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Avventura
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E-book272 pagine4 ore

Avventura

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Info su questo ebook

David Sheldon, un inglese, è titolare della piantagione di Berande, che si trova sull’isola di Guadalcanal nelle Isole Salomone. Vive da solo nella sua tenuta, e regna su uno staff di centinaia di isolani tecnicamente sotto contratto, ma a tutti gli effetti trattati come schiavi. Sheldon li governa con pugno di ferro, li punisce con frusta e pistola. I nativi, a loro volta, tentano continuamente di derubare e uccidere il loro padrone bianco. In questo mondo triste e pericoloso compare Joan Lackland, una coraggiosa donna americana che è naufragata al largo della costa di Berande. Joan naviga per i mari del Sud in cerca di fortuna, con la speranza di vivere sempre nuove avventure. Sheldon, un gentiluomo tradizionalista, non ha alcuna idea di come affrontare questa moderna donna emancipata, il cui arrivo a Berande trasforma la vita dell’uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ago 2021
ISBN9788892966642
Avventura
Autore

Jack London

Jack London (1876-1916) was an American novelist and journalist. Born in San Francisco to Florence Wellman, a spiritualist, and William Chaney, an astrologer, London was raised by his mother and her husband, John London, in Oakland. An intelligent boy, Jack went on to study at the University of California, Berkeley before leaving school to join the Klondike Gold Rush. His experiences in the Klondike—hard labor, life in a hostile environment, and bouts of scurvy—both shaped his sociopolitical outlook and served as powerful material for such works as “To Build a Fire” (1902), The Call of the Wild (1903), and White Fang (1906). When he returned to Oakland, London embarked on a career as a professional writer, finding success with novels and short fiction. In 1904, London worked as a war correspondent covering the Russo-Japanese War and was arrested several times by Japanese authorities. Upon returning to California, he joined the famous Bohemian Club, befriending such members as Ambrose Bierce and John Muir. London married Charmian Kittredge in 1905, the same year he purchased the thousand-acre Beauty Ranch in Sonoma County, California. London, who suffered from numerous illnesses throughout his life, died on his ranch at the age of 40. A lifelong advocate for socialism and animal rights, London is recognized as a pioneer of science fiction and an important figure in twentieth century American literature.

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    Anteprima del libro

    Avventura - Jack London

    GEMME

    frontespizio

    Jack London

    Avventura

    Titolo originale dell’opera:

    Adventure

    ISBN 978-88-9296-664-2

    Traduzione: Andrea Cariello

    © 2014 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Noi siam quei folli che non trovavano pace

    Nell’ottusa terra che abbiamo lasciato,

    Perché ardevamo di passione per l’Ovest

    E ci abbeveravamo della furia del suo vento.

    Il mondo in cui i saggi vivono tra gli agi

    Scolorisce dinanzi ai nostri occhi indolenti,

    Così navighiamo ciechi per mari sconosciuti,

    Portando avanti la nostra impresa

    The Ship of Fools

    I

    qualcosa da fare

    L’uomo bianco era molto malato. Stava in groppa a un selvaggio dalla pelle nera e la testa tanto riccia da sembrare coperta di lana, con i lobi delle orecchie forati e tesi a tal punto che uno si era strappato e l’altro era infilzato da un pezzo di legno intagliato di almeno sette centimetri di diametro. L’orecchio strappato era stato forato di nuovo, ma stavolta in modo meno pretenzioso, perché il buco ospitava semplicemente una corta pipetta di argilla. L’uomo-cavallo era viscido, sudicio e quasi completamente nudo, perché indossava solo il misero perizoma tipico di quelle parti. Nonostante ciò il bianco si aggrappava a lui, stretto e disperato. Ogni tanto, per via della debolezza, la testa gli cascava per riposare su quella zucca lanosa; altre volte sollevava il capo e fissava con occhi sbalorditi le palme da cocco che oscillavano e ondeggiavano in quel calore tremolante. Era coperto da una magliettina sottile e una fascia di cotone avvolta intorno ai fianchi che gli arrivava fino alle ginocchia. In testa aveva un cappello, uno Stetson, conosciuto in commercio con il nome di Baden-Powell; in vita portava un cinturone con una pistola semiautomatica di grosso calibro, carica e pronta a sparare, e diverse cartucce di riserva.

