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Le due offerte
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E-book188 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Renato mi ha lasciata da pochi minuti. Se io mi affacciassi alla finestra potrei vederlo camminare nella strada deserta, scura, fredda, forse un poco curvo ed affaticato come tutti gli esseri i quali ritornano a notte tarda nelle case che non li attirano piú. Troverà sua moglie addormentata. Renato mi ha detto ch’ella si assopisce subito, quietamente, per svegliarsi soltanto quando il sole è già alto nella stanza.
Perché mi ha parlato di sua moglie dopo di avermi detto troppe, intense parole di passione?


Le due offerte, Daisy di Carpenetto.

Pubblicato nel 1929, Le due offerte, della scrittrice piemontese Daisy di Carpenetto (Margherita “Daisy” di Challant) è un dramma d'amore incentrato su due donne innamorate dello stesso uomo, che ruotano intorno alla sua vita, in una sorta di dipendenza affettiva senza via d'uscita. 
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita9 mag 2023
ISBN9791222405261
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    Anteprima del libro

    Le due offerte - Daisy di Carpenetto

    PARTE PRIMA

    «Il ne faut pas chercher la verité mais devant un homme comprendre quelle est sa verité.»

    Remy de Gourmont

    Renato mi ha lasciata da pochi minuti. Se io mi affacciassi alla finestra potrei vederlo camminare nella strada deserta, scura, fredda, forse un poco curvo ed affaticato come tutti gli esseri i quali ritornano a notte tarda nelle case che non li attirano piú. Troverà sua moglie addormentata. Renato mi ha detto ch’ella si assopisce subito, quietamente, per svegliarsi soltanto quando il sole è già alto nella stanza.

    Perché mi ha parlato di sua moglie dopo di avermi detto troppe, intense parole di passione?

    Egli non l’ama, egli non l’ama piú. Ma il nome di lei, breve piccolo nome creato dall’intimità per l’intimità (si chiama Minú), ritorna spesso sulle sue labbra accanto a quello della sua bambina. Renato pronunzia questi due nomi, sorridendo, senza commozione, con una dolcezza istintiva che forse egli stesso non misura, quasi essi fossero una parte vitale del suo corpo, la sua piú profonda ragione di esistere.

    Temo Renato. Per la prima volta da quando sono vedova avverto nitidissima la sensazione del pericolo: questa sensazione mi avviluppa e mi turba.

    La nostra antica amicizia si è trasformata all’improvviso in un sentimento torbido, complesso, vibrante di paura e di desiderio, che m’invecchia, mi affatica, rendendomi nemica ogni ora di solitudine. Quando siamo vicini non sappiamo piú scherzare. L’allegria, per incanto, rimane fuori dall’uscio che ci divide dal resto del mondo. Se il riso diventa superfluo l’amore è molto vicino.

    Perché ribellarsi?

    Io non desidero l’amore. Giudico gli uomini troppo avidi e capricciosi, fanciulli insaziati ed insaziabili, per chiedere ancora alla vita il dono piú crudele ch’essa possa concedere.

    Ma la giovinezza, anche se stanca, anche se delusa, tradisce a volte aspre ribellioni, lancia sordi richiami, trastullandosi con la creatura ch’essa tiene nella sua morsa per pochi anni come le sfumature del cielo si trastullano nello specchio del mare che le riflette.

    Renato, lasciandomi, mi ha detto:

    — A domani.

    Non sorrideva. Forse ha tremato un poco mentre egli baciava la mia mano. Avrei voluto ricordargli, ad un tratto, i nostri anni piú lontani, piú sereni, quando nel vasto parco veneto ogni parola era trasparente di lieta adolescenza ed ogni pausa di voci era soltanto un’attesa di parole nuove.

    Adesso io temo il silenzio quasi fosse un agguato. Il silenzio è la piú degna culla dell’amore.

    La notte è intima, snervante, complice dell’istinto: suscita per ogni ora che trascorre la malinconia di un’ora perduta. Il passato, bizzarro labirinto creato fra la luce e l’ombra, ricco di vele e di àncore, non mi custodisce piú.

    Sono sola e libera.

