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Il sangue nero di Mussolinia
Il sangue nero di Mussolinia
Il sangue nero di Mussolinia
E-book342 pagine5 ore

Il sangue nero di Mussolinia

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Info su questo ebook

La vicenda si concentra in una settimana di fine estate 1931 in una landa di recente bonifica della Sardegna, dove sorge la città nuova di Mussolinia (oggi Arborea di Sardegna), abitata da famiglie poverissime e numerose, per lo più venete, trapiantate per lavorare la terra dalla Società Bonifiche Sarde, con il benestare del regime fascista. Un lunedì mattina, tra polvere e fichi d’india, vengono trovati, morti ammazzati, due ragazzini: lei è veneta, lui è un pastore sardo di Terralba. Immediatamente il giovane parroco salesiano di Mussolinia, don Massimo, veneziano d’origine, è coinvolto nelle indagini. Sulla scena si fanno avanti innumerevoli personaggi. Tutti, chi per un motivo chi per un altro, ostacolano il sacerdote che, con l’aiuto del maresciallo dei carabinieri e del medico, vuole scoprire che cosa è accaduto. A complicare la situazione, arriva da Roma donna Erminia, moglie del presidente della Società Bonifiche Sarde, Manlio Dolce: ricca, viziata, spudorata, vede nel giovane sacerdote un balocco erotico, come i tanti amanti che ha avuto; un uomo da possedere a ogni costo, per il gusto di avere per sé qualcosa di vietato. Invece, seguendo il parroco nelle indagini, con lo scopo non tanto nascosto di circuirlo, a poco a poco qualcosa muta nel suo atteggiamento e sarà proprio lei la chiave di volta dell’intera vicenda.
Tra colpi di scena, improbabili colpevoli e segreti inconfessabili, grava la presenza oppressiva di una città, Mussolinia, a cui, per contratto, si deve ubbidienza, sudore della fronte e soprattutto una moralità ineccepibile. Mussolinia è una colonia di lavoro: non c’è spazio per l’amore o la passione; la città il cui nome è stato cancellato nel 1944 per decreto regio dai documenti, dalle mappe, dai libri, dalla storia e dalla memoria è la vera protagonista del giallo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2018
ISBN9788832922318
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    Anteprima del libro

    Il sangue nero di Mussolinia - Emanuela Signorini

    1991

    1

    Lunedì 31 agosto 1931, primissimo pomeriggio

    Il ronzio gli arrivò all’orecchio, fastidioso e insistente, soffiato dentro il condotto uditivo dal vento caldo del pomeriggio di agosto. Tutt’attorno stagnava l’odore acidulo dei grassi letamai accovacciati tra le case coloniche della strada 26 Est. Era una striscia bianca la 26 Est, diritta e sonnacchiosa. Veniva avanti tra tremuli miraggi, sabbia e sassi, per raggiungere senza fretta Sant’Anna, al di là dei campi bonificati.

    L’uomo che camminava sulla 26 bestemmiò, digrignando i denti. Poi prese fiato e respirò affannato, grattandosi la fronte madida di sudore. Respirò ancora, più forte, soffiando aria, insulti e porcherie.

    Un’altra volta quella porca di malaria: eh no Cristo santo, non un’altra volta, non può essere! Eppure è così, pensò l’uomo nella calura, non posso esserci cascato di nuovo.

    Strinse i pugni. L’ansia salì dallo stomaco e venne avanti come un cane tripode, zoppa ma assolutamente decisa ad azzannarlo. Non era l’idea della morte a sconvolgerlo. A quella, se sei di qui, bisogna abituarsi, pensava. E comunque quelli del dispensario ci sapevano fare con la malaria: ti infilavano in corpo una siringa o due di chinino, di quelle grosse come un dito, e tornavi al lavoro, sacramentando meglio di prima! Qualcuno moriva, è ovvio: mica si possono sempre fare i miracoli a ’sto mondo! Alla fine quelli che ci lasciavano le penne erano i soliti cristi, con addosso più magagne degli altri. Mica come lui! Non aveva scelto di stare lì, ma doveva venirci; non poteva scegliere di andarsene, ma non doveva farsi cacciare. L’unica scelta era rimanerci, possibilmente vivo.

