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Jazz di cuori su un campo di lavanda
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Jazz di cuori su un campo di lavanda
E-book188 pagine2 ore

Jazz di cuori su un campo di lavanda

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Info su questo ebook


Maria “misura il dolore”, parlando alla gente che incrocia al porto. Paolo, il ragazzo che Maria ama, l’ha lasciata per imbarcarsi su una nave ed esplorare mari lontani, e il dolore di Maria è grande. Maria si muove sullo sfondo di personaggi che incrociano, a volte improvvisando, le proprie storie di sentimenti. Con loro lei, “la ragazza dei fiori” con il furgoncino rosa fucsia, darà vita a curiose avventure tra fiori, letteratura, e innamoramenti. Sarah, che cucina kreplach, mangia pistacchi e parla delle indagini letterarie del professor Salomon, e Kamal, l’uomo arabo che balla l’hip hop marocchino, sono i poli entro cui si muove “la ragazza dei fiori” nel tempo in cui esamina se stessa e il suo amore per Paolo. Cerca di sopravvivere. Esploratrice di un sentimento, con il binocolo puntato sul suo cuore e su quello di chi incontra, Maria si convince che può estendere all’infinito la sopportazione pompando nel suo cuore ogni getto di sofferenza. Ma è veramente invincibile? Oppure manca un nulla al suo infinito, per renderlo tale? Come quel campo di lavanda, che appare immenso al ritmo dei suoi passi, ma che termina dove comincia il mare.
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2023
ISBN9791255400738
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    Anteprima del libro

    Jazz di cuori su un campo di lavanda - Paola Tavoletti

    PARTE PRIMA

    In una giornata serena di luglio, all’ora del tramonto, due donne attraversavano a piedi un campo di lavanda che scendeva verso la costa.

    Si tenevano per mano e la più giovane, Maria, faceva dondolare le braccia al ritmo dei passi. L’altra, Sarah, faticava a starle dietro e a volte interrompeva questa cantilena di gesti.

    La luce rossa si stendeva sul viola dei fiori di lavanda e le vesti delle due donne, di un cotone ruvido e antico, ne rimandavano i bagliori, fino a che il campo divenne scarlatto e le gonne bianche, che si allargavano a ruota come loro si voltavano e si sollevavano alla brezza serale, rimasero due punti innocenti in quella tinta calda di passione.

    Arrivarono al mare e sedettero sugli scogli a guardare il sole sparire.

    Maria aveva vent’anni e il sale del mare attaccato alla pelle.

    Le piaceva annusarlo e tenerlo fino a sera.

    Giugno aveva portato il suo amore lontano, in una terra distante. Era stato un anno prima, Maria, che si nutriva d’estate e di luce, ora non aspettava più la stagione che arde. Ne aveva paura.

    Guardinga, a maggio spiava i fiori sui rami e desiderava protrarne la freschezza, si sedeva nei campi e sperava che non diventassero cenere dorata.

    Voleva perpetuare la primavera e il suo rigoglio di vita, perché la vita con lui, quella lei non l’aveva saputa allungare.

    Maria l’aveva perso così, un anno fa, in un giorno di quella stagione che brucia.

    Paolo se ne era andato su una nave americana arrivata al porto di Gaeta pochi giorni prima, perché la vita di quella cittadina a lui stava stretta. Anche Maria era stretta per lui, di cervello, di fianchi, di speranze. Una ragazza semplice e timida che alla vita non chiedeva nulla, esile e accartocciata su quel fisico ossuto e introverso, mai troppo aperta per lui, a difendere chissà quale segreto.

    Glielo aveva detto in un attimo: «Addio Maria, io m’imbarco». Aveva con sé, quel giorno, solo una valigia. Una valigia di cuoio logoro, di quelle che si usavano in Italia negli anni sessanta, che suo padre non aveva mai voluto buttare. I genitori avevano ancora a casa le vecchie valigie di cartone del dopoguerra. Qualcuno, a Gaeta, raccontava dell’emigrazione dei nonni nelle Americhe, e di come a Ellis Island gli Italiani poveri stessero in fila con le loro valigie di cartone. Già, ne era partita tanta di gente da Gaeta per l’America. Tanti Americani sarebbero, invece, arrivati a Gaeta molti anni dopo, nel 1967.