    La solitudine di una creatura giovane e libera dovrebbe spaventare sempre poiché essa è sbrigliata, ansante, assetata di sensazioni e di sentimenti, di pericoli e di certezze, d’illusioni e di tentazioni, di sofferenze e di rinascite, poiché essa è ingorda di passione.

    Renato stanotte è rincasato molto tardi dopo di aver trascorso la serata con un gruppo di amici. Stamani mi è sembrato nervoso, inquieto.

    Io non oso rivolgergli troppe domande. Dice che sono «una bambina», cosí bambina da non poterlo seguire nelle sue lotte e nei suoi affari.

    Durante il periodo del nostro fidanzamento egli mi chiamava spesso «il suo riposo». Infatti anche adesso desidera che io sia sempre sorridente e serena per la sua gioia.

    A volte temo di non comprenderlo abbastanza benché Renato sia piú semplice di quanto possa parere agli estranei. Sincero, entusiasta, impulsivo, egli non chiede piú di quanto gli offre il destino.

    La sua vita è tutta racchiusa nel nostro nido tiepido.

    Ed il matrimonio non concreta forse la piú perfetta forma di felicità, l’unica che riesca ad appagare?

    Renato non rimpiange il suo passato torbido e febbrile: ne sono sicura. L’altra sera egli consigliava al suo migliore amico, Alberto Balbi, di seguire il suo esempio e sposarsi. Alberto Balbi appartiene ad un’altra specie di uomini: nomade, avido, dominato dai sensi, insegue in tutte le donne un riflesso di quella ch’egli non raggiungerà mai poiché essa esiste probabilmente soltanto nella sua fantasia. Il suo apparente egoismo mi dispiace. Piú di una volta sono stata tentata di pregare Renato di non invitarlo cosí spesso a casa nostra. Temo che la sua chiassosa influenza sia nociva.

    Adesso esco con la bambina per andare dalla sarta. I miei vestiti nuovi daranno a Renato un piccolo, fresco piacere di sorpresa: egli si compiace quando, elegante, suscito l’ammirazione. Mio marito non mi ha mai offesa con la gelosia. Del resto la gelosia è una malattia inutile, dannosa, che s’impossessa soltanto degli esseri deboli e tormentati, di quelli che non sono sicuri della creatura amata.

    Renato è convinto del mio amore.

    Il matrimonio mi ha concesso l’unico dono prezioso che io ho sempre chiesto alla vita: la serenità.

    * * *

    L’amore è dunque questa cupa, molesta ambascia che non mi concede un attimo di riposo?

    Quando Renato è lontano io lo cerco, lo attendo, frugo nelle strade quasi esse fossero state fatte soltanto per ospitarlo, gli dedico ogni mia ora, ogni mio pensiero. Quando Renato è vicino, ho l’impreciso desiderio ch’egli si allontani ancora, per appartenergli completamente, senza difesa, senza provare la necessità di lottare con la sua presenza. Vorrei non subire il suo fascino fisico, non raccogliere con turbamento le carezze della voce insinuante, non temerlo.

    Oggi abbiamo trascorso il pomeriggio insieme. Sono stata vile: dopo di avergli telefonato di non poterlo ricevere, gli ho scritto un biglietto breve ed ansioso per richiamarlo accanto a me.

    Mi ha descritto il suo passato, la sua casa.

    Mi ha detto:

    — Minú è una bambina buona, incapace d’intendermi e di seguirmi. S’illude che io sia felice, appagandomi di quanto ella mi offre... Non mi conosce.

    — Tua moglie ti offre l’amore...

    — Un amore dolce e schietto che non riuscirà mai a trattenermi, incatenandomi. La serenità mi esaspera quasi fosse una condanna. Tu non imagini quante volte, tornando nella casa silenziosa, ordinata, fiorita, io ho desiderato che Minú fosse una donna diversa, meno docile, meno schiava...

    — Però se ella ti facesse soffrire...

    — Se Mínú mi facesse soffrire io avrei la sensazione di vivere.

    Renato non è cattivo benché le sue ribellioni riescano spesso a farlo sembrare tale. Gli anni non sono valsi a trasformarlo: ragazzo egli si ubriacava di sogni e di miraggi; uomo egli si crogiuola nel tormento di voler vivere ancora, di voler conquistare ancora. La dolcezza non lo disseta.

