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Morire per l'Europa: Storie di lotta e libertà
Morire per l'Europa: Storie di lotta e libertà
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E-book363 pagine4 ore

Morire per l'Europa: Storie di lotta e libertà

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Info su questo ebook

Con la complicità di quindici soldati, nel 1938 un ufficiale dell'Esercito italiano crea a Tripoli, in Libia, l’associazione sovversiva "Europa", con l’obiettivo di «lottare fino alla morte per spargere il seme dell’europeismo, nel solco del grande Mazzini». I cospiratori vengono tutti arrestati assieme al capitano Marcello Pasquale, la cui storia prende forma per la prima volta in questo libro grazie alla consultazione di carte inedite della Polizia politica.

È una delle cinque biografie di altrettanti protagonisti dell’antifascismo e dell’europeismo italiano, poco noti o dimenticati, che tra le due guerre mondiali e durante la Resistenza hanno lottato non solo per liberare l’Europa dai totalitarismi, ma per unire in una Federazione gli Stati del Vecchio Continente e porre fine ai nazionalismi, agli imperialismi e ai conflitti.

Accanto al capitano Pasquale, l’autore indaga le vicende di Giorgio Braccialarghe (anarchico, poi repubblicano, tra i fondatori del Movimento Federalista Europeo), Libero Battistelli (precoce europeista, morto durante la Guerra civile in Spagna), Eugenio Colorni (socialista, coautore del Manifesto di Ventotene, ucciso dai fascisti pochi giorni prima della Liberazione di Roma) e Mario Pistocchi (autore del libro Le Destin de l’Europe che, però, nel 1941 tradirà la causa europeista).

LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2024
ISBN9791256060535
Morire per l'Europa: Storie di lotta e libertà

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    Anteprima del libro

    Morire per l'Europa - Antonio Tedesco

    Antonio Tedesco

    MORIRE PER L’EUROPA

    Storie di lotta e libertà

    Storica

    In collaborazione con Fondazione Pietro Nenni

    Collana di studi storici e politici della Fondazione Pietro Nenni

    Questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo della Regione Lazio, Direzione Cultura e Lazio Creativo, Area Servizi Culturali e Promozione della Lettura, L.R. n. 24/2019, Piano 2023

    © Arcadia edizioni

    Isbn 9791256060535

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    In copertina: Lavoratori, perché il giornale possa resistere ai marosi, bisogna rafforzare i due puntelli. Vignetta di Scalarini sull’«Avanti!» del 18.01.1925

    Tutti i diritti riservati.

    Nota dell’autore

    La presenza di refusi nelle citazioni, in documenti o in alcune note è dovuta alla scelta di pubblicare fedelmente il testo originale.

    Premessa

    Il libro nasce dall’idea di approfondire, con nuove fonti archivistiche, l’impegno di alcuni protagonisti della lotta antifascista e federalista, con l’obiettivo di fornire ulteriori spunti di stimolo e di riflessione sull’argomento che negli ultimi anni ha attirato l’interesse di molti studiosi.

    L’elenco di uomini e di donne che hanno lottato, non solo per liberare l’Europa dai totalitarismi ma per unire in una federazione gli Stati del Vecchio continente, per porre fine ai nazionalismi, agli imperialismi e ai conflitti, è lungo in quanto, com’è noto, nell’intellettualità progressista e antifascista tra le due Guerre mondiali il tema dell’unificazione europea sembra essere sentito. La scelta dei cinque protagonisti del volume è stata fatta tenendo conto di due principali aspetti. In primo luogo, si tratta di figure meno esplorate dagli storici (fa eccezione Eugenio Colorni), pur essendo condivisa la riflessione che abbiano apportato tutti un rilevante contributo alla diffusione di pulsioni e spinte europeiste. Poi, pur avendo avuto un diverso profilo politico e alle spalle percorsi e sensibilità diverse, i cinque protagonisti del volume appaiono accomunati dall’avere una forte idealità e un chiaro progetto politico in senso federalista (anche Pistocchi che poi tradirà la causa). Uomini spinti da forti motivazioni, agganciati alla nobile tradizione risorgimentale italiana ma che, tuttavia, offrono non solo elementi nuovi al dibattito teorico ma portano la battaglia per l’unità europea da un piano utopistico al terreno della lotta politica, fino al sacrificio della morte. Non è un caso che due di loro cadano in battaglia: Battistelli in Spagna, nel 1937, e Colorni a Roma, nel 1944.