    Dietro di loro c’era un ragazzino nero di quattordici o quindici anni che trasportava flaconi di medicine, un secchio d’acqua calda e vari altri oggetti da infermeria. I tre uscirono dalla zona recintata attraverso un cancelletto più isolato e proseguirono sotto il sole torrido zigzagando tra giovani piante di cocco che non offrivano ombra. Non c’era un alito di vento e l’aria cocente e stagnante era carica di esalazioni pestilenziali. Dalla direzione in cui stavano procedendo si levò un baccano selvaggio, come di anime perse ululanti e uomini sofferenti. Davanti a loro apparve una baracca lunga e bassa, pareti e tetto erano stati ricavati con erba e canne: era da lì che proveniva il clamore. Si udivano grida, urli, alcuni chiaramente di disperazione, altri senza dubbio di insopportabile dolore. A mano a mano che si avvicinava, il bianco poté sentire un lamento, un gemito, sommesso e incessante. Rabbrividì al pensiero di entrare lì dentro e, per un istante, sentì che stava per svenire. Il motivo era semplice: la piaga più tremenda delle isole Salomone, la dissenteria, aveva colpito la piantagione di Berande, e gli toccava fronteggiarla da solo. Come se non bastasse, l’aveva contratta anche lui.

    La porta d’ingresso era bassa, quindi, sempre in groppa a quel tizio, si dovette curvare per riuscire a entrare. Prese una boccettina dal nero che lo seguiva e diede una bella sniffata di ammoniaca, che gli fece riprendere i sensi messi a dura prova. Poi gridò: «Silenzio!» e il clamore si placò. Sollevata da terra c’era una piattaforma di assi, larga un paio di metri e leggermente inclinata, che si estendeva per tutta la lunghezza della baracca; tra quella e la parete c’era un passaggio largo un metro. Allungati sulla piattaforma, ammassati uno accanto all’altro, c’erano un bel po’ di neri. Che fossero in basso nella scala dell’evoluzione umana era palese, si trattava di cannibali: avevano i visi asimmetrici e bestiali, i corpi sgradevoli e scimmieschi. Al naso portavano anelli ricavati da gusci di molluschi e carapaci di tartaruga e sulla punta, anch’essa forata, sporgevano corni di perline infilzate dal fil di ferro. I fori alle orecchie erano allargati in modo da ospitare tasselli e bastoncini, pipette e ogni specie di monili selvaggi. Volti e corpi erano tatuati e segnati da spaventosi disegni. Erano malati e non indossavano vestiti, nemmeno perizomi, eppure tenevano i loro bracciali di conchiglia, le collane di perline e le cinture di cuoio alle quali erano infilati, a contatto con la pelle, coltelli di lama nuda. Molti di loro avevano il corpo pieno di orribili piaghe. Nuvole di mosche si sollevavano e vi si posavano sopra, oppure volavano avanti e indietro.

    Il bianco percorse la fila, somministrando a ognuno una medicina. A qualcuno diede del Chlorodyne¹. Dovette concentrarsi con tutte le sue forze per ricordare chi di loro potesse sopportare l’ipecacuana e chi non riuscisse per costituzione a tollerare quel potente farmaco. Uno era morto e l’uomo bianco ordinò che fosse portato fuori. Parlava con il tono aspro e perentorio di chi non avrebbe tollerato esitazioni, ma gli uomini in buone condizioni che eseguivano i suoi ordini assunsero un’espressione accigliata e minacciosa. Uno di loro, prendendo il corpo per i piedi, borbottò qualcosa tra sé e sé. Allora il bianco esplose a parole e con i fatti. Sebbene gli costò un enorme sforzo, allungò il braccio e sferrò un manrovescio sulla bocca del nero.

    «Che cavolo fai, Angara?» urlò. «Perché tu parli, eh? Guarda che te le suono forte veramente!»

    Con la rapidità automatica di un animale selvatico il nero si preparò al balzo. Negli occhi aveva la rabbia di una fiera pronta a uccidere, ma poi vide la mano del bianco cadere sulla pistola alla cintura. Non ci fu nessun balzo. Il corpo del nero, prima in tensione, si rilassò, si piegò sul cadavere e diede una mano a portarlo fuori. Stavolta non ci fu alcun mormorio.