    Mi ha chiesto del mio passato, del mio matrimonio, delle città lontane che io ho conosciuto e che egli vorrebbe conoscere. Perché ho esagerato l’incomprensione di mio marito? Perché gli ho detto di non aver mai conosciuto un’ora di perfetta felicità?

    Ho mentito: piccole menzogne allacciate fra di loro da reticenze, sorrette ed attenuate da sguardi sorridenti, piccole menzogne che sono forse soltanto verità taciute o speranze che io non voglio nemmeno confessare a me stessa.

    Con Carlo io ho conosciuto una felicità serena e sicura. Se la passione non mi ha mai stroncata, l’amore mi ha fatto cantare. La morte di Carlo ha segnato la fine della mia giovinezza.

    Oggi ho tradito mio marito con troppe bugie.

    Non voglio conoscere Minú. Benché io non abbia alcun desiderio di farle del male, sento che il «vederla» mi legherebbe a lei con un’assurda amicizia che io non saprei piú tradire. Preferisco imaginarla come se ella fosse unicamente un nome, un nome breve; un’imagine sbiadita e lontana, necessaria per il mio tormento d’impossibilità. Essa deve rappresentare per me sopratutto la madre della bambina che Renato ama. Dinanzi alla sua realtà fisica, fatta di calore e di gesti, di sorrisi e di movenze, di un corpo velato e rivelato da un abito che possiede una foggia ed un colore, io non riuscirei piú ad allontanare dal cervello il pensiero ch’ella è anche «la moglie» di Renato.

    Per la prima volta, la parola «moglie» suscita in me imagini precise, importune, che inquinano e turbano l’anima.

    Renato, del resto, non insiste piú come durante i primi giorni per accompagnarmi nella sua casa. Minú ignora la mia esistenza.

    Perché il destino, divino mostro dai troppi tentacoli, ha preteso che io incontrassi Renato dopo tanti anni di lontananza silenziosa, in questa città pacata, tiepida, nemica dei contrasti violenti?

    Firenze con il suo fascino insinuante, blando, saporito, con i suoi fiori fedeli, con il suo fiume grigio e lento, è la città dei convalescenti. Dovrebbe ospitare soltanto gli esseri che vogliono guarire. Ed io invece, ammalata, voglio ammalarmi ancora, piú gravemente, ammalarmi fino al punto di essere tanto schiava del mio tormento da non desiderare piú la liberazione.

    Le giornate s’inseguono e sono prive di ore e di date, posseggono un attimo solo che le rende degne di essere vissute: quello in cui rivedo Renato.

    Il Natale si avvicina. Elena mi ha chiesto stamani se il Gesú Bambino conosceva il nostro nuovo indirizzo... Povera piccola! Teme di non ricevere i doni richiesti. L’attesa la rende impaziente e docile: evita ogni capriccio, ubbidisce alla bambinaia, si addormenta senza pretendere una fiaba.

    Le ho comprato una grande bambola vestita di raso rosa, una culla arricchita da pizzi e nastri, un carrozzino.

    La sua gioia sicura mi rallegra come se io avessi ancora i pochi anni della mia creatura e potessi ancora accontentarmi dei balocchi che ho nascosto nell’armadio del corridoio.

    Ho voluto che anche Renato ammirasse i doni. Egli ha preso la bambola fra le sue mani, un poco impacciato, l’ha osservata con attenzione, mi ha chiesto se ad Elena piaceva il raso rosa. Dinanzi alla mia allegria, ha sorriso:

    — Come sei giovane, Minú!

    Io amo il chiaro, spontaneo, sorriso di Renato che mi ricorda sempre il giorno del nostro fidanzamento.

    Eravamo soli, quel giorno, in giardino.

    Rivedo il vecchio contadino seduto su di un albero, intento a tagliare con un’accetta i rami morti. I rami cadevano, ad uno ad uno, frusciando. La campagna era stranamente verde ed immobile. Renato ritornava da un lungo viaggio che lo aveva reso piú loquace ed acceso del consueto. Mia madre, complice, si era allontanata.

    Quando io ho mormorato il mio consenso (timido, tremulo consenso) Renato sorridendo, mi ha baciato la fronte.

    Ogni suo sorriso mi ringiovanisce riconducendomi a quell’ora: è una mano tenera che afferra la mia per aiutarmi a rifare un cammino già percorso senza fatica affinché io mi ritrovi, d’un balzo, al punto di partenza.

    Otto anni di matrimonio: otto anni di felicità.

    Elena cresce, ride, pretende i doni del Gesú Bambino, ama i vestitini nuovi, attende il Natale: fra pochi mesi incomincerà a conoscere l’alfabeto...

    Il tempo trascorre velocissimo e non mi spaventa: la gioia arricchisce anche la maturità e la vecchiaia.

    Renato mi ha telefonato di dover pranzare con degli uomini d’affari. Non ho voluto fargli intuire quanto mi sia nemica la solitudine. Egli non deve avvertire il peso della catena. Ma oggi ero uscita per comprare del vischio ed adornarne la tavola. Adesso il vischio mi appare quasi inutile: guardo le tante piccole foglie azzurre, minuscole eliche immobili, guardo le chicche bianche che sembrano trasparenti e non lo sono, guardo i due posti preparati...

    Malinconia? Paura della solitudine?

    Renato mi ha abituata male. Non so rimanere a lungo senza di lui. Ho bisogno della sua presenza, delle sue carezze lievi, dei baci che sfiorano appena i miei capelli e le mie labbra, delle sue parole, della sua voce...

    Sola io mi sento una donna: appena odo il passo di Renato ritorno ad essere una bambina che ha bisogno di lui...

    Ho pranzato con Renato alla Buca dei Lapi: bizzarro locale sotterraneo, animato, cosmopolita, rallegrato dalle «réclames» piú vivaci e diverse affisse sulle pareti e sul soffitto, e dai berretti bianchi dei cuochi che cucinano dinanzi ai clienti spiccando quali modernissimi diavoli sulle fiamme che rosseggiano e spadroneggiano, vivacissime.

    Un girovago pittore ungherese, alto, magro, olivastro, ricercatore di modelli e di quattrini, ha fatto la mia caricatura. L’ho riguardata poco fa riconoscendomi a stento. Eppure mi somiglia... La caricatura è dunque un’imagine sincera? La piú sincera? È strano come a ciascuno dispiaccia di vedere il proprio lato ridicolo...

    Renato mi ha accompagnata a casa: siamo rimasti fino a molto tardi nel deserto «hall» dell’albergo. Anche il vecchio facchino, sonnolento custode notturno, aveva abbandonato il suo posto, per addormentarsi su di una branda ostile. Ci siamo seduti vicini in un divano insidioso e tiepido come un’alcova, consci del pericolo, entrambi ebri di questa nostra vicinanza che era viva, pulsante, quasi una silenziosa creatura reale.

    Le dita si sono intrecciate, subito; le mani hanno goduto del reciproco tepore. Poche e vaghe parole sono state pronunziate a fior di labbra.

    Abbiamo parlato dell’amore, dell’amore degli «altri» ma era il nostro amore che si confessava timidamente...

    La certezza del pericolo vicino, forse inevitabile è una delle sensazioni piú raffinate e subdole che possa concedere l’istinto all’uomo. La voce, i gesti, i pensieri si trasformano all’improvviso: anche i corpi si trasformano per un prepotente ed inatteso desiderio di offerta. Segretamente, lentamente, insidiosamente, si accende fra l’uomo e la donna la secolare febbre fisica che li sconvolge, li ossessiona, rendendoli nemici fra di loro di quella torbida inimicizia subcosciente che, di rado, si concreta in una ribellione.

    Nessuna preghiera: nessun rifiuto.

    Abbiamo parlato degli «altri», abbiamo tanto parlato degli «altri»...

    Renato per pranzare con me ha dovuto inventare un pretesto a sua moglie. Egli mi ha raccontato sorridendo questa sua piccola menzogna, senza provare rimorso, con l’inconscia spavalderia del fanciullo che è riuscito a giocare un tiro innocente.

    — Sei stato creduto?

    Egli mi ha fissato

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