    A. T.

    Prefazione

    L’emergere di pulsioni e di pratiche europeiste, fino alla confluenza in progetti ideali più definiti e programmatici, in primo luogo la stesura del Manifesto di Ventotene nei primi anni Quaranta del Novecento, rappresenta un percorso di ricerca ancora meritevole di attenzione e di scavi documentari ulteriori. Se solitamente si è guardato ai contributi di diplomatici, politici e intellettuali pubblici di larga fama – dal conte austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi all’economista italiano Luigi Einaudi, allo statista francese René Briand –, ricca di suggestioni risulta la trama narrativa che sorregge il volume di Antonio Tedesco, inteso a evidenziare il nesso intrinseco tra l’antifascismo e l’orizzonte federalista europeo negli anni tra le due Guerre mondiali. Attraverso una metodologia di ricerca e di narrazione che privilegia cinque esemplari biografie di altrettanti antifascisti democratici, si delinea un avvolgente tessuto connettivo tra culture politiche diverse (anarchiche e repubblicane, gielliste e socialiste), laddove il collante europeista si palesa spesso come un pervasivo campo di riflessione e d’azione.

    Nelle vite stravolte dei numerosi antifascisti costretti all’esilio (tra Europa e America Latina), quando non obbligati al confino o alle carceri di regime, interagiscono l’apprendistato politico – prima e dopo la Grande Guerra – e, soprattutto, l’impatto della dittatura mussoliniana. Si prefigura una sorta di biografia collettiva, nel segno tanto dell’antifascismo quanto di un’utopia europeista che si vuole calare nella pratica della militanza, politica e intellettuale insieme. Il richiamo di alcuni di quei passaggi individuali aiuta a disegnare i fili di una trama tutt’altro che minore, e però ancora troppo frammentaria negli studi: l’ambiguità e gli scarti di certi comportamenti individuali; l’intreccio tra valori ideali e imperativi della vita quotidiana; i contesti sociali e le tradizioni politiche familiari; la difficile integrazione in terre lontane oppure di fronte alla protervia dell’apparato repressivo e spionistico del regime nel disgregare le fila dell’antifascismo.

    Può sorprendere, intanto, che istanze e pulsioni europeiste potessero manifestarsi anche all’interno delle maglie nazionalistico-imperiali del regime, proprio nel momento in cui la campagna coloniale in Etiopia aveva avvalorato un più largo consenso. Come riflesso di un atteggiamento non sempre sovrapponibile tra fedeltà all’istituzione militare e adesione all’ideologia fascista, nel corso del 1938 il Capitano Marcello Pasquale si trovò in Libia, a Tripoli, dove fu coinvolto, con una quindicina di soldati e ufficiali, in un processo del Tribunale speciale. L’accusa era quella di aver promosso un’associazione sovversiva con scopi antimilitaristi, antifascisti e di chiara impronta europeista. Calabrese, ingegnere e militare di lungo corso (era nato nel 1896), il Capitano Pasquale era un ufficiale di iniziale fede mazziniana, passato attraverso il cattolicesimo popolare e quindi un patriottismo di segno integralista, approdato infine a un più esplicito antifascismo europeista. Già antibolscevico in gioventù e invece avvinto dalla decantata missione civilizzatrice del fascismo, agli inizi del 1937 pubblicò a Trieste il volume Europa, in cui dava forma a ideali risalenti agli anni della Grande Guerra. Con una tiratura di 5.000 copie, e quindi con l’auspicio di una larga diffusione, il fine era rivolgere un appello ai giovani europei, contrastando i nemici della pace e con essa dell’Europa. Non mancava il richiamo di Kant e del Risorgimento, ma si guardava soprattutto alle fondamenta politico-filosofiche dell’Associazione Unione Paneuropea Internazionale, fondata da Coudenhove-Kalergi. Il libro non ebbe ovviamente alcun avallo da parte del Ministero della Cultura popolare e ciò contribuì ad allontanare il Capitano Pasquale dal regime. Arrivò la condanna per attività antinazionale, avendo egli esortato all’azione prima che i compari (Mussolini ed Hitler) avessero potuto inficiare qualsiasi possibilità di Unione europea.

    Se a una prima impressione potrebbe risultare problematica la presenza di Mario Pistocchi, almeno dal 1941 registrato nelle fila dei collaborazionisti di regime, in realtà egli rappresentò una delle figure che, all’inizio degli anni Trenta, diede un contributo significativo allo sviluppo del dibattito federalista e per l’unificazione europea. Mazziniano e repubblicano fin dagli anni giovanili, era emigrato nel 1924 a Parigi, dove la ripresa dell’attività politica fu complicata dalle ombre create nella terra natale romagnola dalla dissociazione verso l’antifascismo del Pri nazionale. Eppure, dal 1927, egli ebbe ruoli importanti nella Concentrazione antifascista e negli organismi democratici dell’esilio politico. Emersero le sue competenze politico-culturali, largamente riconosciute e apprezzate. Alla fine del 1930, Pistocchi fu tra i promotori della Federazione fra i comitati italiani all’estero per la Società delle Nazioni, con lo scopo di favorire la costruzione di legami tra gli Stati d’Europa. Diede alle stampe lo scritto Paneuropa di Briand, la cui risonanza lo spinse a trasformarlo in un libro di successo su Le Destin de l’Europe. Notevole fu l’interesse goduto nel circuito intellettuale francese e del fuoriuscitismo antifascista. Emergeva l’influsso della tradizione risorgimentale e di Mazzini in particolare, fautore insieme dell’Italia unita ma anche di una Giovine Europa che prospettava una confederazione di popoli accomunati dai princìpi della pace e della libertà. Era, peraltro, una visione europeista pragmatica e moderna, cui arrise un quasi generale consenso nel mondo antifascista.

    La sfida federalista fu raccolta da un altro antifascista di fede repubblicana quale Luigi Battistelli (Libero). Nativo di Bologna, nel 1927 fu costretto a emigrare, scegliendo come terra d’approdo il Brasile. Muovendosi tra Rio de Janeiro, Parigi e Bruxelles, egli aderì al movimento di Giustizia e Libertà, affermandosi come prolifico ed efficace pubblicista. Sui Quaderni di Giustizia e Libertà, nel 1932 scrisse un articolo su Disarmo e Stati Uniti di Europa, rilanciando il tema della Federazione europea in una chiave critica verso le iniziative diplomatiche, a sostegno invece di una lotta popolare in difesa della libertà, la democrazia repubblicana e la giustizia sociale, contro lo Stato centralizzatore e a vantaggio di istituzioni federaliste. Come a diversi altri antifascisti accadrà, fu lo scoppio della Guerra civile spagnola a richiamare Battistelli in Europa, in quello che fu inteso come un conflitto destinato a segnare l’irriducibile contesa in Europa tra i fascismi e gli antifascismi. In quella guerra egli lasciò la vita. Era anche sua la convinzione che la lotta al fascismo, prima in Spagna e un domani anche in Italia, avrebbe rappresentato un dirimente passaggio nella costruzione di un Federalismo europeo.

    Quanto la tradizione e le relazioni familiari contassero nel percorso di formazione e anche nella costruzione dell’immagine individuale dei militanti antifascisti, lo si vide in relazione a Giorgio Braccialarghe, passato dall’anarchismo al federalismo e che dovette confrontarsi con l’influenza e l’immagine riflessa di un padre libertario e garibaldino, divenuto però acceso sostenitore del regime. Ereditarietà e dissociazione familiari convissero, a partire dalla emigrazione in Argentina, dove, a Buenos Aires, il padre, intellettuale e giornalista di fama, dirigeva il Giornale d’Italia. Fu con l’accorrere in Spagna e l’arruolamento nella legione garibaldina dei fuoriusciti e antifascisti italiani che il suo percorso assunse una chiara impronta, anche nel manifestare il suo credo anticomunista. Arrestato in Francia e consegnato alle autorità fasciste, fu condannato nel febbraio 1941 al confino a Ventotene, dove incontrò Spinelli, Rossi, Colorni e i numerosi antifascisti lì segregati. Fu allora che egli si ritrovò a condividere le ferventi discussioni intorno alla crisi degli Stati nazionali e al progetto in costruzione di una nuova Europa federalista. Caduto il regime fascista, fu attivo nella Resistenza romana come organizzatore delle squadre di azione repubblicane e con Eugenio Colorni si spese nel promuovere il Movimento Federalista. Condivisero anche la convinzione che la Resistenza rappresentasse una guerra di liberazione che consentiva non solo l’ancoraggio al patriottismo del Risorgimento e che rivelasse orizzonti inediti sia per la nuova Italia sia per l’Europa unita.