    Paolo amava il mare, a Gaeta ti scorreva nel sangue, e si rattristava pensando a quanto era cambiato il destino della sua città con la flotta USA di stanza nel porto per un lungo periodo, anni prima. Loro, i Gaetani, erano troppo abituati all’indipendenza e all’autonomia: Gaeta, la sua città, quando era una gloriosa Repubblica Marinara italiana attorno all’anno 1000 non ne aveva voluto sapere di essere asservita a chicchessia e all’epoca aveva creato la sua legge, la sua flotta e persino la sua moneta, il Follaro.

    «Sono un Gaetano!» si inorgogliva Paolo, «e partirò per mare! Pagherò con il Follaro nei miei scambi commerciali con tutto il Mediterraneo!»

    Sognava di essere tornato ai tempi d’oro di Gaeta, quelli di cui gli parlava sempre suo padre ripercorrendo la storia della città e mostrandogli libri di storia marinara, quando il Follaro di Gaeta era accettato in tutto il mar Mediterraneo nei numerosi scambi commerciali.

    Ma come merce di scambio, ora, Paolo aveva solo qualche romanzo di mare e di avventura, Conrad, Hemingway, Salgari, poche magliette, due paia di jeans e un ciondolo spezzato. Ma quello no, non l’avrebbe mai dato via. Lo aveva diviso in due pezzi proprio pochi istanti prima.

    «E il ciondolo che ti ho regalato? Il ciottolo con il disegno del cuore?» gli aveva chiesto istanti prima Maria con la poca voce rimasta. Era un pegno d’amore.

    Avrebbe potuto urlare, Maria, avrebbe potuto insultarlo, odiarlo, ignorarlo. Avrebbe potuto piangere e giurare a se stessa che lo avrebbe dimenticato, che era stata tutta una favola, che neanche lei ci aveva mai creduto. Ma era troppo onesta Maria, e quella tra lei e Paolo era stata una storia importante. Lo sapevano entrambi. Non volle gettare un velo scuro sui loro anni insieme, né frantumarli e polverizzarli.

    E così, in un istante, la mente era già andata oltre il dolore dell’addio. Lo stava accettando. Il fisico no, il cuore soffriva, le viscere si ribellavano. Ma la mente già rielaborava e andò ai postumi di quel distacco, a cosa, dopo, sarebbe rimasto di se stessa attaccato a lui. Il pensiero andò anche a un oggetto, a una promessa fatta.

    «E il ciondolo che ti ho regalato? Il sasso con il cuore?» ripeté.

    Paolo ne ebbe compassione, povera Maria. Glielo aveva tenuto nascosto fino all’ultimo, che l’avrebbe lasciata. Non se lo meritava lei, di soffrire in anticipo, troppo a lungo.

    Ma, ora, era lui che stava soffrendo. Guardò Maria, poi guardò la nave che lo stava per portare distante dal suo mondo. E poi guardò più lontano, il mare. In quella lontananza senza fine, senza appiglio per gli occhi, poiché l’isola di Ponza era avvolta dalla nebbia quel giorno, senza arrivo per la mente, Paolo pensò che sì, lui sceglieva il mare. Lui voleva scappare. Ma non era da lei che scappava.

    Si diresse verso la bottega di un artigiano, prese uno scalpello e ruppe il ciottolo in due parti.

    «Ecco, lo spezzo per te, Maria. Metà è tua, perché una parte di me è tua, l’hai fatta tu.»

    Era poetico Paolo, quando voleva, quando si dimenticava di voler essere un forte e impavido avventuriero. Quel Robinson Crusoe della costa italiana.

    Maria non rispose. Non disse nulla neanche quando lui la baciò sulla bocca, così davanti a tutti, come nella scena di un film, e poi l’abbracciò stretta, prima di incamminarsi verso la nave con la sua valigia di cuoio logoro.

    «Io ti conserverò sempre dentro di me» avrebbe voluto dirgli Maria, «cercherò sempre di ricomporre questo sasso, di ridare vita a questo cuore spezzato, di mettere insieme le due parti» ma non disse nulla, e rimase così, in silenzio.

    Anche Paolo non disse più una parola, mentre camminava sul molo.

    «Io ti cercherò ancora un giorno, Maria, cercherò la mia parte mancante» le promise nel cuore. Ma lo pensò soltanto. Non volle dirglielo, perché chissà dove l’avrebbe portato il mare.

    La nave su cui Paolo si stava per imbarcare era una nave militare americana di ricognizione nel Mediterraneo, lui avrebbe aiutato in cucina. Era un bravo cuoco; a soli ventisette anni vantava già una bella esperienza nelle trattorie e ristoranti di Gaeta e della Riviera di Ulisse, quell’incantevole tratto di costa laziale a sud di Roma, una striscia di terra che ti invitava a ritornare più e più volte. Una terra leggendaria. Paolo amava le leggende e le storie di eroi e guerrieri, fin da bambino.

