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Nascosti dal mondo
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E-book425 pagine6 ore

Nascosti dal mondo

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Info su questo ebook

Franklin D. Roosevelt ha detto: “Nessun uomo e nessuna forza possono abolire la memoria.”

John Oakes e Kurt Fournier sono la prova vivente della verità dietro quelle parole.

Sin dai tempi degli orrori della Seconda guerra mondiale, John e Kurt hanno arrancato per portare avanti le loro esistenze, sanguinando da ferite che non sono mai guarite. Ora si ritrovano nel 1950: la guerra può essere finita, ma la battaglia per trovare la pace è appena iniziata.

John, dottorando alla UC Berkeley e veterano, fluttua attraverso la vita del dopoguerra fino a quando coglie il misterioso Kurt a suonare di nascosto un pianoforte all’università. John pensa di poter trovare un po’ di conforto in compagnia di Kurt ma non sa come creare una connessione con quell’uomo che vive una vita di prudente solitudine.

Senso di colpa e rammarico minacciano di invalidare le loro speranze di avere una vita normale. Nessun uomo è un’isola, quindi John e Kurt devono mettere a rischio il loro cuore per trovare la felicità. Sfortunatamente, i ricordi e le paure possono paralizzare anche la persona più forte.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2023
ISBN9791220707770
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    Anteprima del libro

    Nascosti dal mondo - J. W. Kilhey

    1

    Berkeley, California

    1951

    Mi sento come costretto in questo piccolo ufficio. Non sono mai stato a mio agio negli spazi angusti, anche se in questo c’è qualcosa di particolare. È come se fosse ricoperto da uno strato confortante, come se i libri e i fogli e l’odore di sigaro riuscissero a eliminare la ristrettezza dello spazio e il soffitto basso.

    «Allora, spiegami perché sei qui,» dice una voce, irrompendo nella mia distrazione.

    Sono ormai cinque anni che il professor Matheson mi pone questa stessa domanda. Non gli ho mai risposto ma, visto che sono vicino a ottenere il mio dottorato di ricerca, è il momento di pensarci.

    «A volte me lo chiedo anch’io.»

    Solleva un sopracciglio. In parte è professore, in parte consulente scolastico e in parte strizzacervelli dei reduci. Odio che rivesta più ruoli. Non che sia un vero strizzacervelli, ma da ciò che mi ha detto era un medico ufficiale della Marina.

    «Studiare non mi è mai venuto naturale,» continuo. «Alla scuola elementare passavo più tempo a studiare le persone che i libri.»

    Mi chiedo se Matheson sia sempre stato così trasandato, se era così anche quando prestava servizio. Io stesso sono ancora abbastanza rigido quando si tratta di senso dell’ordine.

    «Penso che sarebbe stato stupido non prendere una laurea,» dico, «vista la possibilità con la Montgomery Bill ¹.»

    «Hai deciso cosa farai una volta che avrai conseguito il dottorato?»

    «Tutto tranne che diventare un ingranaggio della macchina industriale. La vita di mio padre non fa per me.»

    «È un muratore?»

    «È un mattonaio,» lo correggo. Il solo pensare al mio vecchio, alle sue mani deformate dall’artrite, alla sua schiena incurvata da anni di duro lavoro e movimenti ripetitivi, mi fa sentire grato di aver scelto di frequentare la UC Berkeley.

    «Quindi non farai mattoni?» Matheson si gratta il polso. Guardo il moncherino dove una volta c’era la sua mano sinistra e mi sento percorrere da un brivido. Sono molto grato di non aver perso nessuna appendice.

    «Non lavorerò nemmeno in fabbrica.» Dove sono cresciuto io, produrre mattoni e fare l’operaio sono le uniche occupazioni possibili per un uomo.

    «Dimmi perché sei passato da Storia a Scienze politiche.»

    Presumo pensi che, visto che ho risposto alla prima domanda, farò lo stesso con tutte le altre.

    «Di storia ne ho vissuta abbastanza. E mi perseguita a sufficienza.»

    Inclina la testa di lato. «Forse potrebbe essere un buon motivo per insegnarla. Non tutti hanno marciato attraverso l’Europa durante la più grande guerra di tutti i tempi…»

    «Non sono interessato a insegnare alla gente cos’è accaduto laggiù. Lasciamo che siano i generali a raccontare le storie e a scrivere libri. Io ero solo un soldato semplice.»

    Sento l’improvviso bisogno di una sigaretta; lo strano senso di conforto offerto da questo spazio ristretto si è esaurito. Voglio uscire da questo ufficio. È troppo disordinato.