    Della biografia collettiva che il volume riesce a delineare, Eugenio Colorni è l’ultimo e non casuale protagonista. Di famiglia ebraica milanese e brillante intellettuale (era nato nel 1909), conobbe e sposò Ursula Hirschmann in Germania, dove era andato per approfondire i suoi studi filosofici. Inserito ben presto nella rete dell’antifascismo italiano, quando rientrò in Italia nel settembre 1937, muovendo dalla sua tradizione familiare, fu chiamato a guidare il Centro Interno Socialista. L’arresto lo colpì neanche un anno dopo, quando ormai era in atto la campagna razziale antiebraica. Agli inizi del 1939 si trovò confinato nell’isola di Ventotene. Fu allora che il suo dottrinarismo filosofico si incontrò con l’empirismo di Ernesto Rossi e col realismo politico di Spinelli: la rifusione dei diversi fattori ideali pose le fondamenta del Movimento Federalista Europeo. Il contributo di Colorni si espresse dunque attraverso la coniugazione di un orizzonte insieme europeista e socialista. Nel frattempo, già nel maggio 1943, raggiunse la capitale ed entrò nella clandestinità, connotando la sua lotta antifascista di un forte impegno federalista. Il giornale clandestino Unità Europea illustrò il progetto politico che a Ventotene era stato ventilato. Nel gennaio, Colorni riuscì a far stampare ben 3.000 copie del volume dal titolo Problemi della Federazione europea. Era la messa a punto di un dattiloscritto di testi abbozzati nel 1942, considerata la prima edizione di quello che verrà inteso come il Manifesto di Ventotene. L’eco fu subito ampia e trasversale, sebbene non positiva da parte della dirigenza socialista riunita intorno a Pietro Nenni, che guardò con una certa diffidenza ai temi federalisti. Arrestato e ferito gravemente dai fascisti della banda Koch, Colorni sarebbe deceduto il 30 maggio 1944.

    Ecco allora che l’elaborazione e la diffusione del Manifesto di Ventotene, punto di approdo di questa trama narrativa a più voci, emerge con maggiore chiarezza come il risultato di percorsi biografici – individuali e di gruppo –, più ricco e polifonico di quanto forse avessimo creduto, rimarcando le molteplici connessioni esistenti nel suo laboratorio progettuale tra la storia dell’antifascismo (italiano e non solo) e lo sviluppo delle tesi che avrebbero identificato il Federalismo europeo.

    Roma, 13 aprile 2024

    Maurizio Ridolfi

    I

    Il Capitano Marcello Pasquale e l’associazione Europa

    La quarta sponda dell’impero

    Tra il 29 e il 30 ottobre del 1938(1), nel sedicesimo anniversario della marcia su Roma, quindici piroscafi partono dai porti di Genova, Napoli e Siracusa alla volta di Tripoli. A bordo, stipati come sardine, ci sono circa 20.000 italiani, uomini, donne e bambini, carichi di sogni e speranze. Sono soprattutto famiglie rurali, provenienti principalmente dal Veneto, dall’Emilia, dalle province lombarde di Mantova, Brescia e Bergamo, dalla Sicilia, dalla Puglia, dall’Abruzzo, dalla Calabria e dalla Basilicata(2), convinti dalla propaganda fascista, colma di retorica, a trasferirsi in terra africana, sicuri di un avvenire prospero e fertile. La selezione dei «fortunati coloni», come emerge da un articolo del Corriere della Sera, «è stata compilata in tre mesi da tre Commissioni ambulanti, nominate dal Commissario per le migrazioni e la colonizzazione, costituite da tecnici agricoli, sanitari e amministrativi […] in quelle regioni ed in quelle province che presentano un maggiore indice di pressione demografica. Le domande presentate dai richiedenti sono state esaminate e documentate prima dalle Federazioni fasciste delle province, le quali hanno accertato che le famiglie fossero scelte tra quelle più bisognose e risultassero fornite dei voluti requisiti tecnici, politici, morali e sociali»(3). Afferma Italo Balbo, in un articolo apparso su L’Avvenire di Tripoli: «La colonizzazione intensiva della Libia è quintessenza di fascismo e deve essere compiuta da fascisti di fede sicura»(4). Poi, specifica che le famiglie da scegliere devono essere numerose, composte da contadini temprati, in grado di leggere e scrivere e iscritti al partito. In realtà, si tratta di una soluzione per «alleviare il disagio di elementi volenterosi che non riescono in Italia a svolgere azione laboriosa»(5). Insomma: di disoccupati cronici.

    L’arrivo sulle coste africane, il 2 novembre, viene raccontato in modo trionfale dal Giornale LUCE, con una ripresa aerea su Tripoli, che esalta le opere costruite dal regime, e con retorica più che mai fascista sottolinea che «l’esercito del lavoro ha così posto piede sulla terra dove, sempre più, il deserto dovrà indietreggiare di fronte alla tenacia ed alla fatica costruttrice». Dopo la messa, celebrata da un giovane vescovo davanti ai coloni rurali italiani, si inaugura il monumento con Mussolini a cavallo che sferra in alto la spada dell’Islam. La sontuosa scultura equestre è opera dell’artista Quirino Ruggeri e intende rappresentare il duce amico e protettore del popolo musulmano. «Lo spettacolare evento, organizzato dal Commissariato per le migrazioni interne, rappresenta per il regime un’occasione propizia per propagandare la sua opera»(6). Prende così inizio, «considerando chiuse sia la fase della colonizzazione capitalistica, sia la prima fase della sperimentazione della colonizzazione statale»(7), la terza fase della colonizzazione demografica, definita intensiva(8), della quarta sponda dell’impero mussoliniano, con l’obiettivo di evitare, come abbiamo visto, nuove emorragie di giovani forze all’estero e di arginare la piaga della disoccupazione. Il piano presentato a Mussolini prevede di «convogliare» nei 26 nuovi villaggi colonici libici(9), nel biennio 1938-1939, «tremila famiglie di coloni italiani pari a circa trentamila persone»(10). Cambiano, dunque, i piani del regime per la colonia libica: si va verso il frazionamento delle concessioni latifondiste – in una fase in cui, come rileva Balbo, la funzione del latifondo è combattuta dalla concezione fascista(11) – della prima fase della colonizzazione, con l’istituzione della piccola proprietà rurale dove insediare agricoltori italiani per produrre olio, mandorle, uva, cereali, fichi d’india, agrumi e altra frutta. Ad allettare diverse famiglie il sogno di una vita prospera e alcune condizioni vantaggiose, possibili grazie ai contributi del Ministero dell’Africa italiana. Infatti, per le famiglie dei coloni è previsto un sussidio a fondo perduto sul costo complessivo del podere del 30% circa. Il resto deve essere ammortizzato dai coloni in un periodo variabile, dai 30 ai 40 anni circa, con tassi di interesse molto bassi. La casa rurale, dotata di pozzo artesiano, tre camere da letto, stalla e piccolo magazzino con le relative attrezzature per avviare l’attività(12) e un appezzamento, che varia dai 20 ai 50 ettari, appare una dimensione ideale per molte famiglie povere italiane. Inoltre, la Cassa di Risparmio di Tripoli viene autorizzata a concedere prestiti a tassi bassissimi. Nel 1939 si contano in Libia circa 120.000 italiani(13). Nella sola capitale sono 40.000, praticamente il 37% della popolazione della città. L’artefice della nuova politica del regime verso la colonia è Italo Balbo(14), governatore della Libia dal 1934, che ha ricevuto da Mussolini – per il suo esilio dorato – l’arduo compito di trasformare un vasto territorio sterile e arretrato «in un’estensione prospera dell’Italia, una quarta sponda da aggiungere alle coste tirrenica, adriatica e siciliana»(15). I centri più importanti della colonia, che nel 1939 diventerà la diciannovesima regione d’Italia e verrà divisa in quattro Commissariati provinciali (Tripoli, Misurata, Bengasi e Derna), sono collegati dalla Litoranea Libica, detta anche la via Balbia, che si sviluppa per circa 1.882 chilometri dal confine tunisino a quello egiziano. Con il nuovo governatore, il fascismo ha avviato in quel territorio un corposo e dispendioso piano di opere pubbliche, tra cui la costruzione del Palazzo Piacentini e il lungo muro protettivo verso l’Egitto(16). Poi, con il pugno di ferro e con un numero considerevole di soldati viene assicurato il controllo e l’ordine pubblico di una regione dove la guerra coloniale è durata un ventennio(17).

