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Esmeralda
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E-book328 pagine4 ore

Esmeralda

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Info su questo ebook

Dopo la laurea e senza uno straccio di lavoro, il giovane Virgilio Medici si vede costretto ad accettare l’offerta di una presunta detective. L’investigatrice in questione si chiama Esmeralda Collins ed è un’eccentrica anziana signora in sovrappeso, zoppa, dal carattere esuberante e, soprattutto, cieca.
Come si può svolgere il mestiere dell’investigatore privato senza poter fare affidamento sulla propria vista?
Il primo caso che vede coinvolta la strana coppia tocca da vicino Virgilio, in quanto la vittima è imparentata con il suo coinquilino. Secondo gli inquirenti, però, la sorella di Luca è morta per cause naturali e non cambiano idea nemmeno quando una seconda studentessa universitaria perde la vita in circostanze simili. Tuttavia, Esmeralda e Virgilio non sono dello stesso avviso e, avvalendosi dell’aiuto di un cane guida di nome Quasimodo, se ne andranno in giro per la subdola e pungente città universitaria di Bologna dando la caccia a un pericoloso serial killer.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2024
ISBN9788855393676
Esmeralda

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    Anteprima del libro

    Esmeralda - Manuel Vestrucci

    Un malore in via del Guasto

    Camminando, la ragazza lascia dietro di sé il cigolio emesso dai suoi stivali ancora nuovi di pacca. Ignora quel fastidioso scricchiolio così come ignora il fatto che mancano solo cinquantadue secondi alla sua morte.

    I suoi stivali neri sono talmente lucidi che quell’infantile di suo fratello li ha definiti gli stivali di Batman e, a ogni cambio di direzione, il cigolio diventa così forte da attirare l’attenzione degli altri passanti su di lei.

    Ma la ragazza non ci fa caso e ha due motivi per non pensarci. Il primo è che non ha tempo e il secondo, e più importante, non vuole dare ragione a quel clown di suo fratello Luca.

    Lui e le sue stramberie.

    È appena uscita da Ribelli & Contenti, una boutique in formato mignon che si affaccia timidamente in Via delle Belle Arti. Stefania conosce Carla, la proprietaria, da più di cinque anni e adora il suo gusto. Il limitato assortimento di Ribelli & Contenti ha tutto ciò di cui ha bisogno: campionario esclusivo delle grandi case di moda e poca scelta in cui perdersi. Altrimenti spenderebbe pomeriggi interi, provando gli abiti più disparati, confondendosi e smarrendo la cognizione del tempo.

    Quel negozietto senza insegna, che dall’esterno si può scambiare per il covo di un inquietante contrabbandiere di cuccioli di animali o di un annoiato rigattiere dai capelli bianchi, è il segreto del suo successo. Grazie ai capi di Ribelli & Contenti può andare a ballare al Numa Club con outfit ogni volta unici e impossibili da copiare. Le sue hater non sarebbero riuscite a rintracciare quel posto neanche rovistando alla ricerca di qualche indizio nella sportina che ora tiene in mano e che le sfiora la coscia a ogni passo. Infatti, Carla non batte lo scontrino e, non avendo né marchio e né insegna, ripiega i capi in sportine generiche, a volte persino di altri esercizi commerciali, totalmente anonime.

    Anonime come la casa in cui vive Stefania, al terzo piano di un vecchio condominio malandato dove l’ascensore non funziona e le scale interne, crepate, hanno una ringhiera che puzza di carciofo. Il suo appartamento ha un pavimento a macchie e un mobilio in legno lucido che è talmente fuori moda da far accapponare la pelle. Per non parlare della cucina che ad occhio e croce potrebbe avere più anni di lei. Le padelle, le pentole e i piatti che le ha lasciato la proprietaria, spacciandole per regalo, potrebbero avere più anni dei suoi genitori.

    A parte la senescenza che quell’appartamento emana da ogni angolo, Stefania non può dire nulla sulla zona. Vive nel Ghetto ebraico, in una posizione centrale della città e la proprietaria, la signora Maestri, è una vecchietta tanto cara e gentile che, se non fosse che cena alle quattro del pomeriggio, inviterebbe volentieri a mangiare fuori. Inoltre, sforna ottimi biscotti al cocco.