    «Ora saresti un ufficiale.»

    «Non mi arruolerò di nuovo, se è ciò che sta suggerendo. Il mio sogno di una fulgida carriera militare era una febbre che mi ero preso dopo Pearl Harbor, ma non c’è gloria nella guerra. Solo proiettili e dolore.»

    C’è una lunga pausa prima che io riempia il silenzio. «Ecco perché ho scelto di studiare. Scuola gratuita e la promessa di un altro genere di gloria.»

    Matheson sorride. «Sai, John, è normale sentirsi smarriti dopo il congedo. Il mio primo anno da civile…»

    «Senza offesa, Prof, ma possiamo passare oltre?»

    Qualcosa di gentile si insinua nella sua espressione mentre prende la mia cartella. «Allora, parli correttamente il tedesco, hai due lauree, in Storia e Scienze politiche, un master in Storia e quasi un dottorato in Scienze politiche.»

    «Esatto.»

    «E non sai cosa farci.»

    «È lei il mio consigliere. Mi consigli.»

    Lui sorride di nuovo e getta il fascicolo sul divano ricoperto di libri. «Continua a fare ciò che stai facendo. Lo capirai quando sarà il momento.»

    Mi siedo più dritto e sollevo le sopracciglia. «Cosa? Tutto qui? Nessun discorso d’incoraggiamento?»

    «Sei troppo avanti per me perché ti dia dei consigli accademici, e non siamo sul campo di battaglia, John. Non c’è l’artiglieria qui, né nemici ben definiti. Non ho discorsi da vigilia di battaglia da farti. Stai andando alla grande. Sei molto più motivato della maggior parte dei miei studenti.»

    Ci sarebbe altro da dire, ma non aggiungo nulla mentre ci alziamo e ci stringiamo la mano.

    «C’è niente di cui vuoi parlare?» mi chiede all’ultimo secondo.

    Serro le labbra, mi tocco il pizzetto e scuoto la testa. «No, sto alla grande.»

    «Quei borsoni sotto i tuoi occhi raccontano una storia diversa.»

    «Sto in piedi fino a tardi a studiare per questo dottorato, sa?» Metto la mano sul pomolo della porta, sperando di riuscire ad andarmene prima che Matheson abbia la possibilità di pormi la domanda che mi fa sempre.

    «Vai regolarmente all’ospedale dei reduci?»

    Devo smetterla di trattenermi così a lungo, ma per stavolta mi ha beccato di nuovo. Stringo i denti per un momento prima di dire: «Non ho bisogno di un medico o di uno strizzacervelli. Sto bene.»

    «Non sto dicendo che non sia così. Voglio solo assicurarmi che ti stia prendendo cura di te.»

    «Non perda il sonno per me. Conduco una vita tranquilla.»

    «A volte troppo tranquilla?»

    Lo odio per averlo chiesto, e perché non mi domanda ciò che vuole sapere davvero, ma rispondo: «A volte.»

    «Mi ci sono voluti anni per superare la quiete di casa. Niente bombe, niente mortai, niente aerei, niente grida. Il silenzio mi stava quasi facendo impazzire! E a te?»

    Annuisco ma dico: «Ora devo andare.» Lascio la stanza frettolosamente e sospiro di sollievo quando l’aria soffocante dell’ufficio diventa più fresca in corridoio.

    La mia borsa è pesante e risistemo la bretella sulla spalla mentre lascio quell’edificio per poi aggirarmi tra i corridoi delle altre costruzioni, giusto per passare il tempo. La giornata è stata lunga. E anche se il mio corpo non è affaticato, la mia mente lo è.

    Si avvicina la fine del semestre. Ovviamente ora le cose sono più difficili di quando frequentavo l’università per laurearmi. Il programma di dottorato è piccolo, qui, ma mi permette di aver accesso a un buon gruppo di persone, e la scuola non è tanto grande da farmi sentire isolato. La maggior parte dei professori ha una filosofia di apertura nei confronti degli studenti, e si rendono più disponibili per noi che non per i laureandi.

    Quando mi torna in mente il mio saggio del primo anno e mi sento sopraffatto, ripenso a dov’ero solo sette anni fa. Lo studio dei sistemi politici e degli eventi storici impallidisce rispetto al combattimento sul campo. Mi tiene motivato, sì, ma non tiene lontano l’affaticamento mentale.

