Gömöry che dovrò naturalmente intrattenere.

    Risolvette di recarsi subito in Biblioteca e magari di fare anche una

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