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Euthalia
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E-book120 pagine1 ora

Euthalia

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Info su questo ebook

Un fiore, un colore e ali per volare. Racconti da sbocciare. Euthalia è il fiore che sboccia, in greco antico, ma è anche il nome di una farfalla. L’immagine giusta per la nostra prima antologia di racconti. Bellezza, colore e leggerezza per spiccare il volo.
Ringraziamo tutti i nostri autori per i racconti che stanno per sbocciare e per aver animato, con le loro storie, il nostro portale ZeugmaPad.
Quelle pubblicate in questa raccolta sono solo le prime gemme. Buona lettura.

LinguaItaliano
EditoreZeugmaPad
Data di uscita25 mag 2013
ISBN9781301893799
Euthalia
Autore

ZeugmaPad

Un gruppo affiatato di editor e speaker affascinati dalle parole che compongono le storie. Parole scritte, visualizzate, messe in scena, recitate e ascoltate.Abbiamo messo insieme le nostre passioni, la narrativa, il doppiaggio e la recitazione, con l’idea di fornire un servizio di Qualità a scrittori e lettori. Sappiamo che la passione non basta... per questo siamo supportati dalle più affidabili tecnologie e abbiamo scelto la pubblicazione digitale.La nostra filosofia di gestione? Nessuna linea di comunicazione prestabilita, nessuna preclusione ma buon senso, accuratezza, e giudizio ponderato. Vogliamo creare una comunità vivace e ospitale di scrittori e lettori, in cui ciascuno possa dare il proprio contributo. Offriamo parole, non solo scritte, per sguardi attenti e menti ricettive.

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    Euthalia - ZeugmaPad

    Un fiore, un colore e ali per volare. Racconti da sbocciare. Euthalia è il fiore che sboccia, in greco antico, ma è anche il nome di una farfalla. L’immagine giusta per la nostra prima antologia di racconti. Bellezza, colore e leggerezza per spiccare il volo.

    Ringraziamo tutti i nostri autori per i racconti che stanno per sbocciare e per aver animato, con le loro storie, il nostro portale http://www.zeugmapad.it

    Quelle pubblicate in questa raccolta sono solo le prime gemme. Buona lettura.

    LA COLLANA di Paola Gnani

    Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, manifestazione vivente di Chenresig, il Bodhishattva della Compassione, tornava di nuovo a Leh. Erano trascorsi anni dalla sua ultima visita. La comunità dei rifugiati tibetani lo attendeva con trepidazione: sarebbe rimasto con loro tre settimane per impartire il suo insegnamento e conferire diverse iniziazioni.

    Leh è la principale città del Ladakh, estrema propaggine settentrionale dell’India, annidata tra le montagne del Karakorum e dell’Himalaya e incuneata tra la Cina e il Pakistan. Per molto tempo il Ladakh ha fatto parte del Tibet.

    Nel IX secolo, monaci provenienti dall’India nord-occidentale cominciarono ad addentrarsi nelle impervie vallate della regione per diffondere la dottrina del Buddha, fondando numerosi monasteri, qui chiamati gompa, incastonati tra le rocce in luoghi d’indicibile, mistica bellezza con edifici che si snodano lungo i crinali rocciosi e finestre rivolte sempre a sud, verso il sole e la luce.

    Nulla di tutto ciò che avevo letto o immaginato prima di partire mi aveva preparato all’immagine che mi accolse in Ladakh: cime maestose e solenni, rocce color ocra e porpora scolpite dal vento e dalla neve in forme inaspettate e fantastiche che cambiano profilo e sfumature secondo il mutare della luce, un silenzio meraviglioso, un’aria limpida, tersa e sottile che avvolge il viaggiatore quando, dopo una strada che sale per oltre quattrocento chilometri da Srinagar, nel Kashmir, fino al passo di Zoji-la, a 3528 metri di altitudine, il Ladakh si dischiude in tutta la sua stupefacente bellezza. Segni visibili del buddhismo si incontrano ovunque: dalla ruota di preghiera color amaranto e oro, che si trova all’inizio del passo con l’antica immagine del Buddha scolpita nella roccia sovrastante, agli innumerevoli chörten, i reliquiari dalla forma simbolica, che rappresentano il cammino dell’illuminazione e il corpo di Buddha attraverso i cinque elementi cosmici (terra, acqua, aria, fuoco e spazio), alle bandiere di preghiera, che garriscono al vento diffondendo in ogni dove il loro messaggio di amore, pace e liberazione, alle onnipresenti pietre mani, accumulate a formare muri di preghiera con incisioni del mantra di Chenresig Om mani padme hum (Salve o gioiello nel fiore del loto).

    I ladakhi sono un popolo pacifico e gentile. La religione permea tutti gli aspetti della loro esistenza. Nonostante la povertà materiale e la difficile sopravvivenza in una terra come quella, con i valichi montani bloccati dalla neve da ottobre a marzo e temperature che raggiungono i trenta gradi in estate e scendono a venti sottozero in inverno, i ladaki hanno una qualità della vita stupefacente. Sereni e solidali, aperti ed equilibrati, armoniosi e tolleranti, colpiscono profondamente per queste loro caratteristiche.