    Stefania ha trascorso l’ultimo anno a lamentarsi dei difetti del suo alloggio sbandierando ai quattro venti di volerlo cambiare, ma chissà se avrà davvero bisogno di un posto nuovo dove trasferirsi a partire dall’autunno. Il contratto con la signora Maestri scade ad agosto, l’università invece a luglio. L’ultimo anno di Scienze della Comunicazione è agli sgoccioli ed è ancora indecisa se cercare lavoro nella città dei portici oppure se avvicinarsi a casa, rientrando in quel di Jesi. Stefania adora la biodiversità unica e avvolgente di Bologna, perché solo una città universitaria ha un cuore così pulsante. Ogni mattina, quando i raggi del sole penetrano tra le fenditure del vecchio stipite in legno smangiucchiato dagli insetti della sua camera, Stefania ha sempre l’impressione che la giornata che inizia sia un foglio bianco e che possa accaderle qualsiasi cosa. Mentre a Castelrosino, nel comune di Jesi, non funziona così. Lì, il massimo che può succedere è che ci sia un improvviso blackout, il panettiere resti senza il suo pane preferito o che l’impianto di irrigazione del suo vicino, il signor Scalviati, abbia una perdita.

    Così pensando, Stefania gira in via Del Guasto.

    È una scorciatoia che le ha suggerito un compagno di corso e che le ha cambiato la vita perché ora risparmia cinque minuti ogni volta che torna a casa dalla facoltà e, soprattutto, non ha più problemi con le fotocopie dei libri di testo.

    Di recente, la Guardia di Finanza ha inasprito le sanzioni per chi non rispetta la legge in tema di riproduzioni clandestine, portando molte copisterie a rifiutarsi di fotocopiare i libri universitari. Tante, tantissime copisterie, ma non la Paper Copy di Via del Guasto.

    A discapito delle apparenze, con un locale buio e polveroso, alla copisteria di Sparalesto gli affari vanno alla grande. Ernesto, così soprannominato per via di un vecchio cartone animato che aveva come protagonista un cavallo con il cappello rosso come il suo chiamato Ernesto Sparalesto, non è il tipo che si spaventa con poco. Nel giro di cinque minuti, infatti, Stefania entra da Paper Copy e poi esce salutando l’uomo con il cappello.

    A metà della scorciatoia, la ragazza supera una signora che procede al rallentatore, sorretta dal proprio deambulatore, e poi evita all’ultimo un paio di ragazzi di origini africane che vanno controcorrente e che, come è insito nella loro indole, parlano ad alta voce, si divertono e aggrediscono la vita.

    È anche per quello che Stefania ama Bologna.

    Come ci si può sentire cittadini del mondo se si vive in una piccola frazione di appena ottocento anime dove tutti si conoscono fin da quando sono nati e non hanno mai messo il naso oltre il giardino di casa? A Bologna, ogni passante racconta una storia, la sua, anche solo per il modo di vestire, di camminare o di parlare. È sufficiente fermarsi in qualche bistrot a pranzo o in qualche pub alla sera per incontrare persone dalle origini lontane, dagli accenti esotici e dalle vicende straniere. E basta parlarci dieci minuti per scoprire nuove consuetudini e usanze.

    Anche questo, in fondo, è un modo per viaggiare e imparare.

    Allungando il passo, Stefania supera anche un uomo che porta il cane a passeggio e, mentre si domanda se quest’ultimo fosse o meno fornito di un sacchetto per raccogliere i bisogni dell’amico peloso, sbatte contro una donna, spalla contro spalla. Non fa in tempo a girarsi per fulminarla con gli occhi, che Stefania incrocia un nuovo passante che le starnutisce praticamente addosso. D’istinto, la ragazza si copre la bocca con la lunga sciarpa che indossa più per vanità che per altro, augurandosi di aver evitato così l’ondata di germi.

