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Area 3-13
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E-book422 pagine6 ore

Area 3-13

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Info su questo ebook

All'inizio erano solo John e Jane, due perfetti sconosciuti ritrovati in una zona di contagio. Infetti ma non compromessi, sembravano aver mantenuto la loro umanità pur avendo acquisito alcune delle caratteristiche di coloro che li avevano infettati. Poi ne erano arrivati altri, simili ma non identici ai primi, segno che le mutazioni erano in costante progresso. Fin dall'inizio era stato l'esercito ad occuparsi di loro, raccogliendo ogni "immune" in un gruppo per sfruttarne le doti e cacciare gli esseri che propagavano il contagio. Ognuno di loro, la memoria parzialmente cancellata, aveva un nuovo nome che iniziava per J e un posto in una base. Controllati costantemente da medici e militari, i "J" indicavano i luoghi dei nuovi focolai e uscivano a caccia insieme a piccole squadre paramilitari, mentre il governo cercava di controllare l'informazione e nascondere la natura di questa nuova epidemia. Questa è la storia della seconda Jane Doe reclutata nella squadra e della sua ricerca della verità.
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2024
ISBN9791222726991
Area 3-13

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    Anteprima del libro

    Area 3-13 - Paola C. Ferrero

    Prima parte

    Atlanta 2035

    Notte

    Dalla finestra della stanza, attraverso i pannelli fotopolarizzanti orientabili, il bagliore giallo dei lampioni tagliava l’aria scura. Il letto era illuminato da una pallida lampadina, mentre fuori la luce brillava della vita frenetica della base.

    La donna al centro del letto era immobile, collegata a flebo e cavi, circondata da monitor di ogni tipo che registravano segni sempre più deboli di vita. Gli occhi si muovevano veloci sotto le palpebre e così pure sembravano scattare i nervi delle mani, unici particolari a tradire la calma apparente di quel luogo. Ai piedi del letto, una cartella attribuiva alla donna il nome fittizio di Jane Doe; come a dire che lei, in realtà, non esisteva affatto.

    Lì accanto, dietro al vetro che separava le stanze, due uomini erano intenti a osservare le immagini trasmesse dalla paziente ai monitor: Jane Doe, attraverso la mente, stava indicando loro dove dirigersi. Una squadra si stava già muovendo verso l’obiettivo. La caccia era nel suo pieno svolgimento, c’erano uomini e donne da salvare.

    Nel grattacielo della Corporate la festa era al suo culmine. Dopo un discorso condito di tutta la retorica e ogni dettaglio tecnico possibile, tenuto dal direttore scientifico della multinazionale – una delle più importanti aziende farmaceutiche del pianeta – era stato servito ogni ben di dio, cibo e bevande in quantità. Ora uomini e donne di età diverse ma egualmente ben vestiti ballavano, parlavano, bevevano e si divertivano.

    C’erano a disposizione tutti gli uffici del piano, riadattati per concedere agli ospiti della  presentazione dell’anno una serata indimenticabile. Gli invitati erano un numero imprecisato, calcolando anche chi era riuscito a imbucarsi potevano esserci almeno duecento persone, o così sembrava alla ragazza.

    Micaela Warren era stata mandata dai suoi datori di lavoro, troppo impegnati per andare a una festa a rappresentare uno degli studi legali più importanti di Atlanta. Una bella ragazza fa sempre buona impressione e certo si sarebbero ricordati della sua presenza; il resto non era fondamentale.

    Aveva bevuto parecchio per combattere la noia, tanto non doveva fare altro che consegnare il plico riservato a ogni partecipante contenente i dettagli legali dell’operazione. Tutto sommato poteva trattare la serata come una specie di vacanza premio. Era stata lontana dalla droga. Sapeva che ne sarebbe girata parecchia, come spesso accadeva in feste come quella, ma era abituata a non consumarne e a concedersi un solo vizio da stordimento: vino rosso o champagne, in occasioni del genere erano più che sufficienti.

    Vagava da una sala all’altra, stanca per aver ballato fino a poco prima. Voleva farsi un’idea di quanto fosse grande quel posto, di quanta gente ci fosse e di quante persone che conosceva avrebbe colto in momenti imbarazzanti. La vista era un po’ annebbiata, faceva caldo e una strana euforia la stava contagiando, come l’arrivo improvviso della primavera.

