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Anno Domini 894
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E-book685 pagine9 ore

Anno Domini 894

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Info su questo ebook

Negli anni più bui e violenti del medioevo una donna strappata dai suoi affetti diventa contessa riuscendo a prevalere su oltraggi e violenze. La sua vita si intreccia, insieme alle tempestose avventure di suo figlio, con le torbide vicende di un'epoca tormentata, dove lei stessa dovrà interpretare un ruolo chiave nella storia di un paese lacerato dai conflitti feudali.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2014
ISBN9788891140722
Anno Domini 894

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    Anteprima del libro

    Anno Domini 894 - Umberto Defilippi

    ANNO DOMINI 894

    Titolo | Anno Domini 894

    Autore | Umberto Defilippi

    ISBN | 9788891140722

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il

    Preventivo assenso dell’Autore.

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    Contesto storico degli avvenimenti

    Childerico III segna la fine della stirpe dei Merovingi.

    Da Pipino II di Heristal ha inizio la casata carolingia con Carlo Martello ed i suoi successori: Carlomanno e Pipino il Breve, i cui figli sono Carlomanno e Carlo Magno.

    Erede di Carlo Magno è Ludovico il Pio, incoronato a Reimes da Papa Stefano IV nel 816. Egli ha tre figli di primo letto: Lotario, Pipino, Ludovico il Germanico, tra i quali spartisce il regno con la Ordinatio imperii ed un quarto dalla seconda moglie Giuditta: Carlo il Calvo. Lotario è consacrato imperatore a Roma nel 823 da papa Pasquale I con cui sancisce la Constitutio romana. L'Italia è sua fino al Lazio, più a sud sono presenti longobardi, bizantini, saraceni.

    Nell'anno 842, dopo la battaglia di Fontenoy, persa da Lotario contro Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, viene steso dai vincitori il giuramento di Strasburgo in forma bilingue franca e tedesca.

    Il trattato di Verdun nel 843 sancisce la divisione dell'impero in regno centrale di Lotario, regno occidentale di Carlo e regno orientale di Ludovico il Germanico.

    Ludovico II, sotto la guida di suo zio Drogone, viene mandato dal padre Lotario in Italia dove papa Sergio II lo incorona in Roma re d'Italia. Poiché i musulmani dilaganti arrivano a saccheggiare persino le basiliche romane fuori le mura di San Pietro e San Paolo nel sobborgo di Trastevere, Ludovico II compie un'opera di mediazione tra Radelchi, principe di Benevento e Liocolfo di Salerno per unirli nella lotta agli infedeli.

    Nel 850 papa Leone IV lo incorona imperatore.

    Nel regno centrale, alla morte di Lotario I, avvenuta nel monastero di Prum, il figlio, Ludovico II, eredita la corona imperiale e l'Italia. A Lotario II spetta la Lotaringia, regione compresa tra la Mosa ed il mare del Nord, a Carlo la Borgogna e Provenza, ripartite tra i fratelli dopo la sua scomparsa.

    Per Lotario II si apre una questione di successione. Non avendo figli dalla legittima moglie Teutperga, accusandola d'incesto col fratello, la ripudia a favore di Valdrata. In un giudizio di Dio, il campione della regina supera la prova dell'immersione delle mani nell'acqua bollente, ma Teutperga, vessata da mille pressioni, confessa la colpa facendo tuttavia accorato ricorso, dal monastero ove è stata reclusa, al papa Nicolò I, il quale interviene scomunicando i vescovi Rotado ed Incmaro, colpevoli di essersi prestati alla ragion di stato senza il consenso pontificio. Intricate vicende non consentono di risolvere la questione, finché Adriano II, in un incontro a Montecassino nel luglio 869 con Lotario, gli promette di riesaminarla. Inutilmente, perché in agosto, sulla via del ritorno, Lotario muore a Piacenza senza eredi ufficiali.

    Una ridda di ingordigie contrappone Ludovico II a Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico che, col trattato di Meersen dell'agosto 870, si spartiscono la Lotaringia lasciando al nipote solo l'Italia.

    Ludovico, che ha dovuto affrontare le tendenze separatiste dei ducati di Spoleto, in cui governa Guido, di Chieti e di Camerino, oltre ai musulmani che distruggono il monastero di San Vincenzo al Volturno, nel 866 prepara una spedizione per dirimere le questioni del mezzogiorno. Nel 867 si accorda con i bizantini per snidare gli infedeli da Bari che, sfruttando i reciproci sospetti dei due imperi, rompono il blocco navale e saccheggiano il santuario di San Michele sul Gargano. Bari capitola nel febbraio 871.

    I ducati longobardi sono in fermento: Adelchi, principe di Benevento, nell'agosto 871, sequestra l'imperatore tenendolo prigioniero per oltre un mese allo scopo di strappargli l'impegno di non intromettersi più nelle vicende meridionali. Ludovico II, per riconquistare il suo status, si fa reincoronare imperatore da Adriano II.

    Nel 874 si tiene un incontro tra Giovanni VIII, Ludovico il Germanico e Ludovico II, per la sua successione. La scelta verso Carlomanno, primogenito di Ludovico il Germanico, ispirata dalla moglie Angelberga, non viene accettata e, quando Ludovico II muore in terra bresciana, nell'agosto 875, non lascia eredi.

    Nel settembre 875 le pressioni dei feudatari prevalgono sulla scelta di Angelberga e Carlo il Calvo è nominato imperatore nel giorno di Natale, quindi il 31 gennaio 876 incoronato re d'Italia a Pavia. Al governo della penisola nomina Bosone, suo cognato, già reggente in Provenza, il quale sposa Ermengarda, figlia di Ludovico II e Angelberga, e stipula accordi privati con Berengario del Friuli.

    In Europa vi sono scorrerie sanguinose di normanni, ungari, saraceni. Nel capitolare di Kiersy, del 877, viene sancito da Carlo il Calvo il principio di ereditarietà dei feudi.

    Al sud la situazione è sempre molto complicata: i musulmani da Taranto compiono incursioni continue, i longobardi si disputano la Campania ed i bizantini nel 876 si insediano a Bari.

    Giovanni VIII, con il caos ai confini, invoca l'aiuto di Carlo il Calvo che, lasciato reggente in Francia il figlio Ludovico il Balbo, si incontra con il Papa a Vercelli, dopo che questi aveva tenuto un concilio a Ravenna nel luglio 877, assenti i vescovi legati a Berengario.

    Poiché Carlomanno stava calando in Italia con truppe slave e tedesche, Carlo si ritira e muore in Savoia.

    Icmaro di Reims incorona re di Francia Ludovico il Balbuziente che muore nell'aprile 879 senza avere parte nei fatti italiani e senza la corona imperiale cui aspirerebbe Carlomanno di Baviera, il quale cesserà di vivere nel 880, ma tanto basta perché Lamberto, figlio di Guido da Spoleto, e Angelberto di Toscana spadroneggino in nome suo.

    La scomparsa di Ludovico il Balbo e dei suoi due figli comporta la dissoluzione del regno dei franchi occidentale. Diventano indipendenti la bassa Borgogna, con Bosone I di Vienne, e l'alta Borgogna, con Rodolfo I, ed altri vasti possedimenti feudali.

    Nel regno orientale, morto Ludovico il Germanico, a Carlomanno toccano la Baviera e le marche sudorientali, bassa Franconia, Turingia, Sassonia a Ludovico III e la Svevia a Carlo III il Grosso.

    Papa Giovanni VIII, nell'ansia di trovare un protettore alla precarietà della situazione causata da bizantini, longobardi, musulmani, spoletini, toscani si appella a Carlo il Grosso che scende in Italia nell'ottobre 879 e, superate le ostilità di Ansperto, arcivescovo di Milano, viene incoronato re a Pavia nel gennaio 880 e imperatore nel febbraio 881.

    Nel trattato di Ribemont, Ludovico III guadagna dai nipoti di Carlo il Calvo la metà occidentale della Lotaringia.

    Nella dieta di Tribur, del 887, Carlo III è costretto ad abdicare dai grandi dell'impero per la sua inerzia di fronte ai predoni normanni che lascia spadroneggiare nelle sue terre.

    In Germania i grandi feudatari, nel 887, si accordano per eleggere re Arnolfo di Carinzia, figlio di Carlomanno, re dei tedeschi.

    In Italia una parte dei feudatari vuole che sia re Berengario, figlio di Eberardo e Gisela, figlia di Ludovico il Pio, mentre altri vogliono Guido da Spoleto, signore franco con possedimenti in Italia ed in Francia, proposto alla corona di Francia dall'Arcivescovo di Reims, Folco, e da alcuni feudatari minori. Per non scontrarsi con Eude, figlio di Roberto il forte, conte d'Angiò, il quale darà vita alla stirpe dei Capetingi che governerà in Francia per mille anni, Guido accetta la proposta.

    Alla morte di Carlo III si assiste a contese feudali su cui si impone re d'Italia Berengario, marchese del Friuli, nipote di Ludovico il Pio. Nell'anno 888 vi sono scontri presso Brescia tra Berengario e Guido da Spoleto. Nel 889 Berengario è vinto sul Trebbia. Dopo la vittoria, Guido viene incoronato re a Pavia e Berengario si rifugia nella parte orientale della Padania, Verona compresa.

    Riconoscendo tutti, da Eude di Francia, a Rodolfo di Borgogna, Berengario del Friuli, Bosone di Provenza, l'eredità carolingia di Arnolfo, questi, nel 890 è invitato in Italia dal papa, tramite il principe della grande Moravia Svatopluk, ad assumere la corona imperiale per contrastare la politica d'espansione dei bizantini che, conquistata Benevento, minacciano da vicino Capua e Saler-no, ma Arnolfo non accetta, trattenuto dall'instabilità della Moravia per le continue insubordinazioni dello stesso Svatopluk e dal sempre più dilagante pericolo normanno.

    Nel 891 Guido viene incoronato imperatore da papa Stefano V. Tre mesi dopo, suo figlio Lamberto è nominato re a Pavia. Guido concede la marca d'Ivrea, per garantirsi il passaggio verso la Bor-gogna, al suo fido compagno d'armi Anscario. Nel 892 papa Formoso incorona imperatore il quindicenne Lamberto a Ravenna.

    Le buone relazioni tra papa Formoso e Guido da Spoleto però si rompono per l'ingerenza degli spoletini nelle cose romane ed il papa fa giungere un'ambasciata ad Arnolfo di Carinzia, cui si as-sociano anche emissari di Berengario. Arnolfo manda in Italia il figlio Zventiboldo che giunge fin sotto Pavia per poi ritirarsi in Germania, lasciando papa Formoso esposto alla vendetta di Guido da Spoleto.

    Il pontefice perciò manda un secondo accorato appello ad Arnolfo che, questa volta, scende in Italia attraverso il Brennero in pieno inverno tra l'anno 893 e 894 e prende Bergamo, Milano, Pavia. Guido, con la moglie Ageltrude, ripara nell'Italia centrale. Arnolfo, gettati in catene Angelberto di Toscana e suo fratello Bonifacio, non lo insegue, ma si rivolge contro Ancsario d'Ivrea e Rodolfo di Borgogna che lo hanno sostenuto. Rodolfo, non di stirpe carolingia, figlio del conte Corrado d'Auxerre, era stato eletto re della Burgundia dai feudatari e prelati che non volevano cadere sotto l'impero franco d'occidente o d'oriente. Egli fugge di fronte alla truppe di Zventiboldo, che però non riesce ad impossessarsi della Burgundia per l'ostilità dei feudatari borgognani. Zventiboldo viene fatto re della Lotaringia in subordine ad Arnolfo che si fa incoronare re a Pavia. Ci sono così quattro re contemporaneamente: Arnolfo, Guido, Lamberto, Berengario.

    Nel 894 muore Guido da Spoleto e, poiché Arnolfo non è più in Italia, Lamberto prende il potere a tutti gli effetti.

    Berengario si ritira più a est, da Verona al Friuli. Lamberto, su insistenza della madre Ageltrude, principessa longobarda di Benevento, intraprende contro i bizantini la conquista di Benevento at-traverso suo cugino Guido, nominato a reggere la marca di Spoleto. Guido conquista Benevento nel 895.

    Papa Formoso, circondato, richiama in Italia Arnolfo di Carinzia che, nel dicembre 895, è già a Pavia. Dopo una breve alleanza tra Arnolfo e Berengario, questi si ritira temendo il tradimento. Arnolfo di Carinzia, nonostante la resistenza degli spoletini che gli sbarrano il passo, prende d'assalto Roma e si fa incoronare imperatore da Formoso nel 896, quindi, gravemente malato, torna in Germania.

    Papa Formoso muore nell'aprile del 896. Lamberto torna a Pavia e Berengario a Verona. Essi stipulano un accordo sottinteso: a nord del Po e dell'Adda il dominio è di Berengario, il resto è di Lamberto che, con Ageltrude, scatena in Roma una rivolta contro i sostenitori dell'ex papa Formoso, sfruttando il fatto che la presa violenta della città santa, da parte di Arnolfo, aveva indignato la cristianità e si contesta la validità di papa Formoso, cavillando sul fatto che era stato eletto non tra il clero di Roma, ma in qualità di vescovo della diocesi di Porto. Viene celebrato un macabro processo, il sinodo orrendo, alle spoglie di Formoso da parte del successore, papa Stefano VI che, fatto disseppellire il cadavere, lo farà smembrare e disperdere in pezzi. Il rito cruento e nefasto provoca nei romani una reazione violenta, l'urbe si solleva e caccia il pontefice in carcere dove successivamente verrà strangolato.

    Si assiste ad una sequenza di papi formosiani ed antiformosiani di brevissima durata: Romano, Teodoro II, infine Giovanni IX che prevale su Sergio III imposto da una minoranza facinorosa.

    Ageltrude, imperatrice madre, è impegnata a restaurare le fortune di famiglia a Benevento assicurando la successione di suo fratello Radelchi, mentre Lamberto acconsente all'assassinio di Guido da Spoleto da parte di Alberico venuto dalla Francia con suo padre Guido imperatore.

    Papa Giovanni IX accetta di sancire il principio, in un concilio tenuto a Ravenna nel 898, presente l'imperatore Lamberto, secondo cui i papi avrebbero potuto essere consacrati solo alla presenza di messi imperiali. Serpeggiano scontenti tra i feudatari, specie nella marca d'Ivrea, dove ad Anscario era succeduto il figlio Angelberto contrario a Lamberto, ma il primo a muovere attacco contro Pavia è Angelberto II, marchese di Toscana, che però, giunto nei pressi di San Domino, viene catturato ingloriosamente nel sonno e tratto in prigione a Pavia nell'agosto 898.

    Lamberto, nell'ottobre 898, muore cadendo da cavallo nel bosco di Marengo durante una caccia. Si spegne la casata degli spoletini di Francia e ciò ha ripercussioni in Italia meridionale dove Radel-chi viene cacciato da Benevento ed al suo posto proclamato principe Atenolfo, signore di Capua.

    Alla morte di Lamberto, riprende il potere Berengario, il quale, nell'ottobre 898, ricompare a Pavia e mette in libertà il marchese Angelberto II di Toscana.

    Berengario subisce l'invasione degli ungari i quali mettono a ferro e fuoco il Friuli ed arrivano fino al Brenta. Per contrastarli Berengario raduna un esercito di ben 15.000 uomini. Gli ungari, intimoriti e disposti a cedere il bottino, vorrebbero ritirarsi verso la Pannonia ma, di fronte alla volontà di Berengario di sconfiggerli, si battono con la forza della disperazione, sterminano il suo esercito nel settembre 899 e svernano in Italia riducendola in rovine. Tuttavia gli ungari, imbattibili sul campo, sono incapaci di prendere d'assedio fortezze ben difese, come Pavia, dove Berengario si è ritirato. Colpiscono invece Treviso, Padova, Bergamo, Vercelli, il cui vescovo viene ucciso mentre cerca scampo nella fuga, e l'abbazia di Nonantola. Su imbarcazioni di pelli saccheggiano la laguna veneta, razziando Cittanova, Iesolo, Chioggia, Cavarzere, ma vengono respinti dalle navi del doge Pietro Tribuno.

    Nel dicembre 899, muore Arnolfo che lascia suo successore Ludovico, detto il Fanciullo per i suoi 6 anni di età. In Lotaringia si formano due fazioni; una a favore di Ludovico, l'altra per Zventibolbo e nella contesa questi resta ucciso.

    Berengario, dopo la sconfitta subita sul Brenta nel 904, paga agli ungari un ingente tributo per evitare ulteriori devastazioni e l'Italia non verrà più razziata per 23 anni.

    Berengario, pur rimasto re d'Italia, immiserito nel prestigio per il patteggiamento con gli ungari, non estende il suo dominio oltre parte della Padania, per di più sono noti i suoi legami con i franchi orientali, perciò i grandi feudatari, Angelberto II, marchese di Toscana, e Angelberto d'Ivrea, per evitare uno scontro intestino, si rivolgono, per offrirgli la corona, ad un personaggio di stirpe ca-rolingia, ma senza un ruolo dominante, affinché non possa limitare il loro potere: Ludovico di Provenza, figlio di Bosone ed Ermengarda, figlia di Ludovico II. Ludovico viene incoronato a Pa-via nell'ottobre del 900 senza resistenze da parte di Berengario, che si ritira nei suoi confini oltre l'Adda e, nel febbraio 901, papa Benedetto IV, succeduto a Giovanni IX, lo incorona a Roma. La sua autorità tuttavia non deve essere troppo salda perché, nell'estate del 902, Berengario domina di nuovo a Pavia.

    Al sud i musulmani passano di successo in successo. Taormina cade nell'agosto 902. Tutti i combattenti sono passati a fil di spada, le donne e i bambini tratti in schiavitù. Ibrahim Ibn Ahmed, dopo aver conquistato la Sicilia dichiara di voler rendere musulmana tutta l'Italia e sbarca con le sue forze in Calabria dove muore nell'assedio di Cosenza.

    Nel 903 le Baleari cadono sotto i musulmani già insediati in Calabria, sul Garigliano, a Frassineto, sulle coste sarde e corse ma, come i cristiani, essi sono divisi fra loro, specie l'emiro di Spagna e l'emiro di Sicilia. Questo fatto consente, pur con i saraceni alle porte, il perdurare di lotte intestine a Roma dove si sussegue una serie di papi meteore. Dopo la morte di Benedetto IV, sul trono di Pietro, siedono Leone V, cacciato in carcere dopo 2 mesi, Cristoforo, imprigionato dopo 6 mesi prima in carcere poi in convento, e nel 904 Sergio III che, sei anni prima, si era opposto a Giovanni

    IX. Sergio III, imposto da Alberico, marchese di Spoleto, riapre la questione formosiana, non per interesse verso l'impero, ma per perseguitare gli avversari formosiani ed impadronirsi dei loro beni ed uffici, con il pretesto della non validità delle consacrazioni formosiane. Uno dei capi della fazione sostenitrice di Sergio III è Teofilatto, con sua moglie Teodora, che danno in moglie la figlia Marozia ad Alberico da Spoleto.

    Teofilatto assume il titolo di magister militum, console e senatore dei romani.

    Ludovico, nella primavera del 905, torna in Italia dalla Provenza, occupa Pavia e Verona, rifugio fino ad ora sicuro di Berengario che ripara sui monti del Trentino e fa credere di essere morto. Però in luglio, con l'appoggio di Angelberto d'Ivrea, cui da in moglie la propria figlia Gisela, sorprende Ludovico a Verona, lo fa accecare e lo rimanda in Provenza.

    Ludovico il Cieco si ritira a Vienne, dove lascia le redini del comando ad Ugo di Arles, di casata carolingia per discendenza femminile, figlio di Berta, a sua volta figlia di Lotario II e Valdrata, ora fregiato dei titoli di conte di Vienne e marchese di Provenza.

    Seguono 15 anni di pace. Berengario domina al nord ed estende la sua influenza sulle marche di Toscana e Spoleto, che tuttavia deve essere solo nominale poiché, nel viaggio di ritorno da Roma nel novembre 915, dov'è stato nominato imperatore da papa Giovanni X, pur essendo ancora in vita Ludovico il Cieco, deve guardarsi da Guido, marchese di Toscana, succeduto ad Angelberto II, e da sua madre Berta.

    Papa Giovanni X, già arcivescovo di Ravenna, combina una lega tra Landolfo, principe di Capua, Alberico, marchese di Spoleto, la città di Napoli e Capua, che pur a lungo aveva trescato con i saraceni, per scacciare quest'ultimi dalle foci del Garigliano. Nell'agosto 915, dopo tre mesi di blocco, i musulmani tentano una sortita e sono annientati. In seguito alla cacciata dei mori vengono restaurati i monasteri dì San Giovanni in Volturno e l'abbazia di Farfa. In questo monastero, i monaci uccidono, uno di seguito l'altro, due abati per darsi a gaudenti baldorie.

    Nel 921 una nuova agitazione di grandi feudatari, capeggiata da Angelberto d'Ivrea e Olderico, signore di una nuova marca comprendente il sud del Piemonte, la Liguria e l'Emilia occidentale, porta in Italia, per la via della Val d'Aosta, Rodolfo II di Borgogna che, nel febbraio 923, cinge la corona reale a Pavia, portando a tre il numero dei re italiani. Tuttavia Rodolfo, appena incoronato, perde i suoi sostenitori, ma vince Berengario in una sanguinosa battaglia che conta ben 1500 caduti a Fiorenzuola sull'Arda nel luglio 923.

    Dopo la solita divisione dell'Italia, Rodolfo torna in Borgogna mentre Berengario, dal suo feudo, assolda guerrieri ungari che lancia contro Pavia, data alle fiamme nel marzo 924, e successi-vamente contro la Borgogna dove essi sono respinti e messi in fuga.

    La lotta è ancora aperta quando Berengario viene assassinato da un suo sculdascio a Verona nell'aprile 924.

    Rodolfo avrebbe potuto regnare incontrastato ma, guastatosi i rapporti con Ermengarda, marchesa d'Ivrea, figlia di Angelberto di Toscana e Berta, trova preclusa la via per scendere in Italia. Una sorta di riconciliazione non vede favorevoli gli altri feudatari i quali chiamano in Italia Ugo di Arles con la solita politica di contrapporre ad un regnante un altro re.

    Rodolfo, con il sostegno di Burcardo, suo suocero e duca di Svevia, scende in Italia dove viene fermato, nella primavera del 926, dall'arcivescovo di Milano. Assalito nella ritirata verso la Borgo-gna, a Novara resta ucciso Burcardo, mentre Ugo di Arles sbarca a Pisa, accolto dal legato del papa e dai grandi feudatari. Per la via della Cisa raggiunge Pavia, dov'è incoronato re d'Italia nel luglio 926, ed incontra papa Giovanni X a Ravenna. Quale preludio della sua incoronazione ad imperatore a Roma, conferisce la marca di Spoleto, rimasta vacante con la morte di Alberico, a Pietro, fratello del Pontefice.

    Si oppone però a quest'incoronazione Marozia, rimasta vedova di Alberico, che sposa Guido di Toscana.

    Nell'estate 927, Ugo di Arles avanza verso Roma facendosi precedere da Pietro il quale trova le porte sbarrate. Conscio di cosa può significare la presa violenta dell'urbe, Ugo si ritira a Pavia.

    Un'incursione degli ungari, non più legati al patto con Berengario, che dilagano anche in Toscana, obbliga Guido ad accorrere in difesa della sua marca dando a Pietro la possibilità di entrare in Roma. Questi verrà ucciso dalla fazione di Marozia sotto gli occhi di suo fratello, il pontefice, che verrà a sua volta gettato in carcere dove morirà di morte violenta nel 928 ma, prima ancora che fosse morto, Marozia gli aveva già dato come successore papa Leone VI e l'anno dopo Stefano VII.

    La marca di Toscana e Roma sono dunque in aperta ribellione verso Ugo che insedia Tebaldo, figlio della sorella Teuberga, nella marca di Spoleto.

    Nel 928 muore Ludovico il Cieco che lascia come successore il figlio illegittimo Carlo Costantino, scartato dalla successione dagli accordi di Ugo con Raoul, re di Francia.

    Fronteggiata una congiura di palazzo, alla morte di Guido da Toscana, re Ugo conferisce questa marca al fratello del defunto, Lamberto, ma solo a titolo provvisorio, inducendolo così a ribellarsi per la precarietà della situazione. Le offese di Lamberto offrono ad Ugo motivo per farlo accecare e conferire la Toscana a suo fratello Bosone, fatto venire dalla Provenza dove reggeva i Comitati di Avignone e Arles.

    Marozia, ora patricia senatrix, nel 931 risponde portando al papato Giovanni XI, nominalmente suo figlio di primo letto, in realtà concepito con Sergio III.

    Ugo, a sua volta, fa incoronare nell'aprile del 931, a Pavia, suo figlio Lotario di neppure 3 anni, sostenuto da moltissimi fedeli trapiantati in Italia dalla Provenza, dà l'arcivescovado di Milano ad Ilduino di Liegi e quello di Verona a Raterio di Liegi, monaco dotto, interessato alla riforma della chiesa, ma duro e scontroso di carattere, inoltre baratta con Rodolfo II la rinuncia di questi alle pretese sull'Italia in cambio della Provenza (Bassa Borgogna) dopo la sua morte.

    Nel luglio 932, sposa Marozia per arrivare alla sospirata corona imperiale, ma Alberico II, figlio di Marozia e del primo marito Alberico di Spoleto, riesce a far insorgere i romani costringendo Ugo a fuggire nascostamente da Roma dove, secondo l'uso, si doveva entrare senza truppe solo con una scorta per il rango. Inoltre Alberico ordina di gettare in carcere la madre Marozia e sorvegliare a vista il fratellastro Giovanni XI. Alla fine del 932 assume tutti poteri della città, tranne quelli ecclesiastici, però sotto il suo controllo, con il titolo Princeps et senator omnium romanorum e sarà signore incontrastato di Roma per 20 anni.

    Ugo promuove ai danni di Alberico alcune scorrerie, ma la mediazione di Oddone, abate di Cluny, appiana le ostilità. A ciò si aggiunge che i saraceni di Frassineto avevano ripreso le scorrerie in Liguria ed in Piemonte bloccando i passi per la Provenza. Di poca utilità sono le unità navali bizantine che, tra il 931 ed il 934, tentano di snidare i predoni.

    A distogliere poi l'interesse di Ugo di Arles da Roma contribuiscono altri due fattori: la politica filobizantina di Alberico, per cui anche il re deve mandare suoi emissari a Bisanzio e malcontenti al nord dove Milone, conte di Verona e Raterio, vescovo, si rivolgono al duca di Baviera, Arnolfo e suo figlio Eberardo che, scesi in Italia, trovano aperte le porte di Verona nell'autunno 934. Eberardo viene eletto re d'Italia, ma le truppe di Ugo sconfiggono i bavaresi a Bussolengo nel febbraio 935. Ugo, rimpossessatosi di Verona, sostituisce Raterio con l'arcivescovo di Arles, Manasse, cui affida i poteri di Verona, Mantova, Trento, Vicenza, più una nuova marca tridentina con il compito di sbarrare la strada ad altre avventure tedesche.

    Impegnato contro i bavaresi, Ugo trascura le incursioni saracene che ormai giungono addirittura dall'Africa settentrionale. La flotta di Jacob Ibn Isac flagella le coste liguri, saccheggia Genova ed arriva fino ad Acqui dove i mori, però, sono sterminati dalla popolazione. I bizantini, invece di combattere i saraceni, cercano di ripristinare la loro autorità al sud contro Salerno, Capua, Bene-vento che, spalleggiate da Tebaldo, marchese di Spoleto, se ne erano sottratte.

    Ugo depone Bosone dalla marca di Toscana sostituendolo con Uberto per riprendere le ostilità contro Roma, ma Alberico II e papa Leone VII mandano Oddone di Cluny a Pavia per trattare. Ne consegue il matrimonio della figlia di Ugo con Alberico II che rinuncia ad una principessa greca tramite la quale avrebbe cementato i suoi buoni rapporti con Bisanzio. Oddone, forte della sua posizione, persegue una politica di moralizzazione della chiesa e fonda nuovi monasteri a Subiaco e sul monte Soratte.

    Con una serie di tortuosi espedienti Ugo, alla morte di Tebaldo, nomina Uberto anche reggente di Spoleto.

    Nel gennaio 936 muore Raoul, re di Francia, in luglio Enrico I di Germania e nel luglio 937 Rodolfo II di Borgogna.

    Ugo di Arles, rimasto vedovo di Marozia, sposa Berta, vedova di Rodolfo II, e prepara il matrimonio di suo figlio Lotario con Adelaide, figlia di Rodolfo e di Berta.

    Ugo, senza pretendenti in titulo, ha un solo oppositore: Berengario, successore di Anscario d'Ivrea. Per rinsaldare i rapporti con Costantinopoli ed organizzare una spedizione congiunta con-tro i saraceni di Frassineto, offre in moglie al basileus Romano II la sua bellissima figlia Berta. I bizantini attaccano la roccaforte dei mori dal mare con il fuoco greco ed Ugo dalla terra ferma. Questi, quasi sul punto di capitolare, vengono salvati in extremis dal ritiro di Ugo che deve guardarsi le spalle da Ottone di Germa-nia perché Berengario, avvertito da Lotario, figlio di Ugo, circa l'intenzione del padre di farlo accecare, fugge presso Ermanno, duca di Svevia, che lo raccomanda ad Ottone cui Berengario si sottomette e giura fedeltà.

    Ugo spezza la marca d'Ivrea, conferisce la contea di Torino ad Arduino il Glabro e fa sorvegliare i passi delle Alpi da quei saraceni che aveva combattuto a Frassineto.

    Nuove orde di ungari si abbattono sull'Italia ed Ugo le dirotta verso la Spagna a prezzo di un grosso tributo ma, poiché essi vengono fermati in Provenza, credendosi traditi, devastano le città italiane.

    Berengario, nei primi mesi del 945, torna in Italia con le truppe del duca di Svevia attraverso la Valle dell'Adige. Questa via avrebbe dovuto essere imprendibile in quanto protetta dal castello di Formigiara, governato da Manasse, anche marchese della marca tridentina, che, invece, tradisce il suo signore dietro la promessa dell'arcivescovado di Milano. Ugo manda in ambasciata Lotario da Berengario con la proposta di accettare Lotario stesso quale re d'Italia; in cambio Berengario sarà suo primo ministro con poteri effettivi di governo ed Ugo si ritirerà in Provenza. Nell'agosto 945 Berengario e i feudatari accettano il patto ponendo la condizione che Ugo resti in Italia per evitare che dalla Provenza prepari una guerra di riconquista. Uberto viene destituito dalla marca di Spoleto ed al suo posto subentra il marchese Bonifazio.

    Ugo, nel 946, accetta un patto con Alberico in cui rinuncia alle pretese su Roma e nel 947, mentre nuove orde di ungari saccheggiano l'Italia fino ad Otranto, allontanate da Lotario e Berengario grazie al denaro, si ritira in Provenza dove muore nel 948 in monastero.

    Lotario muore nel novembre 950, lasciando vedova Adelaide, sorella di Corrado di Borgogna il Pacificatore.

    Nel dicembre 950 Berengario II viene incoronato re d'Italia con il figlio Angelberto.

    Berengario impone Adelaide in moglie ad Angelberto per appropriarsi dei beni di Lotario, oltre che garantire una continuità al regno, e, di fronte al suo rifiuto, la fa imprigionare prima a Como, successivamente, nell'aprile 951 nel castello di Garda. Dopo quattro mesi di prigionia, grazie all'aiuto di Adelardo, vescovo di Reggio, con una fuga avventurosa attraverso le paludi del mantovano, l'ex regina appena ventenne si rifugia nell'imprendibile castello di Canossa di Angelberto Azzo e chiede aiuto ai signori di Germania. Dopo le discese in Italia, fortemente ostacolate e compiute all'insaputa di Ottone I, di suo figlio Liudolfo, duca di Svevia e suo fratello Enrico, duca di Baviera, entrambi confinanti con l'Italia settentrionale, lo stesso re di Germania arriva in Italia senza incontrare resistenza. Libera Adelaide, che sposa a Pavia, dove cinge la corona reale e da cui manda suoi legati a Roma per saggiare le possibilità di diventare imperatore senza però ottenere risposta da papa Agapito III e da Alberico II.

    Berengario dopo aver trattato con il plenipotenziario di Ottone, Corrado il Rosso, duca di Lorena, si reca a Magdeburgo, dove, dopo un'attesa umiliante per aver rotto il suo giuramento di fedeltà risalente ad anni prima, alla presenza dell'ambasciatore dell'imperatore d'oriente Costantino VII Porfirogenito, nella dieta di Augusta del 952, viene investito, insieme ad Angelberto, con uno scettro d'oro, del titolo di vassallo del regno d'Italia

    Le marche di Verona e Aquileia passano al ducato di Baviera che si assume il compito di sbarrare la strada agli ungari.

    L'Italia diventa un feudo di Ottone il grande.

    Capitolo primo

    Aquilio

    Non possiamo opporci alla volontà dell’Imperatore, siamo suoi vassalli.

    Finché dura.

    Perché? Cosa dovrebbe cambiare?

    Quanto può impiegare Arnolfo di Carinzia a dare in sposa una nipote e assegnarle in dote un feudo al di qua delle Alpi o compiacere uno di quei teutonici con troppi figli che devono cercare nuovi domini per sistemarli?

    L’Italia è lontana.

    Lo era anche per Carlo il Calvo che tuttavia ha nominato Bosone reggente della penisola e, se avessero vinto gli intrighi di Angelberga, chi avrebbe installato Carlomanno per tenerci i piedi sulla testa?

    Bizantini, longobardi, arabi, il papa, gli slavi che, se non ci fosse Berengario, sarebbero già dentro le nostre stalle e forse nel nostro letto a spassarsela con le donne, mentre noi saremmo appesi fuori dalle mura in una gabbia di ferro.

    Guido, il duca di Spoleto, aspetta che Berengario faccia una mossa falsa. aggiunse il duca di Cordiate che si stava convincendo.

    Certo, ma Guido è il candidato di Folco al regno di Francia e la volontà dell’arcivescovo di Reims non è cosa da poco in questa lotta.

    Se accettasse, però, dovrebbe scontrarsi con il conte d'Angiò, Eude.

    Il figlio di Roverto il Forte sarebbe un osso troppo duro per lui.

    Berengario ha il sangue dell’imperatore nelle vene, sua madre, Gisela, era figlia legittima di Ludovico il Pio, ma i franchi si sono già infiltrati nella marca d’Ivrea.

    Siamo troppo fragili.

    Dobbiamo fare un patto, una lega tra noialtri duchi.

    Basta con le divisioni. I feudatari devono essere una forza compatta senza lasciarsi comprare da un fazzoletto di terra in più.

    Non si fideranno mai uno dell’altro.

    Siamo tutti sulla stessa barca.

    Nessuno vuole in casa un tedesco ed è quello che succederebbe se ci scannassimo come cani tra noi.

    Però, ognuno, se potesse, taglierebbe la gola di tutti gli altri nel sonno anche senza guadagno, tanto per stare tranquillo e non correre rischi… Un’alleanza sarà difficile.

    Via questi vassalli ne verrebbero altri e stranieri per di più. Meglio fare un patto con chi si conosce, anche se è un bastardo, che con degli estranei. Almeno sappiamo già da chi guardarci.

    È vero, ma come fare a convincerli?

    Anche loro hanno i nostri stessi timori.

    E per riunirli tutti insieme, diffidenti come sono?

    Possiamo indire un torneo in un castello fidato e neutrale. I signori, così, potrebbero venire con i loro uomini d’arme e ognuno sarebbe al sicuro dagli altri.

    Non si convincerebbero mai. Puzza troppo di trappola!

    No, se sapranno il vero motivo del raduno.

    I due uomini lasciarono cadere uno spesso silenzio riflettendo sul piano che via via prendeva forma: un patto condiviso da tutti, sia avesse vinto Guido, sia Berengario. Però, pur non essendo un’aperta ribellione all’imperatore, Arnolfo non avrebbe gradito la loro intesa, perché chiunque fosse stato attaccato dalle armate dell’impero avrebbe avuto il sostegno degli altri che sarebbero scesi in guerra coalizzandosi.

    Per un po’ poteva funzionare, certo non a lungo, ma intanto sarebbe stato utile per prendere tempo e capire come sarebbero maturate le future alleanze.

    La stanza era spoglia. Due panche lungo le pareti, un tavolo con sopra una brocca di vino e due coppe. Faceva freddo e il duca di Benevagienna si tirò addosso istintivamente il mantello di lana spessa.

    Icmaro di Cordiate, quasi a scusarsi per la scarsa ospitalità, si sentì in dovere di giustificarsi.

    Ci sono orecchie dappertutto, anche nei castelli più sicuri. Quando voglio stare tranquillo o parlare senza che nessuno ascolti, vengo quassù. Sopra di noi c’è solo il cielo e, se Nostro Signore vuole sentire, Lui può farlo.

    La prudenza non è mai troppa. e Roverto di Benevagienna allungò la mano verso la coppa di vino lasciando correre lo sguardo dalla feritoia del torrione su cui erano saliti.

    Da quell’altezza, attraverso lo stretto spiraglio, si vedevano le mura e, dietro di esse, una campagna gelata che poco oltre veniva inghiottita dalla massa nera e minacciosa della foresta.

    Dove pensi che si potrebbe tenere il torneo?

    Da Aquilio di Cherium.

    Si, lui sarebbe l’uomo giusto. Mai una macchia sul suo onore.

    E non ha figli.

    Il duca lo scrutò con uno sguardo interrogativo.

    È già avanti negli anni, senza discendenza non ha interesse a tessere trame per impossessarsi di altre terre e in più ha una moglie che sarebbe un’ospite perfetta, perché gli invitati bisognerà trattarli bene, molto bene.

    Costerà caro.

    Non deve arrivare tutta la nobiltà d’Italia, solo quelli che contano. Valvassori e valvassini obbediranno o per convenienza o per forza.

    Va bene. Mi hai convinto, sono con te. Arnolfo di Carinzia ha abbastanza guai con gli scandinavi e gli ungari per poter reagire seriamente contro una lega.

    Si arrabbierà, minaccerà, e forse farà scendere un’armata fino a Pavia, ma alla fine dovrà accettare la situazione.

    Ma noi non intendiamo sfidarlo! aggiunse mellifluo Icmaro Semmai lo costringiamo a tenere fede alla parola data.

    La discussione ebbe termine.

    La decisione era stata presa e i due signori scesero verso il salone dove nel camino si arrostiva un cervo. Avrebbero mangiato, bevuto. Sarebbero andati a caccia e la sera il feudatario avrebbe fatto trovare all’ospite una donna nel letto.

    Quello stesso giorno dal castello di Cordiate partì un messaggero, scortato da un armigero, diretto alla volta del feudo di Cherium.

    Al ritorno, se la risposta fosse stata quella che si attendeva il suo padrone, lungo il tragitto si sarebbe fermato molte volte a chiedere ai signori delle terre attraversate il permesso di transito per il gruppo di cavalieri che in futuro avrebbero partecipato al torneo.

    Aquilio di Cherium non era più giovane; sulle tempie i capelli grigi accentuavano quell’impressione di nobiltà che istintivamente riusciva a comunicare con il suo portamento sempre austero e fiero, accompagnato da un malcelato, perenne, disprezzo verso i suoi simili. Fin da ragazzo, quando gareggiava nei tornei o accompagnava nelle cacce, insieme a suo padre, i nobili ospiti al castello, si sentiva superiore agli altri giovani e anche agli stessi feudatari, di cui percepiva l’intollerabile rozzezza. Parco di parole, rifletteva a lungo prima di esprimersi, mettendo così spesse volte in imbarazzo gli interlocutori stupiti dai suoi lunghi silenzi nell’intercalare dei discorsi. Persino i principi si sentivano a disagio alla sua presenza, perché Aquilio, con un solo sguardo, sembrava scrutarli dentro e svelare le loro debolezze.

    Sì, Aquilio era altezzoso e sprezzante, ma, proprio perché si considerava ben diverso dai suoi pari, si era dato un codice d’onore ferreo. Per quanto fosse duro nei comportamenti, incapace di provare amicizia e affetto, a volte cinico e spietato con i suoi simili, la sua parola era sacra. Mai aveva mostrato ambiguità, mai era venuto meno ad un suo impegno, perciò, se certamente non era amato, era, però, rispettato da tutti e considerato uno dei pochi uomini che non avrebbero tradito un patto.

    Il feudo di Cherium non era vasto, però era ricco, e la forza dei suoi armigeri era temibile, anche se il suo castello, a paragone di altri, era sobrio, con poche concessioni al lusso e nessuna alle frivolezze.

    Quando gli venne annunciato l’arrivo di un messaggero da Cordiate, volle che l’uomo si rinfrescasse dal viaggio e si ricomponesse prima di essere ammesso alla sua presenza.

    Ascoltò con gravità l'ambasciata del messo che, con un ginocchio piegato a terra, riferì le esatte parole del suo signore.

    Icmaro di Cordiate ti manda i suoi saluti più fraterni. Non porto messaggi su pergamena perché egli non ha voluto mettere al corrente né preti, né uomini di lettere e tanto meno costringerti a doverti servire tu stesso di altre persone.

    Aquilio sorrise sprezzante. Lui sapeva leggere. Il paggio, concentrato nel suo compito di riportare fedelmente

    l’appello imparato a memoria, non se ne accorse neppure.

    "I feudi italiani sono deboli ed eccessivamente bellicosi. Se l’Imperatore dovesse intervenire scendendo in Italia, nessuno di noi sarebbe al sicuro. Spodestarci per dare terre ai suoi cortigiani è semplice, magari offrendo un castello o due a qualche parente del Papa per ingraziarselo.

    Abbiamo solo una possibilità di resistere a una simile eventualità: un’alleanza temporanea tra feudatari, una lega per andare in soccorso e sostegno a chi di noi, Dio non voglia, dovesse essere colpito dall’avidità di Arnolfo di Carinzia.

    Ora siamo divisi: chi parteggia per Berengario, chi vorrebbe Guido sul trono d’Italia. Se si aprisse apertamente un conflitto armato, saremmo troppo sfiancati per difