Le indagini di Auguste Dupin
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Introduzione di Roberto Galofaro
Edizioni integrali
Con i tre racconti incentrati sul personaggio di Auguste Dupin, Edgar Allan Poe diede inizio alla storia del “giallo”. Per la prima volta nella letteratura, ne I delitti della Rue Morgue (uscito su una rivista di Philadelphia nell’aprile del 1841), il protagonista è un investigatore chiamato, con i soli mezzi della ragione, a scavare tra gli indizi per ricostruire passo dopo passo gli avvenimenti e incastrare il colpevole. È anche il primo e il più classico degli “enigmi della stanza chiusa”, nei quali, cioè, sembra impossibile stabilire come si sia consumato il delitto in una stanza chiusa dall’interno. Con Il mistero di Marie Rogêt (1842) e La lettera rubata (1844), pur in presenza di una morte violenta e di un furto compromettente, l’indagine prende le forme di un’avventura squisitamente intellettuale, destinata a suscitare nel lettore la sorpresa di una soluzione geniale, imprevista e incredibilmente a portata di mano, come in un gioco di prestigio.
«Le facoltà mentali che si definiscono analitiche non sono in se stesse molto facilmente analizzabili. Le possiamo apprezzare soltanto dai loro risultati. Quello che ne sappiamo è che per chi le possegga al massimo sono una delle più vive fonti di piacere.»
Edgar Allan Poe
Considerato il maggior rappresentante di un nuovo genere letterario, quello cosiddetto “del terrore”, nacque a Boston, nel 1809. Rimasto orfano a due anni fu allevato dalla famiglia dello zio, di cui volle assumere il cognome, Allan. Tra il 1815 e il 1820 soggiornò in Inghilterra, poi, di nuovo negli Stati Uniti, si iscrisse all’Accademia militare di West Point, ma venne espulso per la sua condotta dissoluta. Dopo un’esistenza difficile e sofferta, morì a Baltimora nel 1849. Di Edgar Allan Poe la Newton Compton ha pubblicato Il corvo e tutte le poesie; Le avventure di Gordon Pym; Tutti i racconti del mistero, dell’incubo e del terrore; Racconti fantastici e grotteschi; Le indagini di Auguste Dupin e il volume unico Tutti i racconti, le poesie e “Gordon Pym”.
Edgar Allan Poe
New York Times bestselling author Dan Ariely is the James B. Duke Professor of Behavioral Economics at Duke University, with appointments at the Fuqua School of Business, the Center for Cognitive Neuroscience, and the Department of Economics. He has also held a visiting professorship at MIT’s Media Lab. He has appeared on CNN and CNBC, and is a regular commentator on National Public Radio’s Marketplace. He lives in Durham, North Carolina, with his wife and two children.
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Le indagini di Auguste Dupin - Edgar Allan Poe
Introduzione
Letteratura a effetto
Se, come sembra, la letteratura investigativa nasce nel 1841 con I delitti della Rue Morgue ¹ di Edgar Allan Poe, è un fatto che nasca già adulta, con tutti i caratteri cioè che continueranno a contraddistinguerla fino ai giorni nostri, primo fra tutti la figura carismatica dell’acuto investigatore. Ma c’è di più: con la successiva pubblicazione di altre due storie incentrate su Dupin, Il mistero di Marie Rogêt e La lettera rubata ², il genere poliziesco nasce anche con il crisma della serialità, che sarà intramontabile.
Come molti sanno, solo in Italia si parla di gialli
, in seguito al successo della collana inaugurata da Mondadori del 1929 per il colore delle sue copertine. L’etichetta che Poe aveva dato a questo gruppo di racconti (che includeva anche Lo scarabeo d’oro, del quale diremo qualcosa più avanti) era invece quella di «tales of ratiocination», racconti di raziocinio o di analisi. E in effetti l’incipit dei Delitti della Rue Morgue è dedicato alla ragione ed è l’avvio di un godibile saggio sulla sottile differenza tra calcolo e analisi:
Le facoltà mentali che si definiscono analitiche non sono in se stesse molto facilmente analizzabili. Le possiamo apprezzare soltanto dai risultati. […] l’analitico coglie il suo momento di gloria in questa attività mentale la cui funzione è risolvere.