    Passò attraverso una stanza in cui i tavoli imbanditi erano ancora stracolmi di cibo, riempiti ogni volta che serviva da attenti camerieri del catering. Le pareti color ocra rendevano caldo l’ambiente, tutto metallo, legno e vetro. Le tovaglie bianche quasi scomparivano sotto ai vassoi e alle zuppiere. C’era ancora gente che mangiava, nonostante l’ora e il caldo.

    Decisamente troppo caldo.

    Micaela si tolse il cardigan e slacciò appena la camicetta, già abbondantemente aperta sui seni, tanto non ci avrebbe fatto caso nessuno e intorno a lei c’era gente meno vestita. Lasciò il suo golfino in mano a un cameriere, apparso come per magia al suo fianco, raccomandando che lo portasse al guardaroba a suo nome. La festa era davvero ben organizzata e forse aveva bevuto troppo. Non le capitava spesso e aveva anche cercato di farci attenzione; non voleva che qualcuno se ne lamentasse con il suo ufficio.

    Percorse un corridoio. Le luci ambrate piovevano dal soffitto, come ad avvolgere chi vi passava attraverso, poi lentamente percepì una melodia sensuale appena accennata, non la musica forte che aveva ballato fino a poco prima. C’era sicuramente un privé, una sala in cui appartarsi, ormai c’erano ovunque. Se ne sentì attratta, in fondo le sue ultime relazioni erano state deludenti, non sarebbe successo nulla se si fosse divertita un po’ anche lei. Era ora che lo facesse.

    Trovò la stanza, dietro a una vetrata più scura che la separava in parte dal resto della festa. La porta, anch’essa di vetro, era aperta. Invitava.

    Al suo interno, figure si muovevano nella tenue luce gialla che era il leitmotiv della serata. Tutto coperto d’oro, di ambra, di preziosi riflessi. Più in là c’erano un tavolo da biliardo, divanetti e poltrone tutte dello stesso colore e forma. Posti accoglienti su cui si stava consumando il più dolce dei peccati.

    Micaela sentì un brivido. Alcuni invitati li riconosceva, avevano scambiato parole inutili durante il buffet, quelle frasi e discorsi che nessuno ha modo di ricordare nemmeno dopo un’ora. Infatti, lei ricordava appena di aver parlato con quel giovane decisamente carino che ora stava facendosi strada tra le gambe di una bellissima ragazza mentre un’altra lo accarezzava in modo provocante. Il tavolo da biliardo era diventato una specie di letto su cui una massa di individui ondeggiava semivestita. Micaela non voleva fissare nessuno, si sentiva eccitata e incuriosita da quelle persone, ma non voleva infastidire coloro che già si divertivano. Desiderava un incontro meraviglioso e casuale di cui ricordarsi l’indomani.

    Ai lati della porta da cui era appena entrata, notò due pilastri di canne e spighe, corde e nastri d’oro: una decorazione in tema con la serata. Sentiva la gente muoversi davanti a lei mentre camminava lentamente verso il centro della sala e percepiva un odore particolare, di cui non afferrava l’essenza. La luce sembrava più fioca… Forse era l’effetto del caldo misto all’alcol.

    E lui era lì, una visione. Micaela restò a bocca aperta. A pochi metri da lei, un giovane la fissava: un bel ragazzo alto e ben piazzato, con spalle degne di un nuotatore, la camicia bianca aperta sul petto liscio e armonicamente muscoloso (quel tanto che basta per non sembrare un uomo di plastica). I capelli mossi di un nero corvino che poteva riprendere il colore della notte, abbaglianti riflessi d’argento, circondavano un viso magnetico. Occhi chiari, sembrava da quella distanza, il naso dritto e proporzionato, una bella bocca con labbra ben disegnate, pelle scura, ciglia lunghe e un fare provocante. Lui la fissava dritto negli occhi, chiamandola.

    Micaela fece un altro passo, poi uno ancora. Si fermò: doveva veramente accettare quell’invito? Era difficile rinunciare, ma di colpo percepì una sensazione di disagio; pensò all’effetto dell’alcol. Barcollò appena, prima di riprendere la via verso quella visione: lui non distoglieva l’attenzione da lei. Era splendido, più gli si avvicinava e più lo vedeva nei particolari. Non sembrava esserci anima viva insieme a loro, eppure lei ancora sentiva muoversi e sospirare gli altri; sussurri di piacere, a volte gemiti, parole sussurrate nelle orecchie.

    Lo raggiunse. Lui, con voce calda e morbida, la salutò e le disse che la stava aspettando. Micaela pensò a uno scherzo o a una frase stupida usata come corteggiamento, una stonatura. Lui allungò una mano fino ad accarezzarle il viso. Le disse il suo nome, David, ma Micaela non ne era così sicura e non importava, ora che la sua mano le sfiorava la pelle in quel modo…

    Con un gesto delicato, mentre lei cercava di riprendersi da quella sensazione di stordimento, David la tirò a sé. Oscillò al suono della musica, mentre il corpo di lei si abbandonava al suo. Micaela si sentì invadere da un caldo tremendo e si rese conto di avere voglia di sesso, come tutti gli altri lì dentro. In ogni caso si lasciò cullare tra le braccia di David, aspettando il passo successivo di quel sogno. Il suo odore era inebriante, quasi la stordiva. Lui si chinò a baciarla. Un bacio appassionato, dolce, sensuale, che prometteva cose inimmaginabili. Micaela rispose a quel gesto con trasporto e inaspettato coinvolgimento, poi di colpo si staccò da lui. David le fece cenno di seguirlo, verso un angolo buio della sala.

    Fu in quel momento che a Micaela parve di vedere la realtà cambiare aspetto, solo per un attimo. Frammenti di secondi che le fecero intravedere qualcosa che strideva, qualcosa che però non riusciva a decifrare. David la chiamò.

    Di nuovo, appena un passo più avanti, le sembrò che la realtà vacillasse. Un istante soltanto, come negli incubi, ma tutto era bello e normalissimo. Si stavano divertendo, lei aveva incontrato un uomo, uno che non riusciva a staccare gli occhi dai suoi… Si fermò ancora.

    Lui tese una mano, invitandola.

    Il volto di David era bellissimo e seducente, ma abbassò lo sguardo notando una mano bianca, sottile, con unghie lunghe e scure. Chiuse gli occhi: doveva riprendersi, non poteva permettere all’alcol di rovinarle la serata. Quando li riaprì tutto era normale. Fece per muoversi ma, come in un lampo di luci stroboscopiche, ciò che vedeva cambiava forma a intermittenza.

    Al posto del ragazzo che la chiamava c’era una figura mostruosa dalla forma umana e occhi scuri. Lei si guardò intorno, di certo stava dando i numeri. O aveva bevuto troppo o le avevano messo qualcosa nel bicchiere, sicuro. Tra gli invitati, altre creature vestite di nero sostituivano alcune delle persone che lei aveva visto entrando.

    Quella che era la magnifica ragazza sul divanetto si trasformava in una creatura orribile; entrambe le ragazze chine sul giovane lo erano. Lui sembrava non vederle, era intento a baciarne una in modo lascivo mentre l’altra era piegata su di lui e gli leccava il torace glabro e imperlato di sudore. Anche il tavolo era diventato una visione agghiacciante: creature, uomini e donne si mischiavano in un’orgia di corpi in movimento che sembravano banchettare mentre gli altri, quelli normali, parevano godere di rapporti sessuali inesistenti. Lei tornò con lo sguardo a David, che rimaneva umano solo qualche istante, in un gioco di flash alternati che la facevano impazzire.

    Fu allora che Micaela cominciò a urlare.

    Inizialmente, nessuno ci fece caso. Solo il bel ragazzo la fissava con occhi predatori, insondabili, fatti di sola pupilla color nero intenso, torcendo le labbra altrettanto scure ma quasi inesistenti in una smorfia di disgusto. Lei era paralizzata; non si mosse finché lui non cominciò lentamente ad avvicinarsi, poi la voce le mancò. Quello che vedeva non era possibile. Era tremendo e schifoso, e impossibile.

    Cominciò a indietreggiare, guardandosi attorno. Alcuni dei mostri avevano alzato le bocche dal loro pasto e la stavano fissando. In qualche modo, sembravano comunicare tra loro senza emettere suono. Micaela pensò di non avere scampo quando realizzò che oltre a quelle creature nessuno sembrava averla sentita. Cercò di riprendere fiato, con le gambe che tremavano e il cuore che voleva abbandonare la cassa toracica.

    I normali, quelli che avevano mangiato con lei alla festa, ora erano imbambolati nelle loro posizioni, nemmeno l’espressione contrariata di chi è stato interrotto nel bel mezzo di un’ammucchiata grandiosa. Erano tutti fermi, pallidi e con lo sguardo fisso nel vuoto – anzi, non proprio, perché guardavano Micaela senza vederla. Come dei pupazzi: assenti.

