Confronti antropologici: Scienza, epistemologia e pratica buddhista
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E appunto partendo da Varela, dalla sua Neurofenomenologia (e dai suoi potenziali rapporti con l’Antropologia neo-esistenziale), l’Autore prende le mosse per dare forma ad un “dialogo interiore”, attraverso cui chiarisce progressivamente a se stesso quanto negli anni ha maturato circa il rapporto tra antropologia, epistemologia, scienza occidentale e pratica buddhista.
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Anteprima del libro
Confronti antropologici - Ferdinando Brancaleone
Direttore
Ferdinando Brancaleone
Centro Ricerche Noetiche ‒ CRN
Responsabile del coordinamento
Valentina Tettamanti
Centro Ricerche Noetiche ‒ CRN
Comitato scientifico
Gianfranco BuFFardi
Istituto Italiano di Scienze Umane ed Esistenziali ‒ ISUE
Fabio Gabrielli
School of Management ‒ Università LUM Jean Monnet
Pietro Grassi
ISSR all’Apollinare ‒ Pontificia Università della Santa Croce ‒ Roma
Antonio Gioacchino Spagnolo
Università Cattolica del Sacro Cuore
Comitato editoriale
Lisa De Luca
Centro Ricerche Noetiche ‒ CRN
Francesca Guercio
Centro Ricerche Noetiche ‒ CRN
Valeria Salsi
Centro Ricerche Noetiche ‒ CRN
NOETICAMENTE
ANTROPOLOGIANEO–ESISTENZIALE
logo testacitazioneNoeticaMente
, collana curata dal Centro Ricerche Noetiche (CRN), promuove materiale afferente all’ambito dell’antropologia neo–esistenziale; orientamento, quest’ultimo, che considera l’uomo come Singolo
(quindi come essere unico e irripetibile) e, al tempo stesso, come parte di un Tutto
, con il quale è costantemente interconnesso. Lo studio della natura umana, quindi, non può prescindere dallo studio dell’ambiente in cui l’uomo vive e con il quale ha un legame inscindibile. Ambiente nel quale il Singolo
si trova, inevitabilmente, in relazione (oltre che con il Mondo
) con l’Altro
. Emerge quindi l’importanza di uno studio dell’uomo capace di coglierne la pluridimensionalità, schematizzabile nelle tre dimensioni di soma
, psiche
e nous
.
I più recenti studi in ambito antropologico neo–esistenziale mostrano la necessità di mantenere una prospettiva multidisciplinare che possa avvalersi, in uguale misura, del contributo delle discipline umanistiche e di quelle scientifiche per sviluppare una visione meta–disciplinare
, capace di moltiplicare i punti di vista sull’uomo, evitando la settorializzazione e la staticità a cui essa può portare.
È da sottolineare, in tale ambito di considerazioni, l’importanza della dimensione noetica
dell’esistenza: essa rappresenta la caratteristica distintiva dell’uomo, quel quid in più che lo differenzia da ogni altro essere vivente.
L’approccio neo–esistenziale ha visto inoltre la sua applicazione nei diversi ambiti delle professioni di aiuto, per i quali sono stati sviluppati strumenti in linea con i principi di tale approccio.
logo bussola2© 2023 All rights reserved
ISBN 979-12-5474-362-1
roma settembre 2023
Ferdinando Brancaleone
Confronti antropologici
Scienza, epistemologia e pratica buddhista
logo bussolaSommario
Introduzione 9
Capitolo I 13
Colloquio introduttivo 13
Capitolo II 17
Gli Abhidharma 17
Capitolo III 23
La Mente 23
Capitolo IV 31
La Consapevolezza 31
Capitolo V 35
Fattori mentali 35
Capitolo VI 42
Funzioni cognitive 42
Capitolo VII 49
Funzioni affettive
ed emozioni
49
Capitolo VIII 56
I rimedi
56
Capitolo IX 64
Emozioni
a confronto 64
(Occidente versus Oriente) 64
Capitolo X 72
Riflessioni e Confronti 72
Capitolo XI 96
Ulteriori confronti: scienza e pratica buddhista 96
Capitolo XII 106
Implicazioni e integrazioni 106
Capitolo XIII 112
Interrogativi 112
Capitolo XIV 143
Prospettive in prima persona
143
Capitolo XV 155
Conclusioni: conoscenza e valori 155
Addendum 161
Dalla Neurofenomenologia 161
alla Neuro-Noetica 161
Ferdinando Brancaleone
Introduzione
Un giorno, come spesso mi è capitato in passato, ho avvertito l’impulso ed il bisogno di prendere un Volume dalla mia libreria e di cominciare a rileggerlo.
È una strana sensazione! Difficile da esprimere, ma intensa e pervadente. Come se in quel momento sentissi
nel profondo che qualcosa è maturato in me. Che ormai (e finalmente!) sono pronto. Posso procedere oltre
, attraverso la ri-lettura. Oltre ciò che ho già acquisito ed assimilato in passato.
Il libro (nell’edizione originale: The Dalai Lama at MIT) in italiano aveva come titolo Il Buddha in laboratorio: dialoghi fra il Dalai Lama e la scienza sulla natura della mente
. In sostanza, il testo contiene il resoconto di un incontro organizzato dall’Istituto Mind and Life presso l’Auditorium Kresge, nel campus del Massachusetts Institute of Technologies (MIT), dal titolo Indagare la mente.
Riprendendolo e cominciando a rileggerlo, mi è tornato alla mente un saggio del filosofo francese François Jullien, dal titolo Une seconde vie¹. Ricordo bene la dedica che Jullien volle porre al suo volume: "A chi sa leggere una seconda volta". Mi lasciò sorpreso, quella dedica. Incuriosito e sorpreso!
Le dediche
, di norma, tendo a considerarle poco (quasi un sovrappiù
). Ma quella dedica (non so perché) aveva attirato subito la mia attenzione. Mi piaceva!
A livello subliminale, quelle parole (… leggere una seconda volta) ricordo che accompagnavano la mia lettura del libro di Jullien, fino a quando, al nono capitolo, mi hanno fulminato
. Finalmente ne avevo inteso e compreso (più compiutamente) il senso. Fulminante e illuminante!
Rilettura, ripresa, re-impegno, questo il titolo del nono capitolo, attraverso la cui lettura rammento che ebbi modo di percepire ed assaporare il succo di un pensiero (profondo), con cui sentivo di vibrare in sintonia: la ri-lettura
di un testo come metafora di una ri-presa
della propria esistenza, in un re-impegno
esistentivo, per cominciare a esistere per davvero.
La Ri-lettura
.
«Quando si legge per la prima volta si resta appesi al filo di ciò che si sta leggendo»: queste le parole con cui Jullien dava inizio al capitolo.
Durante la prima-lettura prevale (di norma) la curiosità di sapere come va a finire
. Si è spinti a voltare pagina
, in attesa di un ‘dopo’ che conduce più lontano
. In questo senso, la prima-lettura è prospettiva ed esplorativa
. Al piacere della scoperta
non corrisponde ancora la capacità di misurare
(dare misura e spessore) a ciò che si viene a scoprire
.
Che cosa tende ad accadere, invece, in occasione di una ri-lettura o seconda lettura
?
Nel silenzio
del tempo trascorso dopo la prima-lettura, che cosa è decantato, che cosa si è riconfigurato? Quali desideri
, mancanze
, oblii
, attese
, hanno (sub-liminalmente) sollecitato la ri-presa
di quel testo (la sua ri-lettura)?
In altre parole, che cosa si è capitalizzato
e ramificato
dentro di me (e … a mia insaputa!), in maniera tale che adesso io vi ri-cerchi qualcosa di più (più-preciso, più- pregnante, più-valido, più-nuovo)?
Se sento il bisogno di (e la spinta a) ri-leggere, molto probabilmente è perché è emerso dal profondo un interesse
, in quanto, come afferma Jullien, "… la ri-lettura non è una ripetizione, non riproduce la prima lettura, non la duplica ma la dispiega". L’attenzione è stata ri-destata! Al punto tale che, ri-leggendo, posso avere la sensazione (strana ed esaltante) di leggere-per-la-prima-volta.
D’altronde, non essendo più pressata dall’esigenza di voltare pagina
, la ri-lettura non risulta più proiettata-in-avanti (come lo era, invece, la prima-lettura). Non risulta più connessa alla (e gravata dalla) esigenza di conoscere quanto segue o dall’interrogativo sul come andrà a finire?
.
In realtà, quando è veramente tale, la seconda-lettura
non è (più) impaziente, quanto piuttosto assaporante
. In tal modo, molto spesso dettagli (minimi e, prima, neanche notati) risaltano, si precisano, assumono rilievo e spessore.
D’altra parte, come afferma Jullien, «… è solo quando ritorno, che emerge un interesse».
Ri-leggendo, quindi, si è portati ad interrogare
in maniera maggiormente attiva, profonda, pregnante. Perciò, se la prima-lettura risulta assimilativa
(riconducendo il testo al conosciuto, per poterlo com-prendere), la ri-lettura si dispiega e guadagna in radicalità
e novità
, in quanto attraverso essa ha luogo uno sprigionamento (termine molto caro
a Jullien), frutto ed espressione di un’acquisita lucidità (altro termine a lui particolarmente caro). Appunto attraverso la decantazione
della lettura-precedente, una acquisita lucidità permette di accedere meglio al profondo
e di lasciare sprigionare più compiutamente la ricchezza
(e, nel contempo, la singolarità
) del testo ri-letto, attraverso il miracolo della sintonia tra chi legge e chi quel testo ha scritto.
Ed è appunto il miracolo della sintonia
che ho avvertito nel mio intimo alla ri-lettura de "Il Buddha in laboratorio", curato da Anne Harrington (storica della scienza, specializzata in neuroscienze) e Arthur Zajonc (docente di fisica e ricercatore presso il Max Planck Institute).
I due curatori del testo hanno riportato, commentato e approfondito quanto emerso durante l’undicesimo incontro scientifico interculturale, tenuto nel settembre del 2003 a Cambridge nel Massachusetts e organizzato dal Mind and Life Institute (ad oggi sono ben 34 gli incontri organizzati annualmente dall’Istituto; essi vanno sotto il nome di Dialoghi di Mind and Life).
L’incontro verteva esplicitamente sulle idee del neuro-scienziato Francisco Varela e sul suo intento metodologico ed epistemologico di orientare le scienze della mente
e le neuroscienze verso nuovi e più radicali
orizzonti. E proprio di Varela, della sua Neurofenomenologia (e dei suoi potenziali rapporti con l’Antropologia neo-esistenziale) mi stavo interessando quando (per caso
!?) ho individuato nella mia libreria quel volume (di cui ricordavo veramente molto poco) ed ho sentito (per sincronia
, direbbe Jung) l’impulso a ri-leggerlo dopo alcuni anni dalla mia precedente prima-lettura.
Da tale ri-lettura è scaturita prima di tutto la stesura dell’articolo posto in appendice al presente volume, e poi l’ulteriore necessità
di dare forma ad un dialogo interiore
, attraverso cui chiarire a me stesso quanto negli anni avevo maturato circa il rapporto tra antropologia, epistemologia, scienza occidentale e pratica buddhista.
Ed appunto la forma
del dialogo mi è parsa quella maggiormente idonea a rappresentare quanto avevo in animo di chiarire a me stesso e, quindi, di proporre a chi desidererà leggere quanto è emerso dalle mie riflessioni e considerazioni. Dialogo fra due parti
di me (Roberto Assagioli le avrebbe denominate sub-personalità), che, se pur differenti e talora anche in contrasto, hanno trovato una composizione
, una integrazione
ed un accordo
, a mano a mano che procedevo nella stesura di questo libro, che affido alla stampa e che (mi auguro) possa essere di una qualche utilità a chi vorrà leggerlo e (perché no?) ri-leggerlo.
La mia, in conclusione, non vuole essere se non una testimonianza
.
Testimoniare ciò che per me ha assunto il significato e la pregnanza di una Existenz-Erhellung (rischiaramento dell’esistenza
), che Karl Jaspers poneva a fondamento di ogni autentico esistere, per un progressivo rilancio-della-vita e possibilità di una continua seconda-vita, verso un Orizzonte ed un Oltre, che possa offrire un senso a questa dimensione dell’esistenza, che (spesso… forse troppo spesso) un senso sembra non avere.
… Per potere una mattina, finalmente, quando scosto la tenda dalla finestra … cominciare a vedere levarsi, dal fondo della notte, ciò che può essere un mattino. Un mattino in più
, ma che emerge dal mondo, pur procedendo dal mondo, tale come non l’avevo mai visto… (François Jullien).
1. F. Jullien, Une seconde vie, Edition Grasset &Fasquelle, 2017, ed. it. Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero, Feltrinelli, Milano 2017.