Si trattava dunque di creare un intreccio con l’intenzione di suscitare un effetto sorpresa nel lettore (e nel testo originale della frase citata, la parola utilizzata da Poe per «risultati» è proprio «effects»). Un effetto che parrà tanto più prodigioso quanto più la genialità dell’indagine sarà sfuggente all’analisi stessa: seppure supportata dall’estremo rigore del processo logico, la soluzione finale dovrà sembrare allo stesso tempo abbagliante come un gioco di prestigio. Addirittura, per citare l’autore, dovrà avere le «proporzioni del miracolo». L’emozione ricercata, dunque, deriva non dall’azione né dalla suspense (che qualche secolo dopo domineranno il thriller), quanto dall’efficace lavorio della mente investigativa.
Quasi un secolo e innumerevoli gialli dopo, S.S. Van Dine ribadirà questo principio base tra le famose venti regole per scrivere romanzi polizieschi: «Bisogna arrivare a smascherare il colpevole attraverso deduzioni logiche, non per coincidenze o per caso, o per una confessione non motivata» ³.
Nella celebre Filosofia della composizione ⁴, Poe descrive il processo di scrittura del Corvo, il poemetto che gli aveva dato notevole fama anche grazie alle sue ispirate letture pubbliche, e indica nella ricerca del tono e dell’effetto il fondamento della sua invenzione, tanto nei versi quanto in prosa. «Quanto a me, preferisco […] iniziare pensando subito a un effetto» ⁵, scrive, per poi precisare che:
Quel piacere che sia al tempo stesso il più intenso, il più esaltante e il più puro, lo si trova, io credo, nella contemplazione del bello. E in effetti quando gli uomini parlano di Bellezza, intendono, precisamente, non una qualità come spesso si suppone, ma un effetto […]. ⁶
La bellezza stessa è un effetto, dunque, ed è il fine della poesia (e della letteratura, dell’arte in generale). E poiché l’effetto è tanto più intenso quanto più è alta la concentrazione del lettore, Poe sottolinea anche la sua predilezione per le liriche che contano un numero limitato di versi rispetto ai poemi che vanno avanti per pagine e pagine, e per i racconti rispetto ai romanzi: solo la forma breve, infatti, consente in un’unica seduta di lettura di attraversare il mondo creato ad arte dall’autore e arrivare al dénoument, lo scioglimento, con il massimo di consapevolezza e di partecipazione. L’effetto della poesia sarebbe eccitare ed elevare l’anima, mentre è più agevole con la prosa conseguire un «obiettivo-Passione, o eccitamento del cuore», oppure, ciò che è il caso dei racconti di Dupin, un «obiettivo-Verità, o appagamento dell’intelletto». Per quest’ultimo è richiesta però una cristallina «precisione»: la stessa precisione che la soluzione dell’enigma richiede all’investigatore.
La Morgue, una suggestione
Per le tre storie raccolte in questo volume, Poe sceglie come ambientazione l’esotica Parigi (città-specchio di New York, come si vedrà leggendo la seconda delle indagini di Dupin) e chiama Rue Morgue la strada in cui sorge la triste dimora delle signore L’Espanaye, le vittime del primo caso che l’investigatore è chiamato a risolvere. Per formulare un’ipotesi che spieghi perché la scelta di questo nome non sia un innocente esotismo, è il caso di approfondire che cosa realmente fosse, intorno alla metà dell’Ottocento, la Morgue parigina.
Innanzitutto l’etimologia: il verbo del francese antico morguer dovrebbe significare «scrutare, interrogare con lo sguardo»: nella sua prima accezione la Morgue fu infatti il luogo del carcere in cui le guardie schedavano, esaminavano e verosimilmente interrogavano i detenuti prima di rinchiuderli nelle celle. Del 1734 è la prima attestazione di un deposito di cadaveri nei sotterranei della fortezza parigina del Grand Châtelet, cui è dato lo stesso nome di Morgue: è qui che, fino al 1804, avrà luogo l’identificazione dei cadaveri, soprattutto di quelli ripescati nella Senna e ricomposti, nudi, su tavoli di marmo, visibili attraverso una vetrata. Nel 1804 si inaugura uno spazio apposito al Marché-Neuf, in un edificio basso sulla riva del fiume, poi demolito, nel cuore dell’Île de la Cité, a due passi da Notre-Dame.
Qui accade qualcosa di inedito nella storia dell’umanità. Sì, l’istituzione aveva un fine caritatevole, ovvero permettere il riconoscimento e quindi dare una dignitosa sepoltura ai corpi non reclamati, consentendo l’accesso a chiunque volesse, turandosi il naso con le dita; eppure, ben presto, visitare la morte finì per diventare una moda.
In Thérèse Raquin (1867) Émile Zola descrive la Morgue soffermandosi sul rapporto morboso e grottesco che con i defunti esposti instaurano gli avventori, affascinati dalla vista dei cadaveri e tuttavia percorsi dal timore della propria stessa fine. È così per Laurent, l’assassino-protagonista, che vi si reca nella speranza che venga ripescato dal fiume il corpo del marito di Thérèse, e che si ritrova turbato dalle carni gonfie e molli, e però anche sedotto dalla pelle e dai seni esposti di una bella fanciulla impiccatasi per amore. Ma non solo, Zola ci dice anche che:
L’obitorio è uno spettacolo alla portata di tutte le borse, che possono permettersi i passanti ricchi e quelli poveri. La porta è aperta, entra chi vuole. Ci sono certi amatori che allungano il proprio tragitto pur di non mancare a una di queste rappresentazioni della morte. Quando le lastre sono nude, la gente esce delusa, quasi defraudata, borbottando tra i denti. Quando al contrario le lastre sono ben fornite, quando c’è una bella mostra di carne umana, i visitatori si accalcano, si concedono qualche emozione a buon mercato, si spaventano, scherzano, applaudono o fischiano, come a teatro, e si ritirano soddisfatti, dichiarando che quel giorno l’obitorio «è stato all’altezza». ⁷
Lungi dall’essere un luogo sordido, la Morgue era enormemente frequentata: quando vi si poteva trovare un cadavere al centro di un caso che occupava le prime pagine dei giornali, vi accorrevano anche quattrocento persone al giorno, fino a contare, come riporterà «L’Eclair» del 29 agosto 1892, la cifra incredibile di un milione di visitatori all’anno ⁸. Non solo: quando la funzione di pubblica utilità fu decisamente soppiantata dalla curiosità di vedere del pubblico, lo Stato francese istituì un biglietto, creando anche una scenografica cortina di tende, quasi un sipario, davanti alla vetrata che separava i vivi dai morti.
Era inevitabile che il notturno, il cimiteriale Poe subisse la fascinazione di un’istituzione che aveva la sua cifra distintiva nell’ostensione della morte – con la sua grottesca materialità e la sua poetica evidenza. Inoltre, Poe aveva sicuramente letto almeno due articoli sulla Morgue parigina pubblicati nell’ottobre e novembre del 1838 sul «Saturday News» – lo stesso giornale dalle cui pagine aveva forse tratto l’ispirazione per il colpevole
dei primi delitti di cui si occupa Dupin ⁹.
La fittizia Rue Morgue appare perciò un’azzeccata suggestione per lo scenario delle indagini e delle deduzioni dell’investigatore, poiché l’obitorio è il luogo in cui attivamente si interroga la decomposizione. Non è il luogo dell’elegia, della malinconia e del lamento (che ritroviamo invece nel Corvo), ma il luogo in cui, per mezzo di un’osservazione attenta, la ragione scova gli indizi, riconosce l’identità del defunto, individua le circostanze del delitto, formula ipotesi sull’assassinio.
Il pubblico odierno è ormai in confidenza da decenni con la figura dell’anatomopatologo, protagonista o co-protagonista di romanzi, film e serie
TV
: il professionista del decadimento, capace, con il cinismo del clinico, di ricostruire gli eventi ex post, dove quel post è l’estrema dipartita. A volte connotato da un’ironia che sconfina nel grottesco, a volte da un’ingenuità che ne conserva i buoni sentimenti, questa sorta di Caronte delle salme verso la verità della fine è diventato un elemento non trascurabile di ogni racconto delittuoso che si rispetti. E ciò è accaduto perché le funzioni di analisi degli eventi e di analisi del corpo della vittima si sono distinte, negli anni. Ma se facciamo un passo indietro e torniamo al nostro Dupin, lo troveremo intento sul capo mozzato di Madame L’Espanaye con la perizia di uno specialista di anatomia patologica. E con la stessa perizia seguiremo i suoi ragionamenti sulla «base logica» dell’affioramento dei corpi degli annegati, nel Mistero di Marie Rogêt.