    «Un giorno anch’io partirò, come un eroe, come Ulisse!»

    Si chiamava così, la Riviera di Ulisse, perché la leggenda raccontava che sulle sue splendide spiagge non poté fare a meno di fermarsi neppure il più instancabile dei viaggiatori, Ulisse. Per Paolo la ragione era quella magia che lì esisteva, per il ritmico alternarsi di tratti di costa bassa e piatta con rocce a strapiombo sul mare blu, per la seduzione di una natura intatta e generosa che regalava vedute uniche, per la dolce armonia di un paesaggio collinare con borghi costituiti da poche case, per la cucina regionale tanto semplice e tanto saporita, saporita come una tiella.

    Una tiella al polpo, una zucchina alla scapece e l’allegria della gente del posto avevano convinto lo staff della nave, Paolo sarebbe stato dei loro, era bastato un giorno per assumerlo. L’inglese lo sapeva, glielo avevano insegnato i suoi anziani genitori; loro lo parlavano alla gaetana, come un po’ tutti coloro di quella generazione che aveva avuto a che fare con gli americani a Gaeta, fin dagli anni sessanta.

    La città era stata roccaforte dei Borbone e del Papa. In ogni epoca storica, la presenza militare lì era sempre stata forte. Gli abitanti vi si erano così tanto abituati che quando nel 1967 la VI flotta USA prese possesso della base di Gaeta e arrivarono in città migliaia di marinai e impiegati americani, con le rispettive famiglie, la piccola comunità di cittadini non reagì malamente, anzi si entusiasmò per questi nuovi amici.

    Gli americani avevano molti soldi da spendere: affittarono appartamenti, acquistarono merce nei negozi, frequentarono i ristoranti. Gli americani si integrarono a Gaeta, o meglio, Gaeta li integrò.

    Integrarsi, stare insieme, essere uno dentro l’altro, attorcigliati, aggrovigliati, parte di una stessa vita, di uno stesso destino, uno stesso cuore. Così erano stati anche Maria e Paolo: uno stesso cuore.

    Fino a ora.

    Lei era rimasta così, in silenzio, si era curvata ancora più su se stessa con un dolore forte al petto.

    Aveva cominciato a camminare a testa bassa, si sentiva a disagio per essere stata lasciata. Le sembrava, poi, che alzando lo sguardo i suoi occhi cercassero solo lui e le distese smeraldo del loro amore giovane. Un fuoco estivo aveva incendiato quei campi del cuore e il rogo consumato il suo sogno d’infinito. Infinito, vuol dire per sempre.

    «Niente è per sempre, Maria» le aveva detto Sarah, la sua amica che raccontava storie incantatrici del cuore.

    Le due donne si erano incontrate per la prima volta al porto, un mese prima. Era l’inizio di giugno.

    Sarah aveva appena dato un altro addio al suo uomo, che ritornava a casa sua in un’isola di fronte alla costa.

    La ragazza sedeva sul molo con un blocco da disegno sulle ginocchia magre. Scriveva fitto e disegnava, linee orizzontali e verticali, simili a grafici vettoriali.

    Parlava ai passanti e poi faceva quegli strani schizzi. Qualcuno non le dava retta, qualcun’altro sembrava interessato alla conversazione.

    La giornata era fresca, di tarda primavera rigogliosa, ancora non stanca e non desiderosa di sfiorire in un’estate assolata. Le parole della giovane, pronunciate lentamente e in una melodia quasi simile a una nenia orientale, sembrarono a Sarah come dolce stormire di foglie al vento della sera, una carezza. Sarah amava la poesia delle parole e delle immagini, pensò che in quella ragazza ve ne era di inconsueta, triste come i suoi occhi scuri, essenziale come il suo corpo magro.

    Si fermò a pochi passi da lei, incuriosita.

    «Cosa fai, ragazza?»

    «Misuro il dolore» aveva risposto Maria.

    L’idea di misurare il dolore, che sarebbe parsa a molti una follia, a Sarah fece invece venire alla mente il professor Salomon e il suo corso di letteratura.

    Era stato a Los Angeles, molti anni prima. Il corso di letteratura creativa del professor Salomon aiutava gli studenti a sviluppare il pensiero indipendente, pensare con la propria testa. Non accettare per vere le affermazioni degli scrittori, bensì verificarle, sperimentarle nella vita di ogni giorno, indagarle, raccogliere prove: questo chiedeva Salomon ai suoi allievi.

