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Caro Ulderico
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E-book273 pagine3 ore

Caro Ulderico

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Info su questo ebook

l legame che unisce Ulderico a Giuseppe è unico, 'sanguigno'. Un legame che va oltre la vita stessa. Sono gli eventi, sgranati come un rosario, che danno inizio e poi favoriscono una serie di accorate lettere. Nel prendere corpo, inevitabilmente, accompagnano e avvicinano ma qualche volta allontanano la vita vera, quella vissuta. Fin quando un inatteso testamento non rimescola il destino…Sono queste stesse lettere, con la forza dell'amicizia e dell'amore, che affiancano e conducono per mano il lettore, in un viatico doloroso ed esaltante lastricato di molti inciampi. Attraverso luoghi e percorsi spesso contrapposti, le parole intraprendono un viaggio già tracciato, anelando a una sola destinazione. Ben mimetizzato tra le pieghe del vissuto, Giuseppe scopre il prezioso privilegio di un'essenza: non essere più bruco e non ancora farfalla ma crisalide che perfora il bozzolo. In questa nuova veste si avvia verso una condizione di non ritorno: quella di essere nuovamente figlio. Ma il cambiamento presuppone il coraggio di attingere a nuova fonte, affinché non venga mai meno il respiro funzionale alle continue introspezioni. È questa fonte a tramutarsi con impeto in smisurata forza di torrente e a trasportarlo verso un improbabile altrove. Da questo non luogo, infine, in un disperato tentativo, cercherà di superare l'ultimo ostacolo: il più difficile.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2024
ISBN9791222735443
Caro Ulderico

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    Anteprima del libro

    Caro Ulderico - Giuseppe Nalli

    a mia madre

    HO CAPITO

    Adesso ho capito che vuoi andare via, l’ho capito.

    L’ho capito dal tuo respiro,

    l’ho capito dal tuo sguardo

    ma fatti tenere ancora la mano,

    fattela tenere ancora un po’. Sì, l’ho capito!

    Adesso ti lascio andare via ma dentro mi porto

    il tepore della tua mano.

    Ceprano 21 settembre 2019 ore 03,15

    Caro Ulderico,

    oggi il silenzio è lacerato dal cigolio dei pedali della mia bicicletta. Ricordi la vecchia Atala? La fine dell’estate, intorno, si snoda discreta sotto queste due ruote che, idealmente, dividono la strada esattamente nel bel mezzo. Io procedo fischiettando un incomprensibile motivo con un altrettanto incomprensibile sorriso stampato sulla faccia. Più in là le sfumature del tramonto che accendono le montagne e la pianura sottostante. Nei miei fuori sella lo stridio dei copertoni si accentua a causa dell’asfalto ancora caldo del sole di settembre.

    Sai, il mio sospetto va man mano prendendo corpo e, credo davvero, che qualcosa d’indecifrabile mi spinga a scegliere sempre questa stessa strada per le mie passeggiate in bicicletta. Ti ricordi di quella volta quando tu stesso mi facesti notare:

    Perché vai sempre su quella strada in bicicletta?

    Ti ricordi che trascorremmo, poi, l’intero pomeriggio a sproloquiare e architettare possibili risposte scomodando persino il padreterno? Beh, oggi mi pongo le stesse domande, ma le risposte non sono le stesse. Tu non sei qui a guardarmi negli occhi mentre ti parlo ed io azzardo lo stesso una serie di risposte, ma non riesco comunque a ricucire l’idea della tua assenza.

    La risposta più ovvia che mi tortura è nella combinazione di colori e sapori, che qui e non altrove, si mescolano così naturalmente. Mentre lo penso, so già che non saresti d’accordo, ma tu non puoi replicare ed io non trovo nessun’altra risposta migliore. Oggi questa strada è così solitaria, ma non mitiga affatto il mio disagio che si trasforma spesso in senso di disadattamento alla vita.