    All’improvviso, la vista di Stefania si offusca e le ginocchia sono scosse da un fremito, pochi passi veloci e cedono di schianto. La ragazza si accascia al suolo, con la gola improvvisamente ostruita, ristretta al punto da impedirle di respirare, tantomeno gridare o chiedere aiuto. Dubita che la vecchia possa sentirla, ma i due ragazzi africani che sono ancora nei paraggi forse sì. Si porta entrambe le mani alla gola e apre la bocca per urlare, ma non esce nulla.

    Neppure un filo di voce.

    Stefania si contorce in terra, quando le si avvicina un signore con un lungo impermeabile. Lo nota nonostante il suo viso sia ormai a contatto con il marciapiede che puzza di smog e pipì di cane, forse lo stesso che ha incrociato poco prima. Cerca con gli occhi gli altri passanti ma non c’è traccia della stronza che le ha rifilato una spallata gratuita, così come della vecchia signora con il deambulatore. Come l’altra, anche lei sembra essersi volatilizzata.

    Stefania si accorge di un gorgoglio, come la friggitrice di quel ristorante cinese in cui ha cenato appena tre sere prima. O forse erano quattro. La sua memoria è nebulosa, i ricordi confusi, mentre quel ribollire di acqua è vicino, ma Stefania non capisce da dove arrivi. Si accorge che l’uomo con l’impermeabile si china su di lei, la guarda dritta in faccia e sgrana gli occhi.

    Cosa ha visto?

    La ragazza riconosce la paura nelle pupille dell’uomo, che estrae il telefono dalla tasca, ci smanetta con tanta frenesia che per poco gli scivola dalle dita. Chiama qualcuno, forse i soccorsi.

    Parla a voce alta, è agitato.

    Quando Stefania capisce che il gorgoglio che sente proviene proprio dalla sua bocca, dalla quale fuoriesce qualcosa di simile a tante bolle di sapone, è troppo tardi. Le parole e i suoni sono fischi confusi, le immagini e i colori sono luci e ombre indistinte.

    L’annuncio

    Mi attacco alla vetrina creando una capannina con le mani per combattere il riflesso e spiare all’interno del locale, che scopro essere buio. Niente da fare, anche quell’ufficio di collocamento è chiuso. È il terzo in cui mi imbatto oggi.

    Segno del destino?

    A questo punto mi domando quanto siano utili quelle pseudo attività che dovrebbero aiutare i giovani a entrare nel mondo del lavoro e se facciano davvero al caso mio. In fondo, non cerco niente di speciale, giusto qualcosa che possa permettermi di prolungare il soggiorno in quel di Bologna, senza elemosinare altro denaro da mamma e papà. Finché avevo la scusa dell’università erano ben disposti a sborsare centinaia di euro ogni mese per l’affitto, ma ora dicono che sono diventato grande e che se voglio restare in città devo farlo contando sulle mie sole forze.

    A proposito di affitto, dove ho messo le chiavi di casa? Controllo la tasca di destra, niente. Un pacchetto di fazzoletti e il portafoglio. Prima di provare la sinistra, tiro un sospiro di sollievo. Mi stavo già dimenticando dell’ultimo upgrade. Ora, infatti, il mazzo di chiavi è assicurato a un moschettone appeso alla cintura. È a prova di stupidi, impossibile da smarrire o da rubare. Perfetto per me. Inoltre, ho aggiunto anche un portachiavi che fa da cavatappi, per le emergenze alcoliche dell’ultimo secondo.

    In realtà, mi è capitato di perdere le chiavi solo una volta, ma è bastato quell’episodio per mandarmi in paranoia. Prima di acquistare il moschettone alla Montagnola mi controllavo le tasche ogni cinque minuti per assicurarmi di avere sempre le chiavi di casa con me. Una frequenza ai limiti dell’ossessione.

    Ma in fondo, cosa in me non può definirsi tale?

    Questa mattina sono uscito con la scusa di fare una passeggiata per la città e lasciare qualche curriculum in giro, ma è già mezzogiorno e non ho combinato nulla.

    Be’, quasi nulla.

    Tanto per cominciare ho fatto colazione e con il resto di quei cinque euro ho comprato un gratta e vinci. Ma ho perso.