    Per quelli forti come lui, la malaria arrivava e se ne andava. Ti portava via la carne, ti sfilava le viscere dal buco del culo. Ti seccava anche la gola fino al sacco dello stomaco. Però, in cambio, ti lasciava la vita. Non che fosse una vita da grandi signori... D’altronde, si consolava l’uomo sulla strada, le scelte sono moneta per ricchi; i poveracci pagano con quello che c’è. E quello che c’è, deve andare bene per forza!

    No, la malaria non lo preoccupava, ma quel ronzio sì…

    Sono forte, si ripeteva, con quel zzz garrulo che lo imbesuiva, se ce l’ho fatta l’altra volta, ce la faccio anche adesso. Là, in quella piana, strappata alle paludi, se non reggevi il lavoro e le zanzare, avevi una sola possibilità: fare la valigia con in saccoccia il biglietto di solo ritorno per il Polesine. Fine della storia. Il che significa fallimento. Innanzitutto tuo, ovviamente, e anche dei tuoi che ci avevano sperato. Tornartene indietro significava sprofondare nella miseria dei campi del continente dove non puoi neanche sperare di crepare in pace.

    L’uomo portò le mani ai capelli, accucciandosi all’ombra di un cespuglio di ginestrella, dai fiori mummificati dal caldo. Tremò con la testa leggermente piegata di lato. Non era un bel segno.

    Giulio, che è il suo nome da uomo – perché da bambino la madre l’aveva voluto chiamare Giuliano, che non gli era mai piaciuto – ricordava il senso di impotenza provato quando per la prima volta la malaria lo aveva preso a tradimento. Quella bestia era arrivata un giorno afoso di maggio con un zzz tale e quale a quello che sentiva adesso. La febbre lo aveva strappato a morsi dal lavoro alla cava del Monte Arci, dove spaccava pietre per costruire case e canali. Dal primo giorno di malaria non era più riuscito a spaccare sassi. Era rimasto giorni inchiodato alla branda della baracca che si era costruito ai piedi dello scavo principale. E per settimane le febbri, una appresso all’altra, gli avevano trapanato le meningi. Neanche il richiamo della Decauville della cava, con il lamento dei vagoncini di ferro arrugginito, riusciva a scuoterlo dal torpore.

    Ricordava di avere masticato saliva e vomito, imprecando di giorno dio e, di notte, chiamando a raccolta i santi. Tra un conato e l’altro, aveva calcolato che ogni istante su quella tavola mal piallata, che gli faceva da letto, gli costava la bellezza di un deposito di diciannove lire alla Società Bonifiche Sarde che lo aveva assunto per tirare giù massi dal Monte Arci. Praticamente l’equivalente della paga giornaliera che gli spettava per contratto. La sua Angela, a Rovigo, quando non avrebbe visto arrivare i soldi, avrebbe pianto.

    La sua Angela… Era bello pensarla. Anche adesso. I ricordi fanno così, riaffiorano all’improvviso, senza che niente e nessuno li abbia chiamati. Basta che la porta della stanchezza o dello sconforto venga socchiusa da un minimo di corrente, e di colpo riaffiorano.