    Le tempie le scoppiavano, continuava a indietreggiare senza speranza e a tentare di arrivare alla porta senza cadere, invasa dall’effetto di una visione stroboscopica che rendeva i movimenti di quei mostri estremamente lenti e allo stesso tempo mutevoli: da bellissimi uomini e donne a figure terrificanti, e il contrario. Non riusciva a muovere le gambe più in fretta, i pochi metri che la separavano dalla porta sembravano allungarsi sempre più.

    L’uomo che la chiamava stava muovendo le labbra, ma lei non sentiva suoni oltre al suo tentativo di gridare ancora. Solo una vocina che le diceva che andava tutto bene, sottile, si faceva strada nella sua mente.

    Micaela non ci credeva nemmeno un po’. Non poteva andare bene.

    Niente andava bene.

    La squadra mandata dalla base era sul posto, dovevano solo salire.

    All’ospedale, Jane Doe spalancò gli occhi con un gemito: occhi bianchi, infetti. La cura non aveva fatto effetto, avevano solo potuto sfruttare le sue capacità fino all’ultimo. Uno dei medici entrò nella stanza e controllò i pochi monitor che non avevano un ripetitore nella camera accanto. Dopo aver scosso la testa, abbassò la levetta e lasciò che il liquido sospeso accanto alla flebo entrasse in circolo.

    Afferrò il telefono e, mentre spegneva uno a uno i monitor e gli apparecchi presenti, comunicò.

    «Non ce l’ha fatta… »

    Riagganciò, coprì il viso della loro prima sopravvissuta e la lasciò a chi avrebbe finito il lavoro, fatto l’autopsia ed eliminato il corpo in modo definitivo e asettico.

    Triste che il loro primo cenno di speranza fosse durato solo due anni. La prima donna arrivata con i segni di infezione, che ne era guarita e li aveva aiutati a combattere. La prima vera sconosciuta della base, una donna che non sapeva chi era stata prima di essere Jane Doe.

    Nel grattacielo Corporate, intanto, Micaela cercava di riprendersi dallo choc e tentare una reazione. La sua mente non accettava quello che gli occhi continuavano a mostrarle, confuso e altalenante specchio della realtà. Era arrivata quasi alla porta ma loro erano vicini: non tanto il leader, che doveva essere David, quanto quelli che occupavano divanetti e poltrone accanto a lei.

    Non ce l’avrebbe mai fatta a uscire. Se anche fosse successo le erano addosso, l’avrebbero fermata entro pochi passi e lei non voleva certo dare loro le spalle per fuggire. Sebbene incutessero timore, voleva averli sempre sott’occhio.

    Allungò una mano per capire quanto spazio ci fosse tra lei e la porta. Mano che una volta allungata si strinse su di una canna di bambù, lì per decorazione ma utile; fu una sorta di istinto primordiale a guidarla, nemmeno lei sapeva bene cosa farne. La roteò in aria e si preparò a difendersi. O a offendere, ancora meglio.

    A mano a mano che le creature avanzavano, lei le colpiva con tutta la forza che aveva in corpo, cercando di non farsi disarmare. Era terrorizzata, ma non gridava più. Non aveva tempo.

    La voce nella sua testa si faceva più insistente, mentre lentamente un brusio di più voci creava un nuovo e inquietante sottofondo. David voleva che lei lasciasse quell’arma improvvisata e si arrendesse all’abbraccio caldo e sensuale della visione che le martellava la mente. Lui cercava di mostrarsi ancora con quell’aspetto avvenente. Micaela incrociava il suo sguardo il meno possibile, non voleva cedere ora che aveva visto il suo vero volto. Agli altri, invece, sembrava non importasse più fingere. Non erano più belle ragazze e giovani aitanti, ma semplicemente incubi in forma umana, pallidi e scheletrici. Con delle vocine stridule e una lingua pressoché incomprensibile.

    Colpì, affondò la canna dove poteva, la usò come una lancia, come un bastone, come qualsiasi cosa potesse offendere, ma era sola. Nessuno sembrava volerla aiutare. Dal poco che vedeva al di là dei suoi aggressori, tutti erano fermi lì dove i mostri li avevano lasciati; lo sguardo fisso su di lei senza espressione, il corpo molle, come senza volontà, ma vivi in apparenza.