    Quando sono stanco, mi piace camminare nel campus e vagare per i corridoi degli edifici che frequento di rado. Non so in che struttura mi trovi al momento, ma mi dà una bella sensazione. Le ombre nell’atrio sono lunghe e mi accompagnano.

    Presto dovrò andarmene. È tardi e ho fame.

    Il fabbricato è quasi deserto, ma alcuni studenti e professori che si sono attardati qui mi danno un indizio di che programmi vi si svolgano. Ognuno di loro ha con sé un qualche tipo di strumento. Mi fa sorridere pensare che ci sono persone che si laureano in qualcosa di così misterioso. Ho provato a studiare musica, ma sembra che il mio cervello non sia connesso a quel piano mistico che dà il talento divino per essere un buon musicista.

    Cosa ci si fa con una laurea in musica? Cosa farò io con un dottorato in scienze politiche? Non ho interesse a fare il politico. Magari mi dedicherò all’analisi. O forse ha ragione Matheson. Dovrei fare il professore. A volte immagino di condividere le mie esperienze e opinioni con una generazione più giovane. Forse troverebbero illuminante ciò che ho da dire.

    Quando arrivo alla fine del corridoio, devo fare una scelta: tornare indietro e lasciare l’edificio o girare a destra in un altro corridoio. Prendo la decisione non appena la sento. Una dolce melodia al pianoforte. Mi conduce a una stanza di medie dimensioni con sedie sistemate a semicircolo attorno a un pianoforte a coda.

    Non entro, resto sulla soglia, appoggiato allo stipite. Il pianoforte è sistemato in modo che non mi permette di distinguere bene il viso del musicista. La sua schiena è curva. Riesco a vedere le sue dita, lunghe e agili con nocche un po’ troppo grandi. Ha un profilo ben definito. Un naso dritto e lungo. Mascella spigolosa, sopracciglia aggrottate. Gli occhi sono chiusi. Anche da lontano riesco a notare che le sue ciglia sono così lunghe da accarezzargli la sommità degli zigomi. I capelli sono corti, ma si vede che sono biondo chiaro.

    La musica che suona è tranquilla, ma non ci sono dubbi che sia potente. Mi ci vuole un attimo per riconoscerla: è un canto di Natale. La cantavano in chiesa in Oklahoma. O Come, O Come, Emmanuel.

    È quasi inquietante, angosciosa, e ha un non so che d’incompiuto.

    Mi sistemo contro la porta e il telaio scricchiola. Le dita dell’uomo si fermano, le sue palpebre si sollevano e lui alza la testa. Sgrana gli occhi quando mi vede. Si alza di scatto, spingendo indietro la panca con uno stridio.

    Mi guarda con una strana espressione di paura e dice: «Mi dispiace. Non volevo farlo.»

    La sua voce è bassa, con un accento abbastanza marcato. Così bassa che devo raddrizzarmi e fare un passo dentro la stanza per sentirlo meglio. Le sue dita afferrano i lati dei pantaloni.

    «Cosa non volevi fare?» chiedo.

    Tiene gli occhi puntati sui miei piedi e respira a fatica. Mi rendo conto ora che non è vestito né come uno studente né come un professore. Indossa una divisa da custode.

    Unisce le mani davanti a sé e le stringe. Il suo capo è ancora chino, ma ora capisco perché si è scusato. Forse pensa che, in quanto custode, non avrebbe dovuto toccare gli strumenti dell’università. Non voglio che creda m’importi che posizione ricopre. «Suoni magnificamente.»

    Lui scuote la testa, poi finalmente solleva lo sguardo. I suoi occhi sono straordinari. Sono dell’azzurro più chiaro e luminoso che abbia mai visto. Sta cercando una via d’uscita, ma io gli sto bloccando l’unica che c’è.

    Voglio fare qualcosa per metterlo a suo agio. Devo fargli capire che va tutto bene. L’unica soluzione a cui riesco a pensare è quella di spostarmi. Faccio alcuni passi indietro fino a quando mi ritrovo fuori dalla stanza e lo guardo mentre viene cautamente verso di me. Si ferma vicino alla porta. D’istinto, faccio un altro passo indietro e mi ritrovo schiacciato contro il muro opposto del corridoio.

    Lui esce dalla stanza e afferra immediatamente una scopa. Senza dire un’altra parola e senza guardarmi, si avvia a passo svelto lungo il corridoio.

    Sono così confuso che mi sento un po’ stordito. Quando riesco a far reagire il mio corpo, mi avvio anch’io, sperando di intravederlo, ma quando giro l’angolo, di lui non c’è più traccia.