    Per questo ne ho preso un secondo.

    Ma ho perso di nuovo.

    Passeggiando verso casa a testa bassa, scalciando nei sassolini ed evitando le gomme da masticare in terra, mi domando cosa mi aspettassi di concludere in quelle poche ore a zonzo per la città. Già, cosa mi aspettavo? Trovare il lavoro della vita? Scoprire una miniera d’oro che, anche se sotto gli occhi di tutti, nessuno ha mai notato? In questo periodo storico tutti parlano di quanto sia difficile trovare un lavoro, al punto da ricamarci sopra servizi e reportage a rotta di collo pure per il telegiornale della sera, quello di gran lunga più autorevole nell’arco delle ventiquattro ore. O così immagino.

    Comunque, forse è colpa mia.

    Fin da piccolo sono sempre stato convinto, per qualche strana ragione, di essere speciale, il predestinato a cui, in caso di bisogno, sarebbe bastato bussare a qualche porta e sostenere uno o due colloqui per acchiappare un contratto oltre ogni aspettativa. Non un lavoro qualsiasi in un posto qualsiasi, bensì il più divertente e ben retribuito nel migliore ufficio di tutta Bologna.

    Che illuso.

    Se un posto è davvero buono, per accaparrarselo, oltre a una buona dose di competenze (che non ho), ci vuole davvero una buona dose di fortuna e ormai lo sanno anche i muri che io, Virgilio Medici, di fortuna, ne ho davvero poca.

    I gratta e vinci della mattina ne sono la dimostrazione.

    Però credo nel karma. Se si continua a fare del proprio meglio, gli sforzi vengono ripagati. Poi come, quando e da chi, in realtà, non lo so.

    Però ci credo.

    Se è destino che io continui a vivere Bologna, qualcosa accadrà. O meglio, mi cadrà, sì, addosso dal cielo. Un lavoro, una fidanzata che mi mantenga oppure qualcosa di più mistico, come un enigmatico segnale cosmico da interpretare. In fondo, la vita è un insieme di segni e simboli, un’accozzaglia di suoni, immagini e profumi in cui basta veramente poco, un evento, un singolo evento scatenante, per prendere la tangente, ribaltando tutto. Un po’ quello che potrebbe accadere vincendo una somma a sei zeri con un gratta e vinci comprato dal tabaccaio.

    Forse è per questo motivo che li compro, mi dico.

    Non sono un malato del gioco d’azzardo né credo che esistano sogni o visioni in cui compare qualche caro defunto o personaggio famoso che sia, che arriva con il quaderno a quadretti e ti dice di prendere appunti, dettandoti i numeri fortunati su cui scommettere e, magari, anche su quale ruota giocarli.

    E poi non sono del tutto convinto che i soldi facciano la felicità. Sono un ottimo comburente, per l’amor del cielo, però il combustibile siamo noi stessi. Credo che l’evento che ti cambia la vita possa arrivare sotto innumerevoli forme e quella della vincita in ricevitoria, in fondo, sia una delle migliori. Finanze fresche da spendere, investire o scialacquare a piacimento. Chi si lamenterebbe? A quel punto altro che problemi a pagare l’affitto, di case a Bologna ne compro almeno cinque.

    Mi fermo al semaforo di Porta San Vitale e aspetto che diventi verde per i pedoni. Al mio fianco una nonnina con i capelli bianchi cotonati parla al telefono con qualcuno, forse il figlio. È su tutte le furie perché chiunque sia dall’altro capo della cornetta non è passato a ritirare degli abiti in tintoria. La squadro da testa ai piedi, cercando di non farmi notare. Forse ho sbagliato a considerarla tanto vecchia, perché indossa tacchi vertiginosi e occhiali da sole a dir poco aggressivi. Magari si è solo verniciata i capelli di bianco per darsi un tono, alla Crudelia De Mon. Sono quasi certo che la donna con il pallino per le pellicce di dalmata avesse i capelli bianchi. Però potrei ricordarmi male, la memoria non è il mio forte. Le chiavi lo dimostrano.