    «Maiali!» imprecò tra i denti l’uomo bianco, riferendosi all’intera stirpe di abitanti delle isole Salomone.

    Era molto malato quel bianco, malato quanto i neri che gli giacevano intorno inermi e di cui si occupava. Ogni volta che entrava in quei carnai non sapeva mai se sarebbe riuscito a completare il giro. Sapeva, invece, con buona certezza che se fosse svenuto lì, in mezzo ai neri, quelli gli sarebbero saltati al collo come lupi famelici.

    Più o meno in fondo alla fila, un uomo stava morendo. Il bianco diede ordine di rimuoverlo appena avesse esalato l’ultimo respiro. Poi la testa di un nero sbucò sulla porta del capanno e disse: «Quattro amigo malati veramente».

    Ancora in grado di camminare, quei nuovi casi di contagio si raggrupparono intorno a colui che aveva parlato. Il bianco fece cenno al più debole di sistemarsi nel posto appena lasciato libero dal cadavere trasportato fuori, invece indicò a un altro, anche lui abbastanza debilitato, di attendere il prossimo decesso. Poi ordinò a uno di quelli che stavano bene di radunare una squadra fra i lavoratori dei campi e costruire un’appendice a quella specie di infermeria, mentre lui continuava a somministrare medicine raccontando barzellette in bêche-de-mer² per rincuorare i sofferenti. Di tanto in tanto, da lontano, si sollevava un lamento lugubre. Quando arrivò lì, si accorse che il gemito proveniva da un ragazzo che non era malato. La collera del bianco fu immediata.

    «Che cavolo gridi sempre?» chiese.

    «Lui amigo mio fratello apparteniene a me» fu la risposta. «Lui amigo muore veramente.»

    «Tu gridi, e lui amigo fratello che ti appartiene muore veramente» proseguì il bianco con tono minaccioso. «Io arrabbiato con te veramente. Che cavolo gridi, eh? Somaro, lui muore perché tu contagiato lui troppo. Tu finisci di gridare, capito? Se tu amigo non finisci gridare, io faccio finire veramente subito.»

    Lo minacciò mostrandogli il pugno e il nero si accovacciò, guardandolo con occhi incupiti carichi di odio.

    «Strillare non bene» proseguì il bianco, ora con tono più morbido. «Strillare no. Tu, mosche via. Troppe mosche. Prendi acqua, lava fratello che appartiene a te. Se lavi tanto, tuo fratello molto bene. Corri!» infine gridò ferocemente. La sua determinazione penetrò la bassa intelligenza del nero con tale energia che questi balzò letteralmente a scacciare i disgustosi sciami di mosche.

    Il bianco tornò fuori nel calore nauseabondo sempre a cavallo del servo, si aggrappò stretto al suo collo e tirò un sospiro profondo, ma l’aria stagnante sembrò inaridirgli i polmoni. Allora lasciò cadere la testa e sonnecchiò fino alla casa.

    Qualsiasi sforzo di volontà era una tortura, eppure doveva continuamente compierne. Al nero che lo aveva trasportato diede un goccio di gin. Viaburi, il domestico, gli portò del cloruro mercurico e acqua, con cui si disinfettò completamente. Il bianco prese del Chlorodyne, si sentì il polso, si infilò in bocca un termometro e si sdraiò sul divano trattenendo un lamento. Era metà pomeriggio e aveva ultimato il terzo giro. Poi chiamò il domestico.

    «Prendi il grande occhio, cerca la Jessie» fu il suo comando.

    Il ragazzo portò il lungo cannocchiale in veranda e scrutò il mare.

    «Una goletta lontano, un poco» disse l’altro. «Una come Jessie

    Il bianco emise un breve rantolo di compiacimento.

    «Se è la Jessie, io do a te cinque trecce di tabacco.»

    Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale attese con trepida impazienza.

    «Forse Jessie, forse altra goletta» ammise il ragazzo con esitazione.