Capitolo I
Colloquio introduttivo
Spesso si dà per scontato che il buddhismo miri essenzialmente allo sviluppo di ‘stati mentali sani’ (come la compassione e l’equanimità) e alla liberazione della mente dagli ‘stati mentali negativi’ (come la rabbia e l’agitazione). Sembra, dunque, ragionevole supporre che tale tradizione abbia sviluppato una notevole e ricca gamma di metodi concernenti la sfera emotivo-affettiva. Che cosa ci permette di dare per scontato tutto ciò? Che ne pensi in proposito? Penso di poterti rispondere, accennando ad alcune concezioni circa la sfera
emotivo-affettiva, senza dare per scontato che sia semplice o facile tradurre i termini dell’epistemologia buddhista nel lessico abituale della cultura occidentale, concernente l’argomento relativo alla mente
e agli stati mentali
.
Ecco! Desidererei da parte tua una chiarificazione preliminare del concetto buddhista di mente
(in generale), per esporne poi l’eventuale attinenza col campo affettivo-emotivo
. Bene. Delineerò alcune preliminari posizioni della psico-epistemologia
buddhista circa la mente. Premetto che mi rifarò (in maniera particolarmente specifica) agli Abhidharma, un ricco corpo testuale che raccoglie delle tipologie mentali
, di cui mi propongo di mettere in risalto l’eventuale pertinenza
rispetto alla moderna conoscenza psico-antropologica, relativa alla sfera emotiva.
È appunto ciò che desidero! Chiarire con te, più che il livello empirico-applicativo delle metodologie buddhiste, il metodo filosofico
e la corrispondente epistemologia
sottesa alla pratica buddhista. Mi focalizzerò sull’analisi dei concetti buddhisti, che mi sforzerò di presentare attraverso l’uso di termini che sono loro propri (per quanto possibile), senza dare per scontata la (pretesa) validità incondizionata delle prospettive scientifiche e filosofiche moderne. Credo proprio che sia importante prendere sul serio le idee che il buddhismo (nel corso dei secoli) ha sviluppato circa la mente, per quanto aliene
esse possano sembrare (almeno inizialmente) rispetto alla mentalità scientifica occidentale e ai suoi presupposti epistemologici.
Bene! Inizio con una domanda secca ed esplicita: Che idea si sono fatti i buddhisti sulle emozioni? Ok. Comincerò con una doccia fredda
! Nel buddhismo non c’è nessun concetto di emozione
, nel senso proprio del temine. Dicendo ciò, non è affatto mia intenzione affermare che la visuale buddhista
non abbia considerato nell’uomo il livello affettivo
. Intendo sostenere, però, che il concetto di emozione
(così come è conosciuto e considerato in occidente) non svolge alcun ruolo (specifico e diretto) nella epistemologia
buddhista e nelle dissertazioni sulla mente del buddhismo tradizionale. In realtà nel vocabolario buddhista
non risulta presente neanche un termine che corrisponda alla comune (per gli occidentali) nozione di emozione.
Intendi dire, quindi, che il nostro concetto di emozione
, di per sé, non sarebbe neppure riconosciuto? Certo, se così fosse, ne sarei molto sorpreso! Il concetto di emozione
, a noi occidentali e nella nostra ’psicologia’, sembra talmente lapalissiano ed evidente da essere dato assolutamente per scontato ed essere considerato fondamentale nel consueto
modo di concepire noi stessi. In altri termini, di norma possiamo immaginare persone (o culture) che non hanno il nostro stesso vocabolario emozionale
, ma è veramente difficile concepire persone (o culture) che non capiscono
e concepiscono
un concetto talmente fondamentale, come quello di emozione
. Eppure, per quanto possa apparire strano, questo è proprio il caso del buddhismo! Nei testi buddhisti tradizionali (indiani e tibetani) pare proprio non esserci alcun termine che si avvicini al concetto occidentale di emozione
.
Questa assenza
mi risulta sorprendente e … affascinante!
Mi induce a pensare che l’idea di emozione
, che pare così immediata e lampante, in realtà non lo è affatto. Sto pensando, in questa prospettiva, che concetti mentali (persino quello talmente ovvio
, come quello di emozione
) non sono dotati (per così dire) di una esistenza indipendente, ma esistono (ed assumono un senso) solo entro i confini di una determinata tipologia mentale e culturale
. Sto considerando in questo momento l’importanza dell’influsso che, nella cultura