    Così, solo in mezzo a questa strada di sabbia, Giulio ricordava la sua donna. La immagina dentro la loro casetta di mattoni che avevano avuto in dote dal padre di lei. Chiamarla casetta forse era un po’ esagerato. Eppure a loro due, era sembrata subito una villa. Quando lei lo aveva accompagnato al treno, quel venerdì diciassette febbraio, vestita con un abito tutto nero, illuminato da una stellata di fiorellini, non aveva versato una lacrima. Era rimasta là, sorridente e fiduciosa, a guardare lui e gli altri novantanove disgraziati che partivano. Come li aveva chiamati il signor prefetto? Ah, sì: Il primo, eroico trapianto organizzato di popolazione agricola in terra di Sardegna. Della confusione di quel giorno imbandierato, ricordava solo il sapore del bacio di Angela: un bacio profumato di mandorla. All’orecchio lei gli aveva promesso: Succeda quel che succeda, poi ti raggiungo là. Come era stata forte la sua Angela. Più di tutte le altre femmine di Rovigo che alla stazione erano venute a salutare i loro uomini con secchiate di lacrime. Chissà poi perché: dopotutto andavano a lavorare in Sardegna, mica alla fucilazione!

    Piccolina, forte e coraggiosa, la sua Angela! Prima di salire sul convoglio aveva desiderato stringerla tra le braccia. Invece no, non lo aveva fatto: mentre suonavano la fanfara e tutti salutavano, non aveva trovato il coraggio né di stringerla per l’ultima volta né di piangere per lei, e si era lasciato spingere sul treno con gli altri maschi da lavoro. Non si era girato, non le aveva lasciato nessun biglietto, non le aveva neppure regalato una promessa. Niente! Se ne ricordava solo adesso. Prima che la locomotiva si decidesse a staccare, mentre il prete aveva gocciolato sul convoglio acqua santa come piovesse, il prefetto Giacone aveva fatto un altro discorso al volo, molto toccante. Aveva detto che il duce era con loro. E pure il re. Mentre parlava, il signor prefetto aveva lanciato verso di loro le parole che dovevano essere lanciate, a una a una, prendendo la mira. Le donne piangevano, gli uomini arrossivano.

    Quel giorno, nessuno si era ricordato di avvertirli che in Sardegna, dove li stavano deportando, oltre a un lavoro da bestie, per dissodare, costruire e coltivare una terra che non voleva essere dissodata, costruita e coltivata, c’era la malaria… Neppure sulla Voce del Mattino si erano sprecati a scrivere una parola su quella maledizione di Dio. Eppure i giornalisti erano stati precisi nel trascrivere su due colonne i nomi di chi andava a lavorare oltremare. Li avevano stampati in ordine alfabetico, con il nome in caratteri grandi, poi il paese da dove venivano, l’età e il mestiere. Non si poteva sbagliare, erano proprio loro, tutti in fila con le lettere giuste. Lui stava nella seconda colonna, stretto tra un Giovanni carpentiere e un Egidio lavoratore agricolo.

    A ripensarci gli veniva un groppo in gola… Altro che diciannove lire a giornata per il lavoro in bonifica e la promessa di un podere a mezzadria! Adesso che c’era dentro fino al collo, sapeva che se ti becchi la malaria, in saccoccia ci infilavi la vita. Pace amen a te e a tutto il resto! Altro che eroico trapianto!

    Giulio tremò di nuovo.

    Se avesse ripreso le febbri, alla direzione della Società Bonifiche Sarde avrebbero segnato il suo nome con una crocetta in lapis e vicino avrebbero scritto inadatto. E allora sarebbe stata la fine.

    Bestemmiò, triturando le sillabe tra i molari. Calciò un sasso, che se ne stava da chissà quanto accoccolato nella sabbia: si alzò una nuvoletta di polvere bionda che gli imbiancò il pantalone fino al ginocchio.

    Chissà, pensa Giulio, se Angela avrebbe mai avuto la soddisfazione di trovare il suo nome sulle liste degli aventi diritto affisse nell’atrio del patronato fascista provinciale. Le avrebbero mai consegnato il dispaccio prefettizio con il nullaosta per la partenza? Avrebbe mai preso quel dannato treno con capolinea terra promessa di Sardegna?

    La risposta se la diede da solo: nessun ricongiungimento per chi si ammala due volte di seguito.

    Tolse il cappello flaccido di sudore; con il dorso della mano si asciugò la fronte. Alcune mosche grigie e nere, assetate di tutto, si insinuarono sotto i capelli. Giulio le scacciò con un movimento brusco. Perse l’equilibrio e cadde.

    Cadde di fianco. L’angoscia gli fu subito addosso. Portò le palme delle mani contro le orecchie. E il tumtum cessò. Trattenne il fiato. Allora provò ad allentare la pressione sui lobi. Piano piano, l’aria calda ritrovò la strada per le cavità auricolari e, puntuale, il ronzio riprese la sua nota stonata. Non sono io! Due gocce di sudore denso colarono dalla nuca dell’uomo. Non è febbre!

    Si alzò, tirandosi dietro la polvere bionda. Un sorriso sghembo gli illuminò il viso. Con il dorso della mano asciugò veloce una lacrima che si era nascosta nella ruga a fianco del naso. Girò la testa di qua e di là, sorridendo alla strada deserta.

    Gli pareva che il rumore ronzante facesse capolino da un punto indistinto di una muraglia verde di fichi d’india, al di là del canaletto d’irrigazione che correva a ridosso della 26 Est.

    Api! urlò, dando fiato a una fantasia tutta sua.

    Sarebbe stato davvero bello trovare uno sciame in bonifica, dove nessuno ha mai niente. Sai che fortuna avere delle api? Avanzò cauto, spostando la testa come un cacciatore. Il groviglio di spine e pale verdi gli impediva di vedere bene, ma Giulio sapeva di esserci quasi. Camminava guardingo, fantasticando su cose belle… Una volta trovato lo sciame, avrebbe segnato il posto con dei sassi. Li avrebbe sistemati sull’argine del rivo. In questo modo, non ci sarebbero stati problemi a riconoscere il posto. Sarebbe poi andato diritto da Marcello, l’amico compaesano che si era guadagnato i dodici ettari a mezzadria grazie ai quattro figli maschi sfornati a due a due dalla moglie triestina. Con lui avrebbe costruito un’arnia, usando le casse di legno della raccolta dell’uva bianca. Dopo, appena si fosse fatto buio, avrebbero intrappolato le api nella cassetta e nascoste all’Idrovora del Sassu, poco più in là della strada 30, l’ultima traversa camionabile del rettifilo, l’estremo confine nord del territorio della bonifica.

    Se ricordava bene, c’era un fosso tra l’idrovora e lo stagno di S’Ena Arrubia, che non veniva mai allagato. Avrebbero sistemato l’arnia, tenendola alzata con dei legni. Da quelle parti non c’era un gran via vai. C’erano solo i macchinisti dell’idrovora e gli operai, che però si facevano i fatti loro. Quelli, per tornare a casa, non passavano mai dal ponticello dello stagno, ma tornavano indietro, sul rettifilo. Perciò doveva fare esattamente così come la stava pensando. Primo: chiedere a Marcello delle assi per la base e poi tutto il resto. Se le api avessero gradito la sistemazione, in poche settimane la cassetta da uva si sarebbe riempita di celle e di miele. E a fine stagione loro due si sarebbero divisi un bel bottino.

    Quelli di Terralba avrebbero pagato bene per il miele fresco. Chissà se avrebbero accettato anche uno scambio con pecorino e carne di pecora. I sardi del Campidano erano sempre ben disposti a fare baratti quando si trattava di sgraffignare da sotto il naso al direttore e agli altri caporioni fascisti della Società Bonifiche Sarde. Dopotutto, se non si fossero messi di mezzo quelli di Roma e di Milano, con il duce in testa, quelle terre sarebbero state ancora loro. C’era la malaria, è vero, d’estate si crepava di caldo, d’inverno veniva giù acqua a cascate e portava via paesi interi. Qualche volta faceva sfracelli anche dai pescatori che stavano sugli stagni più grandi. Rimaneva però sempre casa loro. E se una casa è tua è tua, ed è chiaro che ti rode se te la portano via senza chiederti il permesso!