    L’uomo si sospinse sul ciglio del divano per poi scivolare in ginocchio sul pavimento. Riuscì a tirarsi in piedi con l’ausilio di una sedia. Ci rimase aggrappato e, facendo leva con quasi tutto il suo peso su di essa, si trascinò al balcone e sulla veranda. Il sudore derivante da quella fatica gli rigò il volto e gli inumidì la camicia tra le scapole. Alla fine riuscì a sistemarsi sulla poltrona dove, stremato, respirò affannosamente. Gli ci volle qualche minuto per riprendersi. Il ragazzo teneva il cannocchiale appoggiato contro una delle travi della veranda, mentre il bianco scrutava il mare. Alla fine individuò le vele bianche della goletta e le osservò.

    «No Jessie» diede il responso con tono calmo. «Quella è la Malakula

    Si spostò su una sedia a sdraio. A un centinaio di metri di distanza, il mare si infrangeva sulla spiaggia in una soffice spuma. Sulla sinistra poteva vedere la linea bianca delle onde che segnava la barriera di sabbia davanti alla foce del fiume Balesuna e, più in là, l’aspro profilo dell’isola di Savo. Proprio di fronte a lui, in fondo alle dodici miglia del canale, c’erano le isole Florida. Poi, ancor più sulla destra, poteva intravedere in lontananza il contorno di Malaita – l’isola selvaggia, dimora di assassini, ladri e cannibali – il luogo in cui erano stati reclutati i duecento braccianti della piantagione. Tra lui e la spiaggia correva la recinzione di pali ricavati dalla vegetazione locale. Il cancello era spalancato, allora mandò il domestico a chiuderlo. All’interno di quella palizzata crescevano diverse palme da cocco maestose; su entrambi i lati del sentiero che portava al cancello si ergevano due alti pennoni: erano piantati su montagnole di terra artificiali alte circa tre metri, e alla base erano circondati da pali corti e pitturati di bianco, collegati da solide catene. I pennoni sembravano alberi di navi, sovrastati da alberi di gabbia in stile nautico e dotati di sartie, griselle, picchi e drizze. Dal picco di uno dei pennoni pendevano due vivaci bandiere afflosciate: una a scacchi bianchi e azzurri, l’altra era bianca a forma di gagliardetto con un disco rosso al centro. Nel codice internazionale era il segnale di pericolo.

    In fondo, un falco se ne stava appollaiato sulla recinzione. L’uomo lo guardò e si rese conto che anche l’uccello era malato. Si chiese oziosamente se si sentisse male quanto lui e provò una flebile sensazione di divertimento di fronte a quell’affinità. Scacciò quei pensieri ordinando che venisse suonata la grande campana, segnale che indicava ai braccianti di smettere di lavorare per far rientro alle baracche. Poi montò sull’uomo-cavallo e fece l’ultimo giro della giornata.

    In infermeria erano arrivati due nuovi casi, a cui diede dell’olio di ricino. Era fiero di sé, era stata una giornata facile, ne erano morti soltanto tre. Verificò come procedeva l’essiccamento della copra, attività che non si era fermata, poi fece un giro delle baracche per controllare se ci fosse qualche malato nascosto che volesse sfidare le sue regole di segregazione. Dopo fece ritorno a casa, ritirò i resoconti dei capisquadra e diede istruzioni per la successiva giornata di lavoro. Chiamò anche il capo equipaggio delle navi per essere sicuro che, come tutte le sere, le baleniere fossero state trascinate in secca e messe sotto chiave. Era una precauzione necessaria perché i neri avevano fifa e una baleniera lasciata in spiaggia di notte significava una perdita di venti neri al mattino. Dal momento che ogni nero valeva trenta dollari, o meno, a seconda dell’esperienza, la piantagione di Berande avrebbe difficilmente sopportato la perdita. D’altronde, le baleniere non si trovavano a buon mercato nelle Salomone e, inoltre, le morti stavano riducendo la forza lavoro giorno dopo giorno. La settimana prima sette neri se l’erano filata nella giungla³ e quattro erano tornati indietro stremati, assaliti dalla febbre, raccontando che altri due erano stati ammazzati e usati come kai-kai⁴ dagli indigeni, gente molto ospitale. Il settimo era ancora in fuga e si diceva che si aggirasse lungo la costa in attesa di rubare una canoa per tornarsene nella sua isola di origine.