    A ogni modo, non so cos’avrei fatto se l’avessi trovato. Non sembrava interessato a parlare. Non c’è motivo di cercarlo, così lascio l’edificio e mi dirigo verso la mia auto. Penso al giovane uomo che suonava una versione difficile da dimenticare di quel canto di Natale che tanto amavo da piccolo. Il pensiero della canzone, dell’uomo e delle sue reazioni tengono impegnata la mia mente per il resto della serata.

    La sera seguente torno all’edificio più o meno alla stessa ora, nella speranza di sentire altra musica suonata da quel custode talentuoso con l’accento tedesco, ma lui non c’è. Non so se sia incaricato delle pulizie di un solo edificio o se i suoi compiti lo portino in giro per il campus. Perché ho bisogno di sentire ancora quella musica? Perché ho bisogno di rivederlo?

    Cosa c’è in quell’uomo che mi spinge ad andare in quel posto ogni sera?

    Passa una settimana e inizio ad andarci anche di giorno, sperando contro ogni logica di scorgerlo a fare le pulizie tra studenti e docenti. Rivivo quella sera nella mente, ancora e ancora. Ha detto solo quattro parole e mi ha a malapena guardato. Sono riuscito a notare solo piccoli dettagli di lui, eppure mi trovo a desiderare che ci si possa trovare a bere qualcosa insieme. Da qualche parte dentro di me, so, ma senza capire il perché, che ho bisogno di conoscerlo.

    Forse non è proprio un’ossessione, ma gran parte della mia attenzione e concentrazione sono focalizzate sull’idea di ritrovarlo. I miei pensieri sono afflitti da domande che mi sento spinto a fare, da osservazioni che non si erano presentate a me sul momento, ma che ora mi assediano. Come può un inserviente suonare così bene? Perché non è uno studente? Mi ricordo anche della cicatrice che ho visto sulla sua tempia destra. Come se l’è fatta? Perché se ne stava in piedi davanti a me tremando come se avessi chissà quale autorità?

    Perché gli dispiaceva di aver suonato il pianoforte? Non riesco a immaginare nessuno a cui avrebbe dato fastidio, soprattutto perché l’edificio era quasi completamente deserto e lui suonava in modo eccellente. Sono sicuro che, se un membro del personale l’avesse sentito, gli avrebbe fatto i complimenti, gli avrebbe chiesto di far parte di qualcosa di più del gruppo di persone addette a pulire per studenti privilegiati.

    Quasi tre settimane dopo aver sentito quella musica e sperimentato l’enigma che era l’uomo che la suonava, inizio a pensare che fosse tutta un’illusione, o un sogno. Ma oggi, mentre mi avvio verso la Doe Memorial Library con il mio amico Charles Baum, lo vedo. Entra rapido in biblioteca, con la testa bassa e le mani sprofondate nelle tasche.

    Aumento il passo. Mi dimentico di tutto tranne che del bisogno di scoprire di più su di lui, fino a quando una mano sul mio braccio mi costringe a rallentare. Non mi fermo mentre mi giro, e chiedo a Charles, che mi guarda con un sopracciglio alzato, cosa vuole.

    «Che fretta c’è? Perché stai correndo?» mi domanda faticando a starmi dietro.

    Non c’è tempo per rispondere, non finché non siamo dentro l’edificio. Scruto tutto attorno ma non riesco a cogliere alcuna traccia dell’uomo.

    «John, cosa succede?» mi richiama Charles, sempre tenendomi l’avambraccio, stavolta applicando più forza, strattonandomi fino a quando i miei piedi non si arrestano.

    «Quel ragazzo. Quello che è appena entrato qui. Hai visto dov’è andato?»

    Charles scuote il capo e si toglie il berretto. I suoi capelli rossi sono appiattiti. Inizia a guardarsi attorno nella biblioteca e si passa una mano tra le ciocche. «Che ragazzo?»

    Faccio un respiro profondo e lo rilascio lentamente mentre i miei occhi passano in rassegna le persone che ci circondano. Non riesco ancora a trovarlo. Rendendomi conto di averlo perso di nuovo, mi volto verso il mio amico, pensando a cosa posso dirgli. Charles è una persona degna di fiducia. Non è solo un amico: conduce la mia stessa esistenza tranquilla e capisce il bisogno di discrezione.

    «È un inserviente.»

    Il suo sopracciglio sinistro si solleva e un piccolo sorrisetto appare sulle sue labbra. Non sono certo di cosa significhi fino a quando non mi chiede: «È bello?»