L’investigatore come mentalista
Il narratore e Dupin passeggiano insieme. Dopo quindici minuti di camminata silenziosa, con la sua prima battuta (geniale, ma in effetti non memorabile) Dupin interviene nei pensieri dell’amico. Si inserisce, cioè, con un commento, in quello che fino ad allora era stato il dialogo interiore dell’amico. Il quale dapprima risponde, senza rifletterci, e poi, colto di sorpresa dall’assurdità della situazione, chiede come sia potuta accadere questa cosa che va al di là della sua comprensione.
Monsieur C. Auguste Dupin, discendente di un’illustre famiglia ma ridotto in povertà, colto e riservato amante della notte, ha pronunciato quella frase con la perizia di un mentalista e con i tempi del prestigiatore, mostrando poi con quale semplicità abbia ricostruito la muta catena dei pensieri grazie all’osservazione delle espressioni, alla connessione dei ricordi, alla conoscenza intima del suo interlocutore.
E qui non possiamo fare a meno di ricordare quanto la definizione che Poe dà di Dupin: «molti uomini avevano per lui una finestra spalancata sul cuore» corrisponda alla descrizione che di Poe diede quello che forse fu il suo primo amore, Mary Devereaux: «Quando ti guardava era come se leggesse i tuoi pensieri più riposti» ¹⁰.
Questa capacità di penetrare e di immedesimarsi nel pensiero di qualcun altro è essenziale al lavoro del buon investigatore: sciogliere un enigma ingarbugliato, così come un delitto inspiegabile, richiede esattamente lo stesso tipo di destrezza immaginativa (ma, per citare ancora dalla Rue Morgue: «L’uomo veramente dotato di immaginazione non è altro che un analista»).
Nella sua efficace semplicità, riproducendo in piccolo l’effetto sorpresa che attende il lettore a conclusione dell’indagine, questa prima scena in cui vediamo agire Dupin costituisce un esempio destinato a restare e a fare la fortuna di imitatori ed epigoni.
Quasi mezzo secolo dopo, sir Arthur Conan Doyle, altro grande capostipite della letteratura investigativa nonché già vittima della serialità compulsiva, farà dire a Sherlock Holmes, al suo esordio (Uno studio in rosso, 1887):
«[…] Dupin era tutt’altro che un genio. Quel suo stratagemma di interporsi nei pensieri dei suoi amici con un qualche commento ad hoc dopo un quarto d’ora di silenzio, in realtà è molto plateale e superficiale. Innegabilmente possedeva un geniale senso analitico, ma non era certo quel fenomeno che Poe vuole far apparire». ¹¹
Tuttavia, e questo basta a dare un senso della irresistibile portata dell’invenzione di Poe, un racconto di Doyle di qualche anno dopo, L’avventura degli omini danzanti ¹², si apre proprio con una replica della stessa scena, soltanto con un’esagerazione iperbolica dell’intervallo analitico coperto dalle speculazioni di Holmes (il corsivo è mio):
Già da qualche ora Holmes sedeva in silenzio con la schiena curva su un contenitore chimico nel quale stava manipolando una sostanza particolarmente maleodorante. Teneva il capo chino sul petto e, ai miei occhi, appariva simile a uno strano uccello allampanato, col piumaggio di un grigio smorto e una cresta nera.
«Allora, Watson», disse all’improvviso, «ha dunque deciso di non investire nei titoli sudafricani?».
Ebbi un moto di sorpresa. Anche avvezzo com’ero alle peculiari facoltà di Holmes, quella subitanea intrusione nei miei pensieri più reconditi era del tutto inspiegabile.
«Come diamine fa a saperlo?», chiesi. ¹³
È più che evidente, in questa scena, come l’investigatore inglese fosse incline tanto quanto Dupin al «diletto» di esercitare, anzi: di ostentare l’abilità analitica.
Ma il debito di Conan Doyle nei confronti di Poe non finisce qui, perché gli omini danzanti che danno il titolo al racconto non sono altro che dei segni cifrati, utilizzati in alcuni messaggi che il tenace Holmes riuscirà a decifrare; e l’altro celebre racconto di analisi di Poe, Lo scarabeo d’oro ¹⁴, ha per argomento proprio la decifrazione delle indicazioni che condurranno il protagonista, William Legrand, fino a un misterioso tesoro. Tanto l’americano quanto l’inglese indugiano, nei rispettivi racconti, nella spiegazione dei princìpi base della decrittazione.
Eppure,