    A Leh, assieme alla comunità ladakha, vivono circa 3500 rifugiati tibetani. Nelle località più piccole e nelle campagne ve ne sono altri 1500. Hanno cominciato ad arrivare in queste terre nel 1950, quando la Cina ha invaso militarmente il Tibet. Per i tibetani in fuga il Ladakh ha rappresentato un luogo in cui stabilirsi naturalmente in virtù delle affinità ambientali, culturali e religiose con la loro terra d’origine. Del resto, il buddhismo si è diffuso in gran parte dell’Asia, incluso il Tibet, proprio attraverso le montagne del Ladakh.

    Per i tibetani del Ladakh esiste, tuttavia, un problema di portata rilevante: sono e rimangono nello status di rifugiati. Il governo di Nuova Delhi, infatti, concede loro il permesso di soggiorno ma non la cittadinanza indiana, anche se sono nati qui. Sono, di conseguenza, apolidi.

    Nella spianata di Choklamsar a Leh, quel giorno d’inizio agosto, i rifugiati tibetani erano migliaia, provenienti da tutta la regione. Vestiti con i loro abiti migliori, i bambini delle scuole schierati in prima fila davanti al padiglione sopraelevato con una tettoia color arancio e un grande chörten alle spalle, gli adulti con il volto scavato dalla natura implacabile degli altipiani e la pelle dagli stessi colori delle rocce delle montagne, tutti erano seduti in silenzio e concentrazione, in attesa di veder comparire il Piccolo Padre, il Dalai Lama. Le misure di sicurezza erano severissime: bisognava lasciare all’ingresso non solo borse e zaini, ma anche i telefoni cellulari; erano ammessi gli apparecchi fotografici, ma soltanto dopo un’accurata ispezione.

    A destra del palco c’era un posto speciale, riservato ai malati e agli anziani, i primi che avrebbero potuto salutare il Dalai Lama. Su suggerimento della mia guida ladaka, un giovane studente nipote di un lama, mi sedetti dietro gli anziani, ad alcuni metri di distanza. Era un punto d’osservazione davvero eccezionale. Qualche minuto dopo, un piccolo gruppo di turisti chiese di potersi sedere accanto a noi. Venivano dalla Germania. Passarono pochi istanti e la folla fu come percorsa da un brivido, il respiro di tutti sembrò fermarsi e rimanere sospeso nell’aria: finalmente era arrivato, il Dalai Lama era lì. Scese dall’auto accompagnato dalle guardie del corpo, cominciò a camminare a passo spedito su un lungo tappeto rosso fra due ali di rappresentanti dei monasteri, poi si fermò davanti agli anziani e ai malati, li benedisse e parlò loro con la soavità, la determinazione e l’arguzia che lo contraddistinguono. Lo contemplavano commossi, catturati dalla forza magnetica che emanava dalla sua persona.

    Li guardai attentamente, pensando che per molti di loro quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbero potuto vederlo, ascoltarlo e pregare con lui.

    Quando il Dalai Lama si avviò verso il palco, noi occidentali, che ci eravamo tenuti in disparte per non disturbare i tibetani in quel prezioso momento, ci alzammo e ci avvicinammo un poco. Udendo i nostri passi, alcuni di loro si voltarono e ci sorrisero. Fra loro c’era una donna minuta, molto anziana, con la schiena curva, un abito scuro, pesante e consunto, chiuso da una serie di bottoni e da una fusciacca di lana colorata, avvolta intorno alla vita. Due esili trecce di capelli bianchi le scendevano ai lati del volto, sul quale scorrevano lacrime di commozione. Guardando le sue mani anchilosate, mi accorsi che era affetta da una terribile forma di artrite deformante. Una giovane donna del gruppo di viaggiatori tedeschi, colpita dall’immagine della vecchia tibetana, le porse una banconota da cinquanta euro. La tibetana guardò con stupore la banconota, sorrise, ma non la prese; aprì invece i primi due bottoni dell’abito, si sfilò una collana di turchese e corallo e la porse alla donna. Ci fu un momento di attonito stupore. Per fortuna intervenne la guida a spiegare il significato di quel gesto. L’essersi tolta la collana per donarla alla giovane non significava offrirle un oggetto per compensare in qualche modo il valore della banconota. La vecchia tibetana, disse la guida, era una contadina che veniva da una valle remota e non conosceva la valuta occidentale, né sarebbe mai riuscita a convertirla in moneta locale. Per lei quel denaro non aveva alcuna importanza. Importanti, invece, erano stati il pensiero e l’attenzione che la giovane turista aveva mostrato nei suoi riguardi. Per questo la voleva ringraziare, donandole la cosa più preziosa che possedeva: la collana di corallo e turchese. Quella collana era il suo tesoro. In Tibet e in Ladakh, infatti, le collane di turchese, che simboleggia la presenza divina, e di corallo, che è considerato un potente talismano, si tramandano di generazione in generazione, ed è motivo di orgoglio riuscire ad aggiungere anche un solo grano alla collana. La guida spiegò quindi con dolcezza alla vecchia tibetana che poteva serbare per sé la

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