    Il bambù si spezzò, Micaela continuò a sferrare colpi finché le fu possibile: mentre uno dei nemici le stringeva una spalla, affondò la punta spezzata nel ventre di un altro come ultima disperata azione difensiva. Poi la presero. Sprofondò in un sogno sensuale, erotico, avvolgente.

    C’erano uomini e donne, forse non particolarmente affascinanti ma desiderabili. Tutti la bramavano, la carezzavano con mani delicate, con passione. E lui, lui era lì, che le veniva incontro, sorridendo. Bello, coi suoi riflessi di stelle nei capelli e quel sorriso spavaldo, le ciglia folte che sbattevano sugli occhi chiari. E il suo profumo… David la voleva. Più di tutti gli altri.

    Gliela lasciarono tra le braccia. Lui, più alto di lei di una spanna, dovette abbassarsi per baciarla di nuovo. Micaela sentì un lungo brivido di piacere attraversarle la schiena: nessuno l’aveva mai baciata così. Per un istante, si rese conto che Lui non era umano. Cercò di sfuggire alla presa, poi dimenticò ogni cosa.

    Gli uomini che arrivarono, si avventarono sui mostri davanti alla porta. Era semplice, visto che tutti stavano ammirando il loro capo che pasteggiava, o qualunque cosa facesse mentre infettava la ragazza.

    Si accorsero subito che lei era speciale: si dimenava strenuamente come un’ossessa. Nessuno riusciva a resistere ai Persuasori, a meno che non fosse un Reagente o non si fosse iniettato una dose di STP6 da pochi minuti, ma in quel caso non era certo possibile.

    Uccisero a colpi d’arma da fuoco alcune creature, mentre David lasciava la presa e se ne andava in un lampo, prima che queste cominciassero a fuggire in ogni direzione, rigorosamente dopo di lui. Senza perdere tempo a inseguirli, gli uomini cominciarono a visitare ogni essere umano presente. Due di loro iniettarono un farmaco nel collo di Micaela e la portarono via di peso. Non era del tutto cosciente, ma era ancora decisamente umana.

    «Non se ne è salvato neanche uno tranne questa, Troy».

    «Siamo arrivati tardi, questi accidenti di grattacieli» Troy, che teneva Micaela, si fermò nel corridoio.

    «Che facciamo?»

    «Date fuoco a tutto, come al solito. Fate attenzione che le fiamme non si allarghino più del necessario. Deve sembrare un incidente» Troy se ne andò.

    Come sempre, un incidente mortale. La popolazione non sapeva, non voleva e non doveva. La politica del silenzio aveva risparmiato il panico generale, anche se l’epidemia si andava diffondendo sempre più. La gente non voleva smettere di godersi la vita senza preoccupazioni.

    Fuoco

    Poche ore dopo, il corpo privo di sensi di quella che era stata Micaela giaceva su un letto all’ospedale della base. Aveva la febbre alta, delirava, tremava. L’antidoto che l’avrebbe salvata dal contagio le era stato iniettato in tempo e i medici sembravano ottimisti. La sua cartella clinica la conduceva a una nuova vita: sarebbe diventata la seconda Jane Doe. Un omaggio alla donna che se n’era appena andata, un augurio a quella che stava arrivando. Se fosse uscita da quella stanza con le sue gambe, avrebbe cooperato con il corpo speciale istituito da un paio d’anni, alle prime avvisaglie di quella che sembrava una serie sporadica di casi e che invece si era rivelata una vera e propria epidemia. O invasione.

    Troy entrò nella camera e si fermò per un attimo a guardare il nome sulla cartella in fondo al letto.

    «Non ce l’ha fatta… » Si riferiva alla vecchia Jane, ovvio.

    «No, – il medico evitò il suo sguardo, Jane era stata la compagna di caccia di Troy, per un po’ – quei maledetti sono sempre più furbi. Se la situazione non migliora, saremo costretti a tenere tutti i Reagenti alla base in modo permanente».

    «Non credo che servirà» Jane, la prima, era stata catturata durante una missione.

    «Dobbiamo addestrarli meglio, allora».