    «La letteratura» diceva, «deve rispecchiare la vita. Se lo fa è buona letteratura.»

    Così, ogni stagione veniva chiamato un autore sul banco degli imputati e alla fine dell’analisi, durante la quale gli studenti si sparpagliavano per le strade della vera vita a indagarne le pieghe per raccogliere prove, si emanava il verdetto: scrittore colpevole di falsità oppure no. Con che inchiostro scriveva? Col sangue della vita o con la porporina dell’irrealtà?

    «Voglio fatti veri» diceva loro il professore, quando gli studenti partivano alla scoperta per verificare se affermazioni dei testi letterari corrispondevano alla realtà della vita.

    «Parlate con la gente, entrate loro dentro. Voglio sentire i brividi, l’odore della realtà.»

    Uno degli autori che aveva avuto tempi duri di fronte a quel tribunale di letterati insoliti, divisi tra poesie e politica, fumo e jazz, era stato Charles Bukowski che, nel suo romanzo Compagno di sbronze, affermava che «Non si può misurare il gusto o la mancanza di gusto».

    Quella volta gli studenti lo salvarono all’ultimo, grazie alla testimonianza di un uomo innamorato.

    Questi amava una donna giudicata brutta, ma riuscì a dimostrarne la bellezza celata nei tratti del volto quando lei riposava, nella linea della schiena che disegnava un arco morbido, nelle spalle che teneva ben dritte, coraggiose e spavalde.

    La sua risata, poi, era un viaggio di sensazioni inaspettate: fresca, sincera, zampilli di gioia. Speravi che non terminasse.

    In effetti quella donna, che non aveva nulla della bellezza classica, era sicura di se stessa e si muoveva con tale disinvoltura che sembrava danzasse nell’aria della vita. La sua naturalezza incantava e faceva sentire chi la osservava triste e inutile. Costoro, sentendosi brutti, lo diventavano lentamente: si chiudevano in una posa di vergogna, i loro occhi piangevano quasi e l’andatura diveniva trascinata con i passi incerti. Lei ridipingeva di personalità la sua bruttezza, e svuotava gli altri della loro bellezza senza più invenzione.

    Dire, perciò, che l’uomo non aveva gusto perché aveva scelto una donna che per gli altri era brutta, non era possibile, in quanto non solo lei era meravigliosa per lui, ma era divenuta bella per gli altri che cominciavano a guardarla con altri occhi, liberi.

    La classe di Salomon convenne che non era davvero possibile misurare il gusto, ognuno aveva occhi diversi per vedere, e salvò Bukowski.

    «Misuro il dolore» aveva dunque risposto Maria quel giorno in cui, poco più di un mese fa, si erano incontrate per la prima volta giù al porto. A Sarah, così, quel misurare il dolore aveva riportato alla mente un altro misurare di tempi addietro, la misura del gusto di Bukowski.

    Improvvisamente, prima ancora di voler scoprire che cosa aveva in mente quella ragazza con i suoi disegni e le interviste alla gente, perché è questo che sembrava facesse, domande alla gente che passava, Sarah indugiò nella nostalgia forte per quei tempi di follia letteraria e pensò che avrebbe voluto riviverli ora e che, perché no, avrebbe scelto un libro dalla sua biblioteca, appena arrivata a casa, avrebbe fatto ciò che si faceva tanti anni addietro con Salomon: verificare la letteratura con la vita, metterle a confronto.

    Quella magra ragazza le aveva già fatto un regalo grande: farle riamare il suo passato, riallacciarla di nuovo alla sua storia. Valeva la pena di conoscerla a fondo.

    Sarah le si sedette accanto sul molo, mentre lei le sorrise perché non le aveva chiesto che cosa intendesse con misurare il dolore, non aveva riso né se ne era andata scuotendo le spalle.

    Certo, Maria lo sapeva che era insolito ciò che stava provando a fare, ma doveva assolutamente sapere qual era la misura del suo dolore, quanto grave fosse quella malattia del suo cuore.

    In realtà, per tutti i mesi dopo quell’abbandono, mesi in cui l’autunno dispiegava i suoi colori di addio alla vita e l’inverno spargeva segni di fine e di silenzio, Maria aveva creduto di non poter sopravvivere fino al giorno seguente, tanto soffriva per quel suo amore finito.

    Essere stata abbandonata così era stato un tuono nel silenzio di

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