    Emetto un sospiro sonoro. «Direi di sì.» Non mi preoccupa ammetterlo con lui. La sua capacità di capire sta nel fatto che è come me. «Ma suona il pianoforte, e…»

    Charles mi interrompe. «È lui?»

    Seguo la linea del suo braccio e del suo dito e vedo la testa dell’uomo, coperta da quei capelli biondo sabbia, un attimo prima che entri nella tromba delle scale. Di nuovo mi sto muovendo, Charles dietro di me. Saliamo le scale, seguendo il suono dei suoi passi.

    Quando lo rivediamo, sta entrando in una stanza con accesso limitato. Solo gli studenti e i docenti hanno il permesso di farlo. Per un momento penso che sia lì per pulire, ma quando lo seguiamo, lo vedo dirigersi direttamente verso il fondo della sala.

    Mi nascondo dietro una pila di libri e guardo l’uomo biondo con la cicatrice sulla tempia sedersi vicino a un altro, uno che ha l’aria di essere uno studioso. Quando il tizio con la giacca di tweed alza lo sguardo, vedo che è il professor Fournier. Durante il secondo anno, ho frequentato un suo corso sulla Storia europea. Ora insegna Scienze politiche. Non so molto di lui, solo che è incredibilmente intelligente e viene dalla Francia.

    Charles mi sussurra qualcosa all’orecchio, ma lo zittisco. Sono interessato a osservare quella quieta interazione tra inserviente e professore. Non riesco a sentire cosa si dicono, ma c’è familiarità nelle loro espressioni e nel linguaggio dei loro corpi.

    Il collo dell’uomo biondo è piegato, la testa di nuovo bassa. I capelli neri del professor Fournier gli ricadono sulla fronte mentre china a sua volta il capo nel tentativo di guardarlo in faccia.

    Improvvisamente, Charles starnutisce. Entrambi gli uomini al tavolo sollevano lo sguardo. Penso di essermi girato prima che potessero vedere il mio viso. Inizio a fingere di guardare i libri e mi sposto verso la porta, tirandomi dietro Charles. La mia unica speranza è che non abbiano pensato niente di strano riguardo alla nostra presenza. Non so cosa si stiano dicendo o perché sono seduti lì insieme, ma l’istinto mi dice che è una sorta d’incontro clandestino.

    La vista di un rinomato professore insieme a un inserviente raddoppia le già tante domande presenti nella mia mente. Io e Charles usciamo in fretta dalla stanza e poi ci sediamo a un tavolo, e non c’è modo di negare la mia curiosità.

    Il mio amico non dice niente per un po’. E poi: «A cosa stai pensando? Se ti tiri ancora un po’ il pizzetto, ti resterà in mano.» Sposto lo sguardo su di lui ma resto in silenzio. «Pensi ancora al ragazzo delle pulizie?»

    A bassa voce chiedo: «Come fa a conoscere il professor Fournier?»

    «Magari è il suo amante,» risponde lui, sussurrando l’ultima parola ma allo stesso tempo accentuandola.

    Per un secondo, traccio le mie labbra con la punta dell’indice, prima di permettere che si incurvino in un sorriso. Scuotendo la testa, dico: «Tu pensi che tutti gli amici maschi siano amanti.»

    Charles si stringe nelle spalle ma non nega. Dice solo: «Noi non lo siamo.»

    Distolgo lo sguardo. No, io e lui non siamo amanti. È troppo melodrammatico per i miei gusti.

    Un altro fine settimana trascorre senza che io scopra niente del misterioso inserviente. Non lo vedo, ma nuove informazioni mi vengono fornite da Charles mentre ci beviamo qualcosa in un piccolo bar del posto, il martedì sera tardi. Finalmente ho accettato di incontrarlo lì. Il mio amico ha cercato di portarmi al suo locale preferito fuori dal campus per anni, ma ho quasi sempre declinato.

    «Ho parlato con Liza,» dice mentre si siede vicino a me, appropriandosi di una delle mie sigarette. «Lei sa tutto di tutti.»

    Bevo un sorso di birra, poi accendo una sigaretta, in attesa che mi dica qualcosa di interessante. A Charles piace tirare le cose per le lunghe, specialmente se questo lo mette al centro dell’attenzione anche solo per un attimo.

    Attende che gli servano il suo Manhattan e lascia vagare lo sguardo sugli altri avventori del bar. Quando arriva da bere, torna a concentrarsi su di me. Dopo un altro tiro di sigaretta e un’occhiata nella mia direzione, beve un piccolo sorso e inizia a parlare.