    Troy fece un cenno col capo. Aveva intravisto quella ragazza, la nuova Jane, mentre cercava di combattere con la forza e la velocità di un professionista. Forse aveva praticato qualche arte marziale, non ne era sicuro. Dai documenti erano risaliti a parte della vita di Micaela Warren, ma non c’era tutto e forse non si sarebbe ricordata nemmeno il suo nome, non dopo lo choc e il siero in dose massiccia. L’immunità non garantiva la sicurezza; molti dei giovani Reagenti, così avevano chiamato chi non subiva l’influenza dei Persuasori, erano quasi impazziti alla loro vista.

    Non erano umani, non propriamente. Parte del DNA, ma non tutto: forse una evoluzione, forse una specie aliena, non l’avevano ancora capito. Non era nemmeno così importante, rispetto a salvare il maggior numero di persone possibile dal contagio.

    Se un tempo i Persuasori erano intimoriti dalla presenza di umani che sembravano immuni alle loro abilità mentali, ora li inseguivano per portarli dalla loro parte. Diventavano schiavi utili, li aiutavano a entrare dove non potevano, mentre gli altri umani erano solo cibo per loro: un mare di cibo per pochi esseri che resistevano all’estinzione.

    Ora la seconda Jane faceva il possibile per restare viva. Ancora poche ore e la sua vita sarebbe cambiata, per sempre.

    La notte era finita.

    I telegiornali riportavano notizie terribili riguardo agli incendi della notte precedente. Quello al grattacielo della Corporate era uno dei più gravi. Sessanta vittime, il cui elenco di nomi era ancora in via di compilazione. Un archivio aveva preso fuoco, a quanto si sapeva, proprio mentre nelle stanze a fianco si svolgeva una festa importante. Per fortuna non tutti gli invitati e il personale addetto al catering erano rimasti coinvolti, anche se i fumi avevano intossicato pesantemente gran parte dei presenti.

    Dean era rientrato da poco; la notte era sempre lunga per lui. Suonare la chitarra in un gruppo impegnato come i Draidem costava parecchi sacrifici. Nessuna vita sociale, sonno arretrato e gente squinternata che li aspettava ore e ore fuori dai teatri e dai locali. Certo, aveva anche i suoi vantaggi… La biondina di quella notte era veramente uno schianto. Non si era nemmeno domandato se fosse maggiorenne, con quel culo non importava. Sapeva di rischiare grosso, però era troppo difficile resistere.

    Lui non era certo un tipo facile, ma quella sera il concerto gli aveva lasciato addosso una carica inusuale, una voglia che doveva sfogare se voleva dormire almeno qualche ora prima della prossima tappa nella città vicina, prima del nuovo concerto in qualche posto che aveva dimenticato.

    Sgranocchiò porcherie, roba che i salutisti non toccherebbero neanche, mentre ascoltava le notizie senza grande interesse. Aveva nelle mani l’odore di quella ragazza, Faith forse, e non gli dispiaceva sentirla ancora gridare il suo nome nella mente. Era stata decisamente una gran scopata. Nel vano del camioncino, in piedi, semivestiti e accaldati dalla serata, accecati da una voglia irrefrenabile di sesso. Dean cominciò a chiedersi se fosse auspicabile un nuovo incontro; sorrise eccitato ripensando a quel bel paio di tette.

    Accompagnato da quella visione, andò ad aprire il rubinetto della doccia, si tolse i vestiti gettandoli a terra e si immerse nel relax più totale, in attesa di buttarsi a letto e sprofondare in un sonno lunghissimo.

    Jane si svegliò intorno alle undici del mattino. Gli occhi verdi e attenti, non si ricordava molto, ma qualcosa c’era che le ronzava in testa. Quando il medico entrò nella stanza lei balzò fuori dal letto e indietreggiò, mentre lui le spiegava parte di quello che era successo.

    Col passare dei minuti, riordinando le immagini che le tornavano in mente e ascoltando quel racconto che le suonava tanto lontano quanto incredibile, si calmò. Non del tutto, rispettando i ritmi usuali ci sarebbero voluti giorni. Il dottor Haydensen usò molto tatto, con voce compassata si presentò e le spiegò a grandi linee cosa facevano in quell’ospedale, poi la convinse a tornare a letto. Qualcuno sarebbe venuto presto a darle maggiori spiegazioni. Avrebbe saputo tutto con la dovuta calma, ora doveva solo pensare a riprendersi.

    Il medico lasciò sola la nuova arrivata e Troy, che aveva salvato Jane quella notte, ora era lì fuori che aspettava con ansia sue notizie.

    «Non sembra ricordare molto della sua vita esattamente come gli altri».