    Però che avessero ragione o no, a Giulio non importava. Mio, tuo o di chissà chi diavolo, l’importante era che accettassero lo scambio che aveva in mente.

    Con un po’ di fortuna, se avessero fatto le cose per bene, nessuno si sarebbe accorto dell’arnia nel fosso della 30. Al momento opportuno, lui e il suo amico Marcello avrebbero festeggiato a polenta, zucchero e pecorino. Avanzò di un altro passo.

    Il ronzio divenne più forte: era lì, da qualche parte. Non si riusciva a vedere ancora niente.

    Sbirciò nella trama degli aghi giallo avorio. Non si vedevano api. Lì intorno c’erano solo mosche a caccia di sudore e liquami. Fu proprio allora che notò la stranezza. Gli venne in mente infatti che i vecchi del suo paese gli avevano sempre detto che uno sciame non si forma a terra. Troppo rischioso per le api. Eppure, più prestava attenzione al rumore, più si convinceva che proveniva da sotto, dove nessuno sciame con un cervello, ammesso che uno sciame ne avesse uno, avrebbe scelto di stare. Non che lui fosse un grande esperto di miele. Eppure quel ronzio basso era davvero troppo poco da api. E poi c’era quella cosa della direzione: com’era possibile che nessun camparo si fosse ancora accorto dello sciame libero? Ai capoccia della bonifica non sfugge neanche il numero delle uova nei nidi dei fringuelli, figuriamoci uno sciame d’api!

    Giulio valutò che da quella parte non avrebbe mai visto un granché. Decise di fare il giro lungo. Doveva tornare indietro, passare sopra un ponticello di mattoni, più a sud, e rifarsi la strada al contrario, dall’altra parte del canale. Gli ci vollero tre minuti o poco più per arrivare al passaggio che portava a una casa colonica. La fattoria non era vicinissima e non si vedeva nessuno. Meglio. A pochi metri da dove era sicuro di trovare le sue api, quello che vide lo inchiodò dov’era.

    I giovani eucalipti, piantati dai bonificatori per diventare poderosi frangivento anti-maestrale, capaci persino di bonificare la terra succhiando l’eccesso di acqua salmastra, non furono pietosi come i fichi d’india. La piumosa cortina di foglie tremule, cullata dai soffi di scirocco, danzava come un velo e, tra una giravolta e un casquè, obbligò Giulio a guardare.

    Là sotto, distesi a terra, ci sono due gambe nude. Sono di una donna. È morta. Biancheggiano sopra i pantaloni di un uomo. Anche lui è a terra, immobile, morto. I corpi, avvinghiati nella rigidità di quella macabra messinscena, emergono da una massa scura, in lento movimento, disposta a macchie informi: è un ammasso gocciolante con bagliori di petrolio. Il ronzio si fa fortissimo.

    Con un gesto a scatto, Giulio alzò le mani come a difendersi dall’orrore. Fu allora che la massa buia esplose. Minuscoli corpi grigi e neri schizzarono in aria. L’orda di mosche carnarie arrivò addosso a Giulio con rabbia. I loro minuscoli corpi, striati di ombre, gli vorticarono attorno, indifferenti alla sua paura. Olezzavano di caldo e di morte. Indietreggiò, barcollando.

    Il ronzio si fece ruggito, il ruggito boato. Passato il primo istante di raccapriccio, afferrò il cappello per frustare l’aria e disperdere la bufera alata che lo avvolgeva da ogni parte. Gli insetti lievitano in aria qualche istante. Fu un attimo. E in quell’attimo, vide.

    Sotto il sudario di mosche c’erano due ragazzi uccisi, con occhi, bocca e gola spalancati. Su di loro Giulio individuò grosse manciate di riso. Ma, cristo santo, non era riso! Con il cuore aggrappato alle costole, lo spaccapietre riconobbe nei chicchi nuziali, pugni di larve biancastre. Dalle gole dei morti, i chicchi brulicanti si riversavano attorno, scivolando a terra in grossi grumi. Uno appresso a un altro, sciogliendosi, una volta a terra, in macchie di muco sul prato zuppo di sangue nero.