    Viaburi consegnò al bianco due lanterne accese perché le controllasse. Lui le guardò e notò che bruciavano bene, con fiamme ampie e nitide, poi fece un cenno di assenso. Una fu messa sul picco del pennone e l’altra venne posizionata sull’ampia veranda. Fungevano da fari di allineamento per l’attracco a Berande e ogni sera venivano controllate e posizionate allo stesso modo.

    L’uomo bianco tornò sul suo divano tirando un sospiro di sollievo, la giornata era finita. Accanto a lui, sul divano, teneva un fucile; il revolver era sempre a portata di mano. Passò un’ora senza muoversi. Rimase sdraiato, mezzo addormentato, come in uno stato quasi comatoso. Poi, all’improvviso, qualcosa lo fece tornare vigile: uno scricchiolio proveniente dalla veranda sul retro. La stanza era a forma di L, la zona in cui si trovava il divano era al buio, ma la lampada che scendeva dal soffitto nella parte più ampia della camera – sopra il biliardo e appena dietro l’angolo, in modo che la luce non gli arrivasse direttamente – ardeva luminosa. In tal modo, anche le verande erano ben illuminate. Attese immobile. Gli scricchiolii si ripeterono e capì che alcuni uomini erano appostati all’esterno.

    «Chi va là?» gridò bruscamente.

    La casa era sollevata di qualche metro dal suolo su dei pali che facevano da fondamenta e in quel momento vibrò per l’impeto di passi che battevano in ritirata.

    «Si stanno facendo audaci» mormorò. «Bisogna fare qualcosa.»

    La luna piena sorse su Malaita e illuminò Berande. Tutto era immobile, nemmeno un alito di vento. Dall’infermeria continuarono ad arrivare i lamenti dei malati. Nelle baracche con i tetti d’erba, quasi duecento cannibali dalle teste lanose smaltivano la stanchezza delle fatiche della giornata, mentre alcuni sollevavano il capo per ascoltare le imprecazioni di qualcuno di loro che malediva l’uomo bianco perché non dormiva mai. Le lanterne bruciavano sulle quattro verande della casa. All’interno, tra il fucile e la rivoltella, lo stesso bianco di tanto in tanto gemeva e si rigirava in un sonno agitato.

    II

    qualcosa è stato fatto

    Al mattino, David Sheldon dovette riconoscere di sentirsi peggio. Di certo era molto più debole, e a ciò si aggiunsero altri segnali negativi. Cominciò i suoi giri come se cercasse rogne. Voleva rogne. Quella situazione tesa sarebbe stata già abbastanza grave se fosse stato nel pieno delle forze, figuriamoci ora, in quelle condizioni di crescente fiacchezza… bisognava fare qualcosa. I neri si facevano sempre più foschi e sprezzanti, e poi la visita della notte precedente nella sua veranda – uno degli affronti più gravi a Berande – era un brutto campanello d’allarme. Prima o poi l’avrebbero colpito, se non l’avesse fatto prima lui, se non avesse marchiato ancora una volta le loro anime oscure con la fiammeggiante supremazia dell’uomo bianco.

    Tornò a casa deluso. Non si era presentata alcuna occasione di infliggere punizioni esemplari per irriverenza o insubordinazione, come era accaduto quasi ogni giorno da quando l’epidemia si era abbattuta su Berande. Il fatto che nessuno gli avesse mancato di rispetto era di per sé sospetto. Stavano diventando scaltri. Rimpianse di non aver atteso che i malintenzionati fossero entrati in casa la notte prima, almeno ne avrebbe fatti fuori uno o due, dando agli altri un’ennesima lezione… scritta in rosso e da imparare per bene. La situazione era di uno contro duecento e lui temeva tremendamente di essere sopraffatto dalla malattia, cosa che lo avrebbe lasciato alla loro mercé. Aveva visioni in cui i neri prendevano il controllo della piantagione, saccheggiavano il magazzino, incendiavano le costruzioni per poi fuggire a Malaita. Inoltre, la protagonista di un’altra macabra visione era la sua testa, seccata al sole e affumicata per abbellire un capanno per canoe in un villaggio di cannibali. O arrivava la Jessie, o qualcosa andava fatto.

    La campana aveva appena suonato, mandando i lavoratori nei campi, quando Sheldon ebbe una visita. Aveva fatto spostare il divano sulla veranda e ci stava ancora steso sopra nel momento in cui le canoe si avvicinarono e arrivarono sulla spiaggia. Quaranta uomini armati di lance, archi e mazze si schierarono fuori dal cancello d’ingresso, ma solo uno di loro entrò. Conoscevano la legge di Berande, d’altronde tutti i nativi conoscevano la legge dei recinti di ogni uomo bianco vigente nelle mille miglia delle remote isole Salomone. Sheldon riconobbe il tizio che risalì il sentiero, era Seelee, il capo del villaggio di Balesuna. Il selvaggio non proseguì per i gradini, ma si fermò ai loro piedi rivolgendosi al padrone bianco che si trovava in alto.

    Seelee era più intelligente rispetto alla media degli appartenenti alla sua razza, ma proprio quell’intelligenza non faceva che mettere in risalto la meschinità dei suoi pari. Aveva gli occhi vicinissimi e piccoli, e trasmettevano crudeltà e scaltrezza. Indossava soltanto un perizoma e una cartucciera. Il monile in perla intarsiata che pendeva dal naso alla guancia e gli impediva di parlare correttamente era solo ornamentale, alla stregua delle sue orecchie: semplici mezzi per trasportare pipa e tabacco. I suoi enormi denti spezzati erano anneriti dall’usanza di masticare noce di betel, il cui succo soleva sputare per terra.

    Mentre parlava, o ascoltava, faceva delle smorfie da scimmia. Diceva di sì abbassando le palpebre e tirando il mento in fuori. Parlava con un’arroganza giovanile stranamente in contrasto con la posizione servile che lo vedeva al di sotto della veranda. Lui, con i suoi seguaci, era signore e padrone del villaggio di Balesuna. Però il bianco, senza seguaci, era signore e padrone di Berande e in passato si era anche eletto signore e padrone dello stesso villaggio di Balesuna. Seelee non gradiva ricordare quell’episodio che faceva parte del suo percorso di apprendimento sulla natura dei bianchi, durante il quale aveva imparato a detestarli. Una volta si era reso colpevole di aver dato rifugio a tre fuggitivi di Berande. Quelli, in cambio dell’accoglienza e della promessa d’aiuto sulla strada per Malaita, gli avevano consegnato tutto ciò che possedevano. L’evento gli aveva aperto uno sguardo sulla possibilità di profitti futuri, visione in cui il suo villaggio avrebbe giocato il ruolo di punto di collegamento segreto tra Berande e Malaita.

    Sfortunatamente non conosceva le usanze degli uomini bianchi. Nello specifico, quel bianco lo aveva educato presentandosi alla sua capanna sul far dell’alba. Di primo acchito ne era stato divertito, si sentiva perfettamente al sicuro nel suo villaggio. Subito dopo, e prima che potesse fiatare, le manette che coprivano le nocche del bianco gli si erano piantate sulla bocca, ricacciandogli in gola l’urlo di allarme. Come se non bastasse, l’altro pugno lo aveva beccato sotto l’orecchio, togliendogli qualsiasi interesse per ciò che stava accadendo. Quando si era ripreso, si trovava sulla baleniera dell’uomo bianco diretta a Berande. Una volta lì, era stato trattato come se non valesse nulla, con mani e piedi ammanettati, per non parlare di come era stato incatenato. Alla fine, quando la sua tribù aveva riconsegnato i tre fuggitivi, gli era stata restituita la libertà. Inoltre, il truce uomo bianco aveva applicato a lui e al villaggio di Balesuna una sanzione di diecimila noci di cocco. Dopo quell’episodio Seelee non si era sognato più di dare asilo a fuggiaschi di Malaita, anzi, aveva iniziato a dare una mano per acciuffarli… era più sicuro. Tra l’altro veniva pagato con una cassa di tabacco per ognuno di loro. Eppure, se mai gli fosse capitato di beccare quel bianco in difficoltà, o si fosse trovato dietro di lui dopo che questi era inciampato e caduto su

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