    Caro Ulderico,

    in questo momento l’aria ha uno strano profumo di erba tagliata e bagnata, una specie di muffa aspra, che mi penetra nella gola e, proprio per queste caratteristiche, dovrebbe darmi un senso di nausea, invece mi sono reso conto che quando ho smesso di avvertire questo aroma, automaticamente sono tornato indietro per respirarlo ancora e così di nuovo, per un numero infinito di volte, fino al termine della strada. Solo dopo una serie di andirivieni ho individuato cosa ha catturato il mio olfatto: quel profumo è identico al dopobarba di muschio bianco che mi hai regalato l’anno scorso al mio compleanno. Sai, ne è rimasta solo qualche goccia ma a volerlo ricomprare non si trova, ho fatto anche chiedere altrove e la risposta è la stessa: ‘Non si produce più’.

    Ci sono dei giorni, come oggi, nei quali la tristezza mi assale e tutto riconduce a quel profumo che non riesco a percepire. Ho percorso tutta la strada ripetutamente come un assetato che, vista la fontana, vi si precipita a capofitto per spegnere la sete ma, di quel profumo muffito e aspro, non c’è traccia. Ieri sono tornato a casa ubriaco fradicio di quel profumo e oggi non sono riuscito a catturarne nemmeno un alito. Perché? Cos’è cambiato da ieri? Non ci sono state piogge, la temperatura e l’umidità sono simili, il tiepido sole è lo stesso, anche l’ora è identica.

    Non trovo la risposta e questo mi dà tristezza. Sono triste perché so che tu potresti azzardare delle ipotesi ma non ci sei. Ho elaborato una possibile soluzione ma mi spaventa: che sia io a non essere più lo stesso? E se così fosse, cosa è cambiato in me da ieri?

    Caro Ulderico,

    oggi ti confesso che ogni plausibile chiave di lettura di questo mondo non mi piace più. Sto attraversando una serie inquietante di passaggi obbligati che, in definitiva, non fanno che accrescere

    il mio disinteresse verso questo scampolo di vita. Per assurdo penso anche che, da un altrove sconosciuto, mi potrebbe arrivare una tua risposta soddisfacente, ma ho anche la certezza che le tue parole s’infrangerebbero sul silenzio assordante che ti sei lasciato alle spalle.

    Caro amico mio, fra qualche giorno sarà un anno esatto che

    sei morto, fra qualche giorno sarà un anno esatto che non parli con me. È triste questa vita senza quel profumo di muffa. Ti abbraccio con l’affetto di sempre.

    Tuo Giuseppe.

    Arrotolo nervosamente il foglio recuperando tutta la calma necessaria per farlo passare attraverso lo stretto collo e infilarlo nella bottiglia. Mi preoccupo di chiuderla con un sughero per sigillare a dovere il contenuto. Come con le precedenti la poggio poi, nell’ultimo scaffale in alto del mobile all’ingresso. È questo il posto assegnato alle lettere destinate a Ulderico prima del recapito. Un recapito che significa affidarle alle acque del fiume, come sempre.

    Fatto ciò mi affaccio sull’uscio di casa per uno sguardo sul viale. L’occhio spazia fino all’ultimo tratto della strada, al di là c’è solo terra incolta fino ai margini del bosco. Ogni volta faccio sempre qualche passo in avanti per guardare subito indietro e avere uno sguardo d’insieme sulla casa, apparentemente mal ridotta. Tutte le case sono tristi se si guardano con occhio triste, come pure sono allegre se si guardano con occhio allegro. La mia non è né triste né allegra. È una casa, ma non come tutte le altre. No, perché ho speso un bel po’ di tempo per renderla volontariamente disuguale alle altre. Non certo verniciandola a colori vivaci per dare nell’occhio o predisponendo uno stupendo giardino con fiori rigogliosi. Semplicemente niente di tutto questo; anzi, riguardo alla tinta, in molti punti non rimane più neanche l’intonaco; in quanto al giardino le uniche cose che crescono rigogliose sono le erbacce, circondate da un recinto in ferro battuto ora completamente arrugginito. E forse, in definitiva, proprio questo stato delle cose conferisce particolarità al luogo. Nonostante ciò, persino l’occhio disattento riconosce che in questa casa qualcuno vive ancora.