    «Sembra che il tuo ragazzo delle pulizie sia il fratello del professor Fournier, anche se non si somigliano per niente. Intrigante, no? A quanto pare, non parla mai.»

    Con me ha parlato, anche se solo per scusarsi, ma non glielo dico.

    «Cioè, non parla mai a meno che non stia avendo uno dei suoi sfoghi,» continua Charles.

    Trova sempre il modo più teatrale di raccontare le sue scoperte. So che vuole che glielo chieda e io voglio sapere, così lo accontento. «Cosa intendi dire con sfoghi

    Lui accavalla le gambe e, dimenticando per un attimo la sigaretta, mi inchioda con i suoi occhi verdi. «A quanto pare, il nostro amico ha frequentato l’università nel nostro stesso campus, ma Liza dice che ha dato fuori di matto almeno in tre occasioni. Si mormora che sia per via della guerra. Pare che sia stato in una zona di combattimento.»

    Ingollo il resto della birra e schiaccio il mozzicone della sigaretta nel posacenere prima di accenderne un’altra.

    Fa caldo in questo posto soffocante. Improvvisamente, è claustrofobico. La mia carne brucia, ma sono percorso da un brivido. Mi si formano alcune perle di sudore sulla fronte.

    Sobbalzo quando sento qualcosa sul braccio. Abbasso lo sguardo e vedo la mano di Charles. Risollevo gli occhi. La sua espressione preoccupata mi fa uscire da quella che avrebbe potuto essere la spirale devastante di un delirio di guerra. Non accade spesso, ma quando succede è terribile.

    Scuoto la testa e riesco a fare un piccolo sorriso al mio amico. Quando sposta la mano, tiro una lunga boccata dalla mia sigaretta. Mi chiedo se il fratello del professor Fournier sia davvero un veterano. Mi chiedo se il suo accento faccia di lui un nemico.

    O almeno, se lo era anni fa. Non sono più un soldato. La guerra in Germania è finita da tempo. Ora sono uno studente.

    Charles mi offre un’altra birra e la spinge verso di me. Non parla fino a quando non ne ho bevuta metà. Poi continua come se non avessi appena avuto uno dei miei episodi. «Comunque, il ragazzo delle pulizie…»

    «Smettila di chiamarlo così,» dico mentre butto fuori il fumo. «Non è un ragazzo. Mi sembra molto chiaro che non sia così.»

    Il mio amico fa un sorrisetto e io alzo gli occhi al cielo nel cogliere ciò che sottintende. «L’uomo delle pulizie… meglio?» Annuisco e lui va avanti. «Vive con il professore. A me sembra a dir poco scandaloso, se vuoi saperlo.»

    Rifletto per un attimo su quell’informazione. Forse Charles aveva ragione quando diceva che erano amanti. Non so quanti fratelli vivano insieme da adulti. Il professore deve avere circa quarant’anni e l’inserviente che suonava quella splendida musica sembra essere sulla trentina. Mi pare strano che vivano ancora nella stessa casa.

    Forse le informazioni di Charles non sono attendibili. Non sarebbe la prima volta che le sue notizie risultano essere niente di più che dei pettegolezzi poco accurati.

    Dovrò scoprirlo da solo.

    Più tardi, quella notte, faccio di nuovo quel sogno.

    Fa freddo. Sono davvero stanco. I combattimenti sono duri e non si sono attenuati per oltre un anno. Ogni giorno non è altro che la continuazione di quello precedente. Oltre cinquecento giorni. Non potrò resistere ancora a lungo senza spezzarmi.

    Poi ci sono i corpi. Tanti corpi. I loro occhi aperti fissano i miei senza vedermi, ma accusandomi di muovermi troppo lentamente. Il marciume. La decomposizione. Alcuni sono morti da mesi, altri da poco.

    Nel mio sogno so sempre a cosa sto andando incontro, ma non riesco a trattenermi dall’andare avanti. Devo entrare. Mi viene ordinato di entrare. Ogni volta è lo stesso. Trovo i corpi. Sento il disgusto, l’orrore, la rabbia cieca per ciò che è ovviamente accaduto a quelle persone.

    Poi ci sono le uccisioni. Percepisco l’odio, non come se fosse un sogno ma come se fossi tornato oltreoceano. Vedo le uniformi e non posso fare a meno di lanciare insulti e volgarità. Non importa se si tratta di soldati in mimetica o ufficiali nelle loro uniformi color verde oliva. Non importa se hanno pistole o fucili nelle loro mani o se hanno le braccia alzate in segno di resa. Il mio solo pensiero è: punizione.