    Il semaforo diventa verde e la signora mi brucia alla partenza. Accuso il colpo e mi soffermo per guardarla camminare. Nonostante i tacchi, sembra un’atleta intenta a gareggiare alle olimpiadi della marcia. Viaggia così veloce che forse non sarei in grado di tenere il suo ritmo neanche se corressi.

    Peggio per lei che va tanto svelta, io non ho fretta di andare da nessuna parte e quindi me la godo. Attraverso via Torleone, fischiettando. Mi chiedo cosa potrei preparare per pranzo e, soprattutto, se ho davvero voglia di mettermi all’opera. Mi piace cucinare in casa, mi aiuta a staccare e rilassarmi; però non sono un cuoco provetto e se Alessandro Borghese procedesse nell’ispezione della mia cucina penso mi butterebbe fuori da Quattro Ristoranti a suon di calci nel culo per il disordine che regna sovrano.

    Una folata di vento si alza dalla via adiacente e un volantino mi si attacca addosso, come se io fossi una calamita e lui una vite di ferro. Aderisce al punto da avvolgere l’intera circonferenza della coscia. Lo strappo da lì e gli do un’occhiata distratta. L’ultima volta che ho perso tempo a leggere uno di quei dépliant che qualche povero diavolo consegna agli angoli delle strade, si parlava di apocalisse e di fine del mondo. Ecco, ad esempio, distribuire in giro brochure che parlano di morte e cataclismi è un pessimo lavoro. Trascorrere le giornate in piedi, sul ciglio della strada a fingersi gentili e accomodanti con i passanti che ti mandano a quel paese è un lavoro che rifiuterei senza tentennare. Quello e tutti gli altri mestieri in cui si cerca di vendere qualcosa alla gente, che sia dal vivo o per telefono, che sia una vera occasione d’oro o una truffa.

    Il biglietto in questione è l’ennesima pubblicità, credo di un sito. Leggo la descrizione solo perché la terza parola in cui m’imbatto è lavoro. Il portale di cui si parla si chiama Bakeca.it ed è una piattaforma dove ci si può registrare gratuitamente per trovare lavoro o ricercare qualche professionista in grado di esaudire le proprie richieste. Nessuna parola però su quale sia il sistema per essere ripagati del lavoro svolto. O sulle tariffe.

    Magari ognuno ha le sue.

    Poi dieci minuti più tardi, inserisco la chiave nella serratura della porta dell’appartamento in cui vivo in affitto da cinque anni, il mio meraviglioso attico di via Massarenti. Mi siedo alla scrivania e apro il portatile. Sento la ventola del mio vecchio laptop sgassare come un motorino scarburato. Inserisco la password accedendo al mio account e apro il motore di ricerca.

    Digito Bakeca.it e mi ritrovo in un sito dai colori autunnali. Anche se dovrei iscrivermi per visualizzare i contenuti, posso comunque navigare tra le inserzioni che compaiono nella home. In alto a destra c’è una casella di testo affiancata da una lente d’ingrandimento, il simbolo universale per la ricerca. Si apre una pagina con una fila di icone. C’è la casa, la ventiquattrore, il classico cervello umano formato da ingranaggi, un’automobile e due mani che si stringono per suggellare un accordo.

    Le solite icone, insomma.

    Mi sposto con il cursore sulla casella che mi chiede dove intendo cercare lavoro. Vado per scrivere Bologna, ma già dopo le prime due lettere, mi compare il nome della città come primo suggerimento.

    Cinquantacinque annunci.

    Intuisco quali non siano ancora stati soddisfatti perché hanno una lucina rossa a fianco. Acerrimo rivale del verde al semaforo, il rosso è un colore unanime e globalmente riconosciuto. Significa che qualcuno che ha bisogno d’aiuto c’è ancora. Ottimo, penso, più possibilità di lavoro per il sottoscritto. Avvicino il viso allo schermo come per vederci meglio, anche se in realtà ci vedevo già benissimo. Quel movimento automatico è solo un modo per dire a me stesso: adesso mi concentro.