    Non c’è più nulla che l’uomo sulla 26 Est possa fare. Può solo fuggire. Così Giulio corse via, inseguito dal battito del suo cuore. E corse senza mai fermarsi fino al centro della bonifica, la grande piazza di Mussolinia, profumata di fieno e di polvere rovente. Era lunedì, 31 agosto 1931.

    2

    Lunedì 31 agosto 1931, pomeriggio

    Per quel mattino don Massimo aveva terminato i suoi doveri di parroco di Mussolinia.

    La prima messa si era guadagnata la solita tiepida affluenza di donne e di bambine.

    " Dominus benedicat vobis, aveva scandito il giovane prete alzando gli occhi al cielo, et ab omne malo defendat et perducat ad vitam æternam…"

    Il sacerdote, da quasi due anni al servizio della gente nel Campidano, sapeva che a quell’ora tutte le famiglie erano al lavoro nelle stalle per la mungitura o nei campi per la raccolta degli ortaggi. I suoi parrocchiani vivevano in Sardegna per far fruttare la terra strappata alle paludi. Se lo facevano bene, rigando dritto, un giorno quel ben di dio di campi bonificati dalle paludi sarebbe stato loro. A mezzadria, ma pur sempre loro. Per questo don Massimo li giustificava e li benediceva da lontano. Era certo che anche il Signore la pensasse allo stesso modo. Sarebbe andata meglio ai Vespri. Lo sperava sempre. E poi c’erano le domeniche: quelle erano l’unica consolazione per un prete di campagna.

    Con il pensiero alla massa dei suoi parrocchiani inginocchiati davanti alle mammelle delle vacche o dentro i fossi, don Massimo aveva congedato le quattro mattiniere con la solita benedizione. Il resto della mattinata l’aveva trascorsa in ospedale, tra le suore profumose di etere.

    Era quasi pomeriggio. Il sole picchiava sulla cittadina di Mussolinia. Don Massimo prima di tornare in canonica per il pranzo, che gli preparava la Bertilla, la vedova del Varzi, era solito fare un lento giro nella chiesa vuota, contando i passi: cinquanta di qua, settanta e rotti di là. In quei momenti di pace, ripensava spesso alla vita di prima, quando non aveva ancora intrapreso la strada del sacerdozio.

    Sì, lo so, si rimproverava, un prete dovrebbe dimenticare il prima e concentrarsi sul presente della missione apostolica. Glielo ripetevano in continuazione in seminario. Ma i trentadue anni del reverendo scalpitavano e bussavano rabbiosi alla porta dei ricordi. Lui, tollerante, li lasciava fare.

    Quel giorno, nella chiesa del Cristo Redentore, Massimo riandava a Venezia, la città della sua infanzia. Risentiva nelle orecchie il fiato grosso delle corse, su e giù da ponti e calli, per arrivare ad acchiappare in tempo il vaporetto delle otto. Rivedeva il baluginio dell’acqua al passaggio delle gondole. Sentiva l’odore pungente di orina di gatto che, nel tempo del carnevale, saliva lungo i muri, fino alle finestre di casa sua, annunciandogli la primavera.

    Non era pentito della vocazione. Tuttavia, a quei tempi, non poteva immaginare che appena ordinato prete, avrebbe dovuto rinunciare a tutto questo. Nel cuore ancora troppo giovane per gli addii, aveva sperato di rimanere a Venezia, tra le persone che conosceva da sempre. Invece il vento nuovo dei Patti Lateranensi aveva deciso diversamente. L’accordo Stato e Chiesa implicava che per ogni iniziativa, idea o proposta che il governo metteva in cantiere, anche la Chiesa ci avrebbe messo del suo. A favore, ovviamente. E tra le tante cose, c’era il sacrificio delle tonache più promettenti. Massimo non si era ancora abituato a farsi chiamare don, che di buon mattino gli era arrivato il dispaccio d’incarico della prefettura di Rovigo per la parrocchia sarda, vistato e approvato dal vescovo della sua città.