    Spazzarli via e fargliela pagare sono le uniche cose che penso mentre il mio dito preme il grilletto. È l’unica cosa su cui riesco a concentrarmi, mentre guardo coloro che non avevano potere restituire le brutalità che hanno sopportato per anni.

    E poi lo vedo. Non c’è mai stato nei miei sogni, prima, ma ora c’è. I suoi occhi azzurro pallido mi fermano. È in ginocchio, le mani dietro la testa. Tutto il suo potere è andato. Si sta arrendendo. Alla mia destra sento il rumore delle armi che vengono caricate e puntate. Pistole, fucili, mitragliatrici.

    Urlo, ma è un urlo silenzioso.

    I suoi occhi sono fissi su di me. Non so se sta implorando o se mi sta schernendo con la sua espressione. Tutto ciò che so è quello che mi dice il mio istinto. Non può succedere.

    E invece accade.

    Prima che riesca a muovermi, risuonano gli spari. Vedo l’impatto dei proiettili che penetrano lentamente nel suo petto, il sangue che schizza dalle ferite e dalla sua bocca mentre quei limpidi occhi azzurri si sgranano per il dolore e il terrore.

    L’ultima cosa che sento è Mi dispiace, non volevo farlo riecheggiare nella mia mente quando mi raddrizzo a sedere sul letto. Sono ricoperto di sudore. Le dita sono strette attorno al cuscino di piume.

    Le lenzuola sono fradicie e le scosto con un gesto repentino. Lo stomaco si rivolta. Riesco ad arrivare in bagno in tempo per svuotarne il contenuto nel water.

    Dopo essere uscito dalla doccia, pulito e con un nuovo pigiama addosso, mi siedo sotto il portico a fumare. I miei pensieri non hanno mai senso dopo un sogno, ma stanotte li sento ancora più confusi. Ora c’è un altro elemento su cui riflettere.

    Possibile che l’inserviente che mi ossessiona sia stato in guerra? Può essere che abbia combattuto per l’altra fazione? Può avermi sparato? Era l’uomo che mi era corso incontro al fiume Moder? Era suo il coltello pronto a farmi a pezzi, prima che scappasse all’arrivo di Big Jim?

    Non voglio pensare che sia mio nemico. Mi fa star male pensare a lui in questo modo. Ma se ciò che ha detto Charles riguardo ai suoi sfoghi e all’essere stato in guerra è vero, allora è l’unica risposta possibile. È un membro – o lo era – della Wehrmacht o delle SS.

    Il mio senso di nausea non diminuisce come accade di solito. Niente ha senso. Perché un ex soldato tedesco dovrebbe vivere con un professore francese in California?

    Perché sono così ossessionato da tutto questo?

    Mentre la notte si dissolve nel giorno, bevo caffè e fumo sigarette pensando al passato e interrogandomi sul presente.

    2

    Vienna, Austria

    1941

    Sin da quando ero un bambino, mi era stato detto che avevo un notevole talento. La mia propensione verso il pianoforte era stata notata già dalla più tenera età. Mi è anche stato raccontato che, da piccolo, la mia famiglia non era in grado di tenermi lontano dal pianoforte verticale che c’era in soggiorno. A quanto pareva, svegliavo i miei genitori nel bel mezzo della notte, sorridevo felice nel vederli entrare nella stanza e suonavo loro qualcosa che avevo sentito solo pochi giorni prima.

    Alla fine avevano venduto il pianoforte il giorno del mio ottavo compleanno per comprare del pane e una piccola torta. Avevano messo da parte il resto del denaro, ma sapevo che non sarebbe durato a lungo.

    In fondo alla nostra strada c’era un negozio di musica e così, ogni volta che potevo, ci andavo e suonavo il piano. Questo fino a quando il proprietario non mi cacciò. Lo facevo da anni. Non gli era mai importato prima, ma prima era quando la mia famiglia poteva permettersi degli abiti nuovi. Quando non eravamo indigenti.

    In Germania, dopo la Grande Guerra, il costo di ogni cosa era salito, ma i problemi per la mia famiglia non avevano avuto inizio sino al 1928. Era stato in quel periodo che le ferite riportate da mio padre durante la guerra avevano cominciato a ostacolare la sua capacità di lavorare. Aveva fatto il soffiatore di vetro fino a quando non aveva cominciato a rompere più oggetti di quanti non riuscisse a produrre. Poi, senza altra possibilità per guadagnare denaro, aveva cominciato a lavorare in uno dei più grandi Biergarten di Monaco. Serviva birra a chi aveva ancora i soldi per comprarla.

    Quel lavoro non era durato molto e nel Natale del 1929 lui era ormai disoccupato. Non avevamo più niente da vendere. Io avevo guadagnato qualcosa suonando la fisarmonica proprio al Biergarten, ma non era sufficiente per permettere alla mia famiglia di sopravvivere, così nel tardo inverno del 1930, un mese e mezzo dopo aver compiuto nove anni, ero stato mandato a vivere a Vienna con mia zia e mio zio.

    Ero sempre piaciuto alla sorella di mia madre. Suo marito era proprietario di tre forni e guadagnava bene. Era stato deciso, senza consultarmi, che sarei stato meglio con loro che con i miei genitori. Finanziariamente era vero, ma non mi eri mai sentito a casa. Mia zia era gentile, ma mio zio esigeva solo disciplina. La maggior parte del tempo la passavo nella mia stanza.

    Non mi dispiaceva più di tanto. Lì avevo il mio pianoforte, ma la mia famiglia in Baviera mi mancava immensamente.

    Grazie al denaro di mio zio ero riuscito a entrare nei laboratori orchestrali e poi alla Imperial Academy of Music and the Performing Arts. Ancora una volta mi ero sentito ripetere che avevo un grande talento, e così avevo lavorato duramente per produrre musica impeccabile. Avevo composto alcuni pezzi, ma non li avevo mai mostrati a nessuno. Erano troppo semplici, non abbastanza ricercati per la ricca cultura musicale di Vienna.

    Eppure, nonostante le lodi per il mio talento non mancassero, molti anni dopo, mentre me ne stavo all’esterno del Musikverein, mi trovai a dubitare di me stesso più che mai. Sarebbe stato il mio primo concerto importante al di fuori dalle produzioni universitarie. Non mi sarei esibito da solo, ma la reputazione degli altri artisti li precedeva. Sembrava che il mondo intero – me compreso – li tenesse in gran considerazione, e io ero un signor nessuno in confronto.

    Il pensiero di suonare con loro era opprimente, così mi limitai a studiare l’esterno dell’edificio per un po’ di tempo prima di decidermi a entrare. La struttura del palazzo era impressionante. Mi faceva sentire minuscolo. Costruito oltre settant’anni prima, la facciata che tendeva al rosa mi ricordava la storia musicale della città. Credo che le persone lo chiamassero stile neoclassico. Le mie interiora si contorsero. Pensare alla storia della musica mi fece sentire ancora più insicuro.

    Chi ero io per pensare di essere abbastanza bravo da suonare nella stessa città in cui si erano esibiti Mozart, Beethoven, Schubert e Haydn?

    Contai le finestre con la promessa che, una volta finito, mi sarei fatto coraggio e avrei varcato la soglia. Mi ci volle un altro quarto d’ora prima di farlo davvero. Mentre mi avviavo verso la sala del concerto, le farfalle nel mio stomaco sbatterono le ali ancora più velocemente.

    Una volta dentro, si fermarono. In effetti, fui quasi certo che fossero morte tutte. Ora avevo un nodo allo stomaco. Restai a bocca aperta a contemplare la bellezza di quel posto. Anche con tutta la mia esperienza musicale, non avevo mai visto la Big Hall of the Vienna Music Association. Ora capivo il perché del soprannome The Golden Hall.

    Intorno ai sedili c’erano pilastri d’oro a forma di donna e balconi dorati intarsiati di rosso. Il soffitto era alto, tutto in oro ad eccezione dell’affresco di Apollo e delle nove Muse. I lampadari luminosi donavano luce a ogni sezione ornata della sala.

    Ero perso nella bellezza e non volevo tornare alla fredda realtà che giaceva oltre quel palazzo magico.

    Per un momento, pensai di contare i sedili per recuperare un po’ di controllo su me stesso.

    Non lo feci perché ci sarebbe voluto troppo tempo. C’erano più di quindici file, e spazio abbastanza per la gente in piedi. Proprio quando il panico iniziò a crescere di nuovo dentro di me, un violino suonò e mi rubò i pensieri.

    Guardai verso il palco, concentrandomi su di esso per la prima volta. In piedi, vicino a un bellissimo pianoforte a coda – il piano che avrei suonato io –, c’era un giovane uomo molto bello. Un violino di fattura squisita era incuneato tra il suo mento e la spalla. Anche

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