    Sono conscio di questo e me ne compiaccio perché, in fondo, questa è la mia casa. Lontana anni luce da invivibili condomini e fuori da qualsiasi schema che regolamenta affitti, manutenzioni o diavolerie simili. La mia casa invecchia con il tempo, come tutte le cose: come me. E l’impegno maggiore è proprio questo di controllare e preoccuparmi che gli anni, i mesi, persino le giornate, trascorrano per entrambi di pari passo. Così, a ogni mia ruga, mi preoccupo che sulla casa corrisponda la caduta di un pezzo d’intonaco; a ogni generico acciacco verifico nella struttura della casa la comparsa di un altrettanto progressivo decadimento.

    Uno strano rapporto unisce queste mura alla mia vita, un’intesa segreta. Spesso accade che, un malanno passi dopo un certo periodo, allora corro automaticamente ai ripari, in una sorta di grata riconoscenza, ingegnandomi ad aggiustare un pezzo di tetto, un rubinetto, o qualsiasi altra cosa si sia guastata alla comparsa del malanno. Per questo aspetto la mia memoria è infallibile: ricordo per filo e per segno tutto ciò che bisogna accomodare e tutto quello che, invece, è destinato a rimanere ‘per sempre’ rotto.

    Queste non rappresentano le sole stranezze che riconosco come tali. Due in particolare, tra quelle maggiormente praticate, mi gratificano di più: la prima è contare i passi di separazione per giungere in un determinato luogo, a una meta prefissata; la seconda è contare le rampe di scale per verificare, la volta successiva, se il numero che ricordo è esatto. In entrambi i casi, indovinare, rappresenta un chiaro segnale propedeutico e di buon auspicio per tutte le altre azioni da affrontare nel resto della giornata.

    Qualche anno fa, un amico psichiatra mi aveva avvertito che, col tempo, queste manie sarebbero peggiorate. Non avevo preso troppo sul serio quel consiglio, declinando perfino alcune sedute gratuite di psicoterapia. Dopo aver fatto un’attenta analisi critica, mi consideravo ancora abbastanza normale se nel mondo continuano ad esistere quelli che iniziano a spremere il tubo del dentifricio dal centro o dall’alto anziché dal basso. Se ancora in molti, strappando un foglio a metà, si accontentano del risultato, nonostante lo strappo non risulti perfetto. Se in tanti ancora escono da una stanza e subito vi rientrano insicuri di aver spento la luce. Se esiste anche chi termina la carta igienica e non sostituisce il rotolo. Come pure i tanti che controllano continuamente se hanno chiuso il rubinetto del gas o la serratura della porta di casa. Se ancora in molti si presentano agli appuntamenti sempre in anticipo. O, infine, se una parte considerevole del genero umano non riesce ancora a fare a meno di sommare tutti i numeri delle targhe delle macchine che incontra. Con il tempo mi sono appassionato così tanto all’argomento tanto da effettuare autonomamente delle ricerche, convincendomi, infine, che le mie possono definirsi soltanto delle piccole manie veniali, al contrario di tutti i vari rituali, invece, riconducibili a personalità ossessivo -compulsive.

    Mentre rifletto ancora una volta sullo stato della casa e sull’ordine da assegnare a eventuali lavori di manutenzione, tornano in superfice come un rigurgito, le parole ‘per sempre’. Provo e riprovo ma, alla fine, sono costretto ad arrendermi: non esiste possibilità alcuna di accordare queste parole con tutto il resto, ecco perché suonano stonate.

    In questo momento la frase assume uno strano significato ed è ostaggio di quel dolore che solo la presenza di Ulderico potrebbe mitigare. Con il mio amico lo spazio avrebbe perso consistenza e l’inavvicinabile sarebbe diventato palpabile; il vuoto pneumatico della vita si sarebbe riempito di significati e le incertezze si sarebbero dissipate lentamente come sabbia persa da tasche bucate. Dalla morte di Ulderico in poi non riesco più a tener testa alla vita. Con una rabbia incontenibile, proprio mentre rifletto, riaffiorano alcune frasi dell’omelia funebre: …detto questo, cari fratelli e sorelle, ricordiamo in questa messa funebre, il caro fratello Ulderico che, proprio oggi, si avvia a raggiungere la pace celeste. La morte per noi cristiani non deve essere considerata un distacco dalle cose terrene, ma l’inizio della beatitudine accanto a nostro Signore Gesù Cristo; e, proprio per questo, ancora più d’ogni altra cosa, la sua presenza tra noi deve rappresentare….

    Ricordo bene che, mentre il prete inanellava tutta quella serie di frasi fatte e prevedibili, mi ero distratto a guardare un gruppo di ragnatele che imperlavano il lampadario centrale dietro l’abside. Intanto la mia mano destra nella tasca continuava a stringere quel sasso che, appena due giorni prima, Ulderico mi aveva donato al ritorno dal mare. Ricordo anche di essermi offerto di accompagnarlo e di aver ricevuto come risposta un suo:

    Ti ringrazio di cuore ma oggi preferisco andare da solo con mio cugino, magari un’altra volta. Ci vediamo stasera, però, ti aspetto dopo cena a casa, come al solito.

    Con le ultime sillabe ancora tra le labbra mi aveva dato le spalle e era partito istantaneamente con passo affrettato, quasi a smorzare qualsiasi tentativo di persuaderlo nuovamente. Avevo avuto all’istante la sensazione di essere stato indiscreto, ma la proposta voleva salvaguardarlo soprattutto per la poca dimestichezza che aveva nel guidare e per la poca conoscenza delle strade da parte del cugino Domenico, giunto dalla Germania per un breve periodo di vacanze.

    Ora volto e rivolto questo sasso nella tasca, lo accarezzo con la punta dei polpastrelli e, ancor più le frasi ripetute dal prete, mi risuonano inadeguate. Rimbalzano pazzamente nella mia testa come il volo di un pipistrello entrato casualmente in una stanza e incapace di trovare l’uscita.

    Dopo la funzione mi ero attardato sul sagrato con l’odore d’incenso ancora addosso, in attesa di incamminarmi verso il cimitero. Il personale addetto alle esequie aveva fatto scivolare lentamente la bara sulle ruote guida e, con una spinta misurata, l’aveva collocata all’interno del carro funebre. Un rumore sordo aveva confermato la chiusura del portello, mentre un acuto stridio delle ruote sull’asfalto annunciava la partenza della vettura.

    Nonostante quest’accadere attorno, osservavo alcuni colombi che, sotto quel cielo plumbeo, bucavano alcune nuvole disposte come una collana a bassissima quota e cariche di pioggia. Con questa distrazione avevo perso terreno; intanto che mi guardavo attorno, approfittavo anche per recuperare le posizioni perse, allungando il passo. Non era risultato affatto facile: il corteo procedeva con andatura insolita, quasi con passo affrettato. Trascinata quasi forzatamente da due parenti che la sostenevano da sotto le ascelle, anche Giannina, la madre di Ulderico, procedeva arrancando nelle prime file. Le accompagnatrici si fermavano spesso per farla riposare.

    Io ero uno degli ultimi ma dietro di me, a chiudere la fila, si attardavano due signore sui sessant’anni, occupatissime a scambiarsi la ricetta per un dolce. Per il fastidio provato, le avevo ripetutamente fulminate con lo sguardo, senza riuscire comunque a farle desistere. Intanto, il gruppo compatto, a séguito del feretro, attraversava le strade del paese tra il disinteresse generale. La rappresentazione più triste si era evidenziata mentre transitavamo nella piazza principale: avevo notato, infatti, come la maggior parte delle persone recitasse con falsa partecipazione gli stereotipi tipici del corollario doloroso.