    Era destino: aveva l’età giusta. In più, era sano di corpo e veneto di pura razza: un dettaglio non da poco per quello che avevano in mente i piani alti di Roma. Era perfetto anche per gli uomini che da Milano tiravano le fila di quel progetto di risanamento e di ripopolamento della Sardegna che si chiamava Mussolinia. In meno di una settimana dal suo arrivo in terra di bonifica sarda, Massimo si era dovuto adattare alle distese grigie e polverose, che dal monte Arci si allargano a ventaglio fino alla costa. Poi i mesi si erano rincorsi velocemente, ma lui non si era ancora abituato al puzzo di letame in putrefazione e neppure al maestrale, che piegava rabbioso alberi e uomini. Era comunque bello ritrovare lì gli sguardi e la parlata delle famiglie venete.

    L’unico cruccio erano i sardi. Neppure la tonaca era riuscita a scalfire il loro rancore verso Mussolinia. Per gli uomini che avevano progettato la bonifica, quelle famiglie di gente sottomisura erano inidonee alla città nuova in costruzione. Per motivi che Massimo faceva fatica a comprendere, gli abitanti del Campidano erano tenuti lontano, ai margini dei nuovi poderi. Anzi, peggio: venivano lasciati vivere ammassati nelle casupole di pietre, legno e mattoni di Terralba, Uras e Marrubbiu. Guai se uno di loro osava transitare con le pecore su una delle strade della bonifica. I caporioni della Società Bonifiche Sarde avevano deciso che quelli dovevano vivere fuori. Al massimo gli si concedeva qualche corridoio di periferia per raggiungere i villaggi sardi di pescatori, che si affacciavano sullo Stagno di San Giovanni o sulla Laguna di Marceddì. Così, di mattina presto, li si poteva vedere sui carri, lungo la strada 3 o sulla parallela, la camminiera 2, al limite sud della terra della bonifica, diretti verso il piccolo porto di Marceddì. E questo era tutto ciò che gli era concesso sulla terra che un tempo era loro.

    Massimo accostò il massiccio portone della chiesa, che sbadigliava benevolo sulla piazza di Mussolinia intitolata a Re Vittorio Emanuele III. Non fece però in tempo a chiudere. Trasalì. Un uomo stava correndo nella piazza. Veniva avanti, verso la chiesa, urlando come un indemoniato. Correva, rantolava e urlava, tutto in una volta.

    Massimo ci mise un po’ a mettere a fuoco la figura che veniva avanti a rotta di collo. Ai lati della piazza, tra le zolle ancora fresche, gli agronomi intenti a realizzare con i fiori lo stemma sabaudo e le scritte Dux e Rex, si bloccarono, asciugando con il dorso della mano le lacrime di sudore incastrate tra le ciglia.

    Il reverendo conosceva appena Giulio, lo spaccapietre. Era uno degli operai che non avevano ancora ottenuto il benestare per il ricongiungimento familiare, e dunque non gli era ancora stato assegnato nessun podere. La malaria lo aveva crocefisso a letto per delle settimane e quel fuori programma aveva fatto slittare a tempo indeterminato la partenza della consorte da Rovigo. Questo è tutto quello che sapeva di lui. Aveva sentito dire che era un gran lavoratore, un uomo onesto. Lo vedeva rientrare la sera, impolverato e stanco. Qualche volta si fermava con gli amici nella sala del Dopolavoro, di fianco alla chiesa. Se incrociava il reverendo, lo salutava alzando il cappello.

    Schiacciato dal sole a picco del Campidano, quell’uomo adesso veniva avanti come una furia. Don Massimo balzò dai gradini dell’ingresso della chiesa e corse in suo aiuto. Anche il piantone, che stava al comando della Milizia per la Sicurezza Nazionale, uno degli edifici pubblici della piazza, si lanciò verso il fuggitivo. A una a una, le finestre delle case si spalancarono. I curiosi, sfidando le linguate della canicola, allungarono il collo per curiosare.

    Giulio rovinò a pochi metri dal sacerdote, piangendo e singhiozzando.

    Di quello strano momento, dopo ore passate a pensarci su, don Massimo aveva un ricordo ingarbugliato. La casa del potente di Mussolinia, il camerata direttore della bonifica, gli si parava davanti severa e, a modo suo, leggiadra.

    Liquidata l’ultima celebrazione della giornata con un frettoloso " ite missa est", Massimo aveva raggiunto la villa a grandi passi. Il direttore lo aveva cercato al telefono: lo voleva, subito. Gli aveva fatto sapere che serviva una benedizione urgente. Così don Massimo si era infilata sopra la tonaca una cotta candida, fresca di bucato. Le ampie maniche e il bordo, ornati di pizzo, ondeggiavano al vento caldo come i merletti di Burano, esposti nelle botteghe veneziane per indurre in tentazione le belle turiste. Prima di entrare nell’elegante vestibolo della casa su corso Littorio, che era il nome con cui tutti indicavano quel tratto di rettifilo che tagliava il centro del paese, Massimo scrutò la piazza vuota. Di Remo, il suo chierichetto claudicante, neppure l’ombra: eppure gli aveva ben detto di portare secchiello, acqua santa, aspersorio e stola nera!

    Al telefono il direttore, Igino Biasin, era stato laconico. A dire il vero non c’era bisogno che gli spiegasse nulla. Il tamtam della piazza aveva colmato la lacuna. Massimo sapeva già che il motivo della corsa dello spaccapietre Giulio era la morte di due ragazzi. Morte violenta, orribile: su questo nessuno aveva il benché minimo dubbio. Giulio li aveva trovati ricoperti da mosche e vermi, dalle parti della casa colonica della famiglia Varzi. Non quella della vedova Bertilla, ma un’altra: un nucleo familiare di Villa d’Adige. Sui nomi delle due vittime c’era ancora parecchia confusione. Girava voce che si trattasse di una questione di odio tra famiglie: una veneta, di fresco innesto in Sardegna, e una sarda, da sempre vissuta a Terralba, ma con alcune terre espropriate in bonifica.

    Facevano l’amore di nascosto, giuravano le pettegole.

    Volevano scappare per sposarsi, azzardavano altri linguacciuti.

    Ognuno ci ricamava sopra a piacere.

    Anche la curiosità di don Massimo era corsa avanti. Provava per quei due ragazzi tanta pena. Durante la breve esperienza di parroco, aveva dato l’estrema unzione a bambini nati morti, a vecchi consumati dagli anni e persino a un tale caduto dal tetto della casa in costruzione. A gente ammazzata no, non gli era ancora capitato! E adesso che il destino lo costringeva a fare i conti con questa realtà, si domandava come sarebbe stato trovarsi davanti a corpi martoriati dalla violenza. Sarebbe bastata l’acqua benedetta a pulire l’orrore?

    Fissò le scarpe impolverate; una leggera vertigine lo prese alla gola. Si appoggiò alla porta d’ingresso della villa, ma la testa gli continuava a beccheggiare. Si ricordò allora che quel mezzogiorno non aveva mandato giù niente. Persino la vedova Varzi, accorsa al trambusto del Giulio, aveva dimenticato sul tavolo della canonica la pignatta con il pranzo. Così le mosche avevano fatto festa grande. Conclusione: nello stomaco del giovane prete gorgogliava dolorosamente il sorso di vino trangugiato durante l’ultima messa e nient’altro.

    Provò a respirare a pieni polmoni. Un po’

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