    In realtà, però, non ho bisogno di farlo così come non avrei nemmeno bisogno di scorrere verso il basso l’elenco di opportunità perché la terza voce attira subito la mia attenzione.

    SELEZIONE PERSONALE PER LAVORO DI LIVELLO

    A.A.A. cercasi giovane laureato pratico di Bologna, disposto a svolgere lavoro d’ufficio, di ricerca e con salario proporzionale al lavoro svolto. No perditempo, no allergici ai cani.

    A differenza delle due offerte che la precedono, non sono richiesti requisiti minimi o competenze specifiche. L’annuncio parla di laurea in termini generici senza mettere vincoli sull’ambito di studi e, inoltre, fa riferimento a un non meglio precisato lavoro d’ufficio. Solo una cosa mi sfugge. Perché dovrei essere pratico di Bologna? Per non perdermi mentre mi reco al lavoro?

    Gli unici vincoli stringenti sono sull’allergia per i cani e sui perditempo. Non so se sono un perditempo perché ancora devo capire che genere di adulto voglio diventare nella vita, però so per certo che non soffro di alcuna allergia ai cani. E tanto basta. L’annuncio è abbastanza vago da farmi ben sperare e abbastanza amletico da incuriosirmi. Possibile che questa volta il destino abbia davvero bussato alla mia porta? Inoltre, parla di stipendio proporzionale al lavoro e mi pare un’ottima soluzione. Clicco sull’annuncio e il sito mi chiede se ho già un account. In caso contrario, devo iscrivermi. Lo faccio in cinque minuti che sarebbero stati due se mi fossi ricordato a memoria il codice fiscale e la password della casella di posta accademica che uso per le comunicazioni più importanti.

    Munito di account, seleziono sull’annuncio e si apre una tendina di dettagli. A quanto pare posso avanzare una candidatura per il posto e, in caso di disponibilità della controparte a sostenere un colloquio, mi sarà indicato l’indirizzo. Per ora, l’unica parte del civico che conosco è il nome della via ed è una delle più centrali della città, almeno per gli universitari: Via Zamboni.

    «Sembra perfetto» mormoro.

    Per fortuna il mio coinquilino non è in casa perché, ogni volta che parlo ad alta voce con me stesso, Luca mi rimprovera. Dice che è stanco di sentire i miei pensieri e che penso troppo e troppo a lungo. Tutto il contrario di lui che, invece, a volte non sembra pensare affatto.

    Clicco su invia candidatura e dopo pochi secondi ricevo una e-mail preimpostata da Bakeca.it con il civico esatto di chi ha caricato l’annuncio. Ci sono anche data e orario dell’incontro conoscitivo. Ma chi lo ha deciso? Guardo la data e poi guardo il calendario.

    È oggi.

    Leggo l’ora e mi scappa un’imprecazione.

    Salto in piedi e corro in cucina, pensando a cosa mettere sotto i denti, faccio drift sul tappeto che Luca ha piazzato davanti al lavello. Ormai ci sono abituato e resto in piedi assecondando la sbandata. Qualsiasi cosa andrà bene pur che sia veloce da cucinare perché, a quanto sembra, mancano meno di due ore al primo colloquio di lavoro della mia vita.

    Un rottweiler in via Zamboni

    Dopo una lavata di denti fuori programma, per accendere come si deve la brillantezza del mio sorriso e aumentare le chance di avere il posto, indosso il miglior abito dell’armadio. Poi esco di casa con buon anticipo, diretto al mio primo colloquio di lavoro.

    Durante la camminata scopro che mi tremano le gambe e che mi suda la fronte. Faccio gli scongiuri perché l’emozione non mi tradisca sul più bello. Tuttavia, giunto all’indirizzo indicato nella email, la mia adrenalina svanisce con la stessa velocità con cui si era materializzata.

    Mi guardo intorno, piroetto su me stesso e controllo in giro. Nessun errore, l’indirizzo è quello giusto e sembra corrispondere all’interno al pianterreno di un vecchio condominio. Dall’esterno appare instabile, scrostato e fatiscente. O meglio, come direbbe Luca, ha un’aria vissuta. Una grossa crepa nasce sotto al punto in cui la grondaia

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