    Giunti in cimitero, mentre la pietra tombale veniva murata, un distinto signore, staccandosi dal gruppo dei parenti venuti da fuori e che nemmeno io conoscevo, aveva offerto una mancia facendola scivolare con nonchalance tra le mani dell’operaio: l’uomo aveva intascato prontamente la banconota senza nemmeno guardarla.

    Proprio in quel momento il corteo aveva iniziato a diradarsi, quasi stesse solo aspettando quello. Io ero rimasto in disparte e aspettavo che tutti uscissero dal cancello principale. Mentre riservavo un ultimo sguardo al viale, notavo casualmente la punta dei cipressi ondeggiare lieve alla brezza. Intanto che m’incamminavo quasi forzatamente, davo un’occhiata distratta qua e là alle tombe in prossimità dell’uscita. L’infinita serie di nomi e di numeri mi aveva fatto vacillare: uno, due, tre, cinque, quindici passi. Un attimo di riposo-eterno-riposo. Un nome, una data e un’altra ancora:

    Sabatini Armando 20/02/1912-17/10/1972.

    Lattavo Rosa 20/04/1887-18/05/1967.

    Malajoli Ester 03/05/1874-14/06/1941.

    Di Maulo Andrea 16/07/1952-18/07/1952.

    Ciolli Tommaso 01/05/1894-24/09/1978.

    Lombardi Arduini 17/09/1909-21/07/1975.

    Bifolchi Domenico 07/05/1887-18/11/1960.

    Berardi Arduino 28/07/1907-15/07/1975.

    Linla Mario 01/05/1912-19/09/1961.

    ‘Siamo una serie di numeri e basta’ avevo pensato guadagnando

    l’uscita.

    Nel rituffare le mani in tasca avevo avvertito nuovamente la presenza del sasso e, contemporaneamente, riaffioravano la voce e la figura di Ulderico. Mi era apparso fermo sull’uscio e pronto ad accogliermi in casa, con il braccio teso e il palmo della mano aperta, mentre pronunciava con enfasi:

    Guarda che t’ho portato dal mare.

    I suoi occhi si erano riempiti d’orgoglio e felicità mentre afferravo il sasso dalle sue mani:

    Grazie, non ne ho visto finora uno più bello. Dove l’hai trovato?.

    Non te lo dico aveva dichiarato Ulderico è un segreto! girando sui tacchi per andare in cucina e suggerendo:

    Ti va un caffè?.

    Avevo deciso di non insistere sull’origine della pietra, sicuro di riuscire a scoprirlo in un’altra occasione. Il tempo, però, non giocava a mio favore. Era rimasto un segreto tra Ulderico e il sasso. O forse tra Ulderico e il mare. In mezzo io, nel tentativo di decifrarne l’essenza. Il mio obiettivo era quello di raggiungere e appropriarmi delle stesse sensazioni che Ulderico aveva provato mentre raccoglieva quel pensiero per me. Sapeva della mia passione per i sassi particolari e ogni volta ne selezionava alcuni veramente unici. Ora mi chiedevo ripetutamente come avrei potuto collocare l’ultimo arrivato nel resto della collezione, sapendo cosa rappresentasse ma, soprattutto, come si sarebbe svalutato una volta mischiato ad altri. Di una cosa ero assolutamente certo: tutta la mia collezione non avrebbe mai potuto eguagliare il valore assoluto di quest’ultimo sasso. Avevo deciso così di non collocarlo tra gli altri ma di portarlo sempre con me.

    Proprio mentre torno a casa, un vento caldo mi soffia alle spalle e mi accompagna con discrezione. La sensazione è piacevole e curiosa ma, nonostante ciò, non mi permette comunque di dare un nome, seppur di fantasia, a questo vento. Penso ai tanti venti africani: all’Harmattan, un aliseo secco che soffia polvere rossa e canta sempre la stessa canzone attraverso il Sahara; al Nafhat, detto la bufera d’Arabia che scompiglia le vesti dei beduini, al Mezzer-Ifoullousen, un vento freddo e impetuoso di sud-est che nasce in Marocco dalle oasi e nelle oasi muore, noto ai Berberi come ‘quello che spenna i volatili’; al Khamsin, la nona piaga dell’Egitto, un vento di polvere che soffia per cinquanta giorni all’ombra della Sfinge; all’Imbat, un vento di mare del Nord Africa che spezza gli ormeggi e affonda le barche di giunco in Tunisia; al Bist roz, che scompiglia l’Iran e l’Afghanistan per centoventi giorni e seppellisce interi villaggi di polvere e di sale. No, forse questo è solo un residuo di Ghibli partito dalla Libia galoppando sulle onde. Questo vento amico mi accompagna fino a casa senza gonfiare e infiammare gli occhi, inaridire e screpolare le labbra, senza provocare dolori al petto a causa delle sabbie che intasano i polmoni.1

    La notte trascorre lenta mentre ascolto ululati di cani che non trovavano pace. Mi giro e rigiro inquieto nel letto senza riuscire a riposare a sufficienza. Al mattino, pensando d’aver dormito per chissà quante ore, mi sveglio di soprassalto, accorgendomi subito che, dall’ultima volta che ho guardato la sveglia, sono trascorse appena due ore e quindici minuti. Disturbato dalla luce, ho anche tentato di coprirmi la testa con le coperte senza riuscire a riprendere sonno, nonostante lo desiderassi veramente. Poi, arrendendomi agli inutili tentativi e masticando un sonoro sbadiglio, mi infilo le pantofole avviandomi verso il bagno.

    Tutte le volte che la notte è inquieta, la giornata inizia come tutte le altre, una fotocopia cucita l’una all’altra da un assurdo filo che sfiora a malapena l’esistenza. Spesso mi alzo di buon’ora e siedo all’ombra del portico per spiare attentamente il giorno che inizia. Ogni tanto mi accendo anche una sigaretta come perenne sfida all’aver smesso di fumare da circa dieci anni. Mi inebria la consapevolezza di riuscire a dominarmi nonostante gli innumerevoli tentativi andati falliti.

    E quando decido di farlo, accanto a me, sul tavolo dimezzato dai tarli, porto un bicchiere di liquore oleoso proveniente da Cuba. Sorseggio lento, senza alcuna fretta, aspirando di tanto in tanto a piene boccate. In queste occasioni inforco anche degli occhiali con una forma stravagante che uso solo di mattina per osservare le cose in lontananza. Non sono certo che mi occorrano veramente ma è tutto il rituale della pulizia delle lenti che mi appassiona. E forse è anche perché li avevo trovati con Ulderico in un giorno di pioggia mentre trafelati, cercando di non bagnarci, ci eravamo rifugiati sotto un anfratto della roccia, di ritorno dalla Montagna Spaccata di Gaeta. Ricordo che mi aveva incuriosito subito quel fodero di pelle di coccodrillo appoggiato sopra una roccia con tre iniziali, A.D.F. In principio, prima di decidere se prenderlo o meno, guardandoci con sospetto attorno, avevamo addirittura scherzato sulle possibili combinazioni che quelle tre iniziali generavano. Poi, terminata la pioggia, avevamo fatto una volata al bar di fronte, per riscaldarci su una tazza di tè e chiedere magari al barista se qualcuno avesse reclamato quegli occhiali. Ottenuta la risposta che ci auguravamo, avevo deciso di provarli davanti allo specchio del bar e, scoprendo che ci vedevo sicuramente meglio guardando lontano al paese sottostante, mi ero convinto a tenerli anche con l’incoraggiamento di Ulderico che intanto mi apostrofava:

    "Sei il

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