    «Sarà più facile» Troy sapeva che il ricordo complicava le cose. «E del resto?»

    «Ricorda i Persuasori, certo non del tutto. Gli occhi, più che altro, e le voci».

    «Le voci?» Troy era incuriosito.

    «Li sentiva, abbastanza chiaramente. O almeno così dice… » il medico, pensieroso, fissò un punto invisibile davanti a lui «Indagheremo».

    Troy non voleva entrare. Era passato troppo poco da quando aveva portato l’altra Jane in una stanza simile, ma allo stesso tempo questa Jane era diversa. La prima che riportava a loro di voci. I Persuasori non parlavano; a quanto si sapeva erano afoni, comunicavano mentalmente proiettando immagini che le onde cerebrali interpretavano come realtà. Era così per tutti, tranne che per i Reagenti. Loro non ci cascavano, a meno che alcol o droga non li confondessero, ma fino ad allora nessuno li aveva mai sentiti. Quella Jane forse era una Reagente evoluta.

    Rimase davanti alla sua porta per qualche minuto, poi si convinse a tornare più tardi. Bisognava darle il tempo di riposare, di rilassare i nervi, in fondo lì era al sicuro. Ora che lo sapeva non c’era fretta, non troppa almeno. La guerra poteva continuare anche senza di lei, per quel giorno.

    Jane fissava il vuoto. Nella sua mente vorticavano immagini confuse, ma alcuni frammenti le confermavano che era tutto vero. Sapeva che non le stavano mentendo. Sapeva che l’avevano protetta, curata e portata via da lì. Non sapeva bene come c’era finita, ma le sembrava irrilevante. Nel momento in cui aveva visto quei "Persuasori", come li aveva chiamati il medico, la sua vita era cambiata. Aveva ucciso per la prima volta una creatura vivente, qualsiasi cosa fosse. Sentiva ancora nelle mani la forza e il dolore che l’avevano spinta a trafiggere quel torace. La cosa strana è che non era spaventata, ma forse più sorpresa di non sentirsi in colpa. Uccidere era stato facile, forse perché erano creature terrificanti. Sapeva che lo avrebbe fatto di nuovo, ancora e ancora. Senza stancarsi. Dentro di sé, ne aveva la certezza.

    Infastidita e dolorante, si sfiorò appena il collo nel punto in cui le avevano iniettato il siero: era duro e pulsava. Veleno contro veleno. Difficile capire che cosa le aveva fatto più male. Il bacio della creatura, invitante e mostruosa allo stesso tempo, oppure il salvataggio.

    Jane sentì una presenza dietro la porta e si alzò a controllare. Non era più attaccata alla flebo, quindi muoversi era più semplice, anche se faticoso.

    Aprendo la porta vide Troy, proprio lì davanti, braccia conserte e schiena appoggiata al muro, che sembrava attendere non si sa bene cosa. Ricordava i suoi capelli spettinati mentre si chinava su di lei. Sorrise.

    «Non entri?» gli disse.

    «Volevo che tu riposassi un po’ prima di iniziare».

    «Iniziare cosa?» Jane abbassò la testa abbandonando lo sguardo negli occhi di lui, il suo modo per essere seduttiva.

    «Entriamo»  Jane percepì il suo malumore.

    «Giornata difficile?» gli domandò.

    «Non so, forse la tua è stata peggio» lui distolse lo sguardo.

    «Grazie, comunque».

    «Ti ricordi qualcosa?» tornò con i suoi occhi scuri in quelli di Jane.

    «Non tutto, ma a grandi linee sì».

    «Sai chi sei?»

    «Jane Doe» lesse la cartella dopo averla presa dal bordo del letto, «o sbaglio?»

    «Sai che non è così, vero?» cercò di osservarne la reazione, ma Jane guardò altrove.

    «Non importa, non più dopo la notte scorsa. Cosa dovevi dirmi?»

    Sole

    Stava tramontando. Troy guardava dalla finestra e sperava di poter fermare il tempo; non voleva andarsene, non voleva uscire per una nuova notte di caccia né voleva aspettare nuove indicazioni da Jillian o Justin, che quella notte erano di turno. Uscire e armarsi, iniettarsi l’STP6 e accendere fuochi per nascondere l’invasione.

    Questa Jane era davvero diversa. Qualcosa di indefinibile si muoveva nella sua mente, qualcosa che la rendeva unica: aveva accettato meglio di altri la situazione, non era spaventata, non voleva sapere chi non sarebbe più ritornata a essere… Era come rinata.

    Troy lavorava lì fin dall’inizio e aveva contribuito con tutte le sue forze a salvare almeno la metà degli sconosciuti che risultavano immuni alle trasmissioni mentali. Aveva studiato i Persuasori al fianco dei medici del centro, e ne sapeva quasi quanto loro; forse non capiva bene le formule chimiche con cui sviluppavano vaccini e sieri, ma ormai la sua vita girava intorno a quel mondo.

    Solo quella notte la voleva per sé, per abbandonare il dolore di aver perso la sua Jane e celebrare l’arrivo di questa Jane così insolita. Non aveva avuto tregua finché non era entrato in quella stanza con lei, come se le ore passate lì dentro gli avessero fatto sopire il dolore, la rabbia, l’odio. Non c’erano stati pianti, grida: Jane non aveva tremato davanti alle immagini dei Persuasori che avevano portato alla base, dopo averli uccisi.

    «Il bacio di quel mostro mi ha lasciato qualcosa».

    «Cercheremo di capire cosa, te lo prometto» Troy era sincero, «ma sei sicura non si tratti di suggestione?»

    «Forse» Jane sorrise, «ma vorrei esserne certa».

    Era possibile? Quello che era con lei sembrava in effetti un capobranco, che fosse capace di qualche altra forma di contagio? Si erano evoluti anche i Persuasori?

    Aveva prelevato lui stesso del sangue a Jane, per portarlo ad analizzare. Magari c’era qualcosa che ancora sfuggiva loro, qualcosa di importante, oppure lei era solo dotata di un carattere genetico che ancora non avevano riscontrato in altri Reagenti. Bisognava solo aspettare.

    La lasciò riposare, la notte era vicina. Troy non aveva dormito e sperava di non dover uscire. In fondo, le squadre erano numerose in tutto il paese e forse sarebbe stata una notte tranquilla.

    Musica

    Dean non ci pensò due volte e si calò una pasticca. Gli altri lo facevano abitualmente, lui solo se non aveva dormito e la notte sembrava lunga. Il gruppo di spalla che precedeva l’arrivo sul palco dei Draidem aveva appena finito il suo ultimo brano, accompagnati da applausi e fischi, come al solito. Non erano male, solo che non erano i Draidem, e l’attesa vera era per loro.

    Il palco stava per svuotarsi, il momento era quasi arrivato: nel buio il pubblico, perlopiù ragazze, li acclamava a squarciagola con occhi carichi di trepidante eccitazione. Dean cominciava a sentirsi meglio. Più carico, più sveglio e allo stesso tempo senza un filo d’ansia. In momenti come quello si chiedeva se fosse il caso di prendere più spesso quella roba, come gli altri.

    Un’esplosione di luce li accolse insieme al boato della folla: lo stadio era strapieno.

    Basso e tastiera cominciarono a suonare un brano sensuale, piano, creando l’atmosfera giusta per iniziare la serata; Dean attaccò perfettamente con la sua chitarra elettrica. Tutto filava liscio.

    La scaletta non era lunghissima, dopo il concerto c’era una festa per il terzo album pubblicato e, appena uscito, già primo in classifica. La casa discografica ci sapeva fare. Pubblicità, i posti giusti negli stores, interviste, gossip. E soldi. I Draidem erano il gruppo meglio pagato del paese. Anche per questo Dean aveva continuato nonostante la stanchezza e il fatto di essere sempre sotto pressione: concerti, registrazioni, presenze in pubblico, feste private, inaugurazioni di locali… Era un gran bel lavoro.

    Poi c’erano le ragazze. Moltissime ragazze. I Draidem le attiravano come mosche: ogni sera c’era un gruppo di fan scatenate che li attendeva fuori, e che certe volte si perdevano persino l’ultima parte dello show pur di aspettarli e offrirsi loro ovunque fossero. Come Faith la sera prima; come altre, altre volte. Dean non ne approfittava sempre, voleva solo quelle che gli piacevano davvero, quelle un po’ speciali. Non si accontentava facilmente.

    Il ricordo della sera prima gli entrò con prepotenza nel cervello. Era pericoloso distrarsi troppo mentre suonava. Dean era un perfezionista e non gli piaceva affatto sbagliare. Ne faceva un dramma se capitava e per fortuna, negli anni, gli era capitato sempre meno. Questa volta però l’immagine

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