    Balbo, pur riconoscendo «un aumento del livello di civiltà delle popolazioni arabe», è consapevole dell’utilità di un’azione politica ed economica di largo raggio sulla Libia, per arginare possibili focolai di rivolta, considerando «che il mondo mussulmano è profondamente turbato e agitato e mira ad una vasta solidarietà islamica»(18). Inoltre, non gli sfuggono problemi di carattere militare, come l’esigenza di reclutare uomini del posto considerando che «la situazione internazionale poteva porre la Libia all’eventualità di doversi difendere da ogni parte»(19). Pertanto, il regime procede a una riorganizzazione delle forze armate della Libia allo scopo di potenziare l’apprestamento militare di quella colonia. La difesa e la sicurezza della Libia sono affidate al Regio corpo truppe coloniali: nel 1938 le forze dell’Esercito, insieme alle truppe libiche, ammontavano a circa 60.000 uomini. Tuttavia, proprio in seno all’Esercito di stanza in Libia, emergono tra i soldati alcuni segnali di disaffezione al regime. Gli stessi ufficiali coloniali, portatori di un sistema di valori alieno alla nuova gerarchia razziale voluta dal fascismo, talvolta mal sopportano la fatica e i lunghi periodi di lontananza da casa. L’esperienza diretta di tanti giovani soldati con l’orrore della guerra affrontata senza adeguati mezzi, con un rancio che non basta a saziare la fame, contribuisce a far vacillare la fede nel fascismo e nell’infallibilità del duce. Per reprimere il malcontento, che si cela in alcuni apparati dell’Esercito, il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato in Libia deve processare diversi militari per comportamenti non consoni all’uniforme indossata e per atteggiamenti palesemente ostili al regime. Nel 1938, tra i diversi processi imbastiti dal Tribunale Speciale di Tripoli, seppur tenuto segreto, appare rilevante quello a carico di 15 militari accusati di aver costituito un’associazione sovversiva in seno all’Esercito che propugna ideali antimilitaristi, antifascisti e soprattutto europeisti. Il capo di questa associazione è Marcello Pasquale, Capitano presso l’Ufficio Lavori del Genio del 20° Corpo d’Armata dell’Esercito italiano di stanza a Tripoli, controversa ma interessante figura di ufficiale mazziniano, passato, come vedremo, man mano dal cattolicesimo popolare a forme di esasperato patriottismo, per poi approdare all’antifascismo e a sentimenti europeisti.

    Chi è Marcello Pasquale?

    Da un breve profilo biografico, pubblicato sulla rivista Vivere, emerge che Marcello Pasquale «è un uomo molto colto che tiene in serbo il suo animo repubblicano e mazziniano»(20). Dopo aver frequentato le scuole elementari a Sant’Onofrio, piccolo comune in provincia di Catanzaro (oggi in provincia di Vibo Valentia), dove è nato nel 1896, all’età di 11 anni è passato ai banchi del seminario di Mileto per ricalcare le orme dello zio, l’omonimo Arciprete Marcello Pasquale, distinta figura di prelato molto influente nel territorio, finito per essere attenzionato dalla Polizia per le sue posizioni poco in linea con i dettami del regime(21). Tuttavia, la vocazione alla carriera spirituale dura solo poco tempo. Il giovane calabrese nel 1914 è già fuori dal seminario, torna dalla famiglia e poco tempo dopo consegue il diploma al Liceo di Vibo Valentia. L’anno seguente viene arruolato nell’Esercito. Ammesso al corso accelerato Allievi ufficiali di complemento, frequenta la scuola militare di Modena, poi quella di Avellino e ottiene la promozione a Sottotenente. Il 7 agosto del 1916 raggiunge la zona di guerra e viene inviato sul fronte dell’Isonzo. Da buon mazziniano partecipa con convinzione a quel conflitto contro l’impero austro-asburgico e dimostra subito molto coraggio. Pochi mesi dopo, nel novembre del 1916, sebbene malato, «rifiuta il ricovero in ospedale per seguire il suo battaglione sull’Altipiano, per prendere parte ad una sua progettata offensiva. Si dimostra sempre ufficiale intelligente e volonteroso, dotato di spirito di sacrificio, resistente alle fatiche e ai disagi, allenato alla vita sana, calmo e ardito di fronte al pericolo. Esercita molto ascendente sui dipendenti da lui guidati ed educati con amorevole sollecitudine, riscuotendo profonda e rispettosa affezione»(22), si legge sul suo libretto militare. Il 20 maggio del 1917 viene ferito durante un’offensiva sul Carso. Per tale ragione riceve un encomio: «Comandante di plotone con calma e coraggio manteneva compatto il proprio reparto, nonostante l’intenso e prolungato bombardamento nemico, slanciandosi poscia risolutamente all’assalto finché cadde ferito»(23). Dopo un mese di ricovero all’ospedale di Ravenna e dieci giorni di convalescenza nella sua S. Onofrio, è già di nuovo operativo e rientra al fronte con la 989a Compagnia mitraglieri F.I.A.T. del 123° Reggimento fanteria. Il 29 luglio ottiene la promozione a Tenente. Finisce la guerra ma non si placa il suo ardore patriottico. Nel 1919 chiede di essere mandato in Libia. Viene accontentato. A febbraio è a Tripoli come Tenente di complemento di fanteria presso la Brigata Lecce, per combattere «contro gli arabi ribelli, in prima linea nei pressi di Bir-Fargian a circa 15 km a sud di Tripoli»(24). Chiede anche di andare in Marocco in appoggio delle truppe franco-spagnole per sedare la rivolta delle tribù rifiane guidate da Abd el-Krim «convinto che ogni europeo debba difendere gli interessi europei sempre e in qualunque parte del mondo»(25). Questa volta non viene accontentato. Rientra due mesi dopo in Italia. Si iscrive all’università e al Partito Popolare, fondato proprio quell’anno da Don Sturzo. Fa vita ritirata a Sant’Onofrio e «non conversa con nessuno»(26). Nel 1920 ci congeda con il grado di Tenente del Genio per dedicarsi completamente agli studi universitari. Agli inizi del 1922 si avvicina ai combattenti, ma appena nasce il PNF se ne allontana e questo non sfugge alla Polizia: «Non prenderà mai la tessera del partito»(27). L’11 agosto del 1923 si laurea in Ingegneria civile nella Regia scuola Politecnica di Napoli. Studioso e scrittore versatile, Marcello Pasquale si diletta a comporre poesie, ama l’arte e ha una passione per Dante Alighieri. «All’apparenza è un tranquillo e bonario signore, quasi schivo, ma in realtà è tutto fuoco, entusiasmo, con un perenne ideale di giovinezza»(28). Tuttavia, nella scheda conservata nel casellario politico, emergerebbe una macchia nella sua biografia: «Pregiomi comunicare che Marcello Pasquale fu Giuseppe e di Durso Marianna nato a Sant’Onofrio […], nel 1923 a Vibo Valentia, ove aprì una agenzia di affari per il disbrigo di pratiche per concessione di mutui a proprietari di case danneggiate dal terremoto, si faceva consegnare da quest’ultimi delle somme, trascurando completamente dette pratiche, tanto che parecchi finirono col perdere il diritto al mutuo per prescrizione. Pare che con tale sistema sia riuscito a realizzare la somma di lire 200.000. Per sfuggire alle continue insistenze e richieste dei clienti è riuscito ad ottenere la riammissione del R. Esercito e ad essere incorporato nell’Arma del Genio. Il Prefetto della R. Prefettura di Catanzaro»(29). Forse una calunnia: «Non consta che i clienti lasciati in asso dall’ufficiale abbiano sporto denunzia o reclamo», rilevano i Carabinieri. I militari, però, non escludono un possibile intervento riparatorio «dello zio Arciprete e del fratello avvocato»(30). Riammesso all’arma del Genio viene destinato prima a Firenze e poi a Trieste, «dove dimora per circa 10 anni»(31). Nel 1934 ottiene la promozione a Capitano dopo aver superato brillantemente un corso a Civitavecchia. Quando il regime invade l’Etiopia, guerra che consente al fascismo di raggiungere il livello massimo di consenso(32) – seppur non a tutti gli italiani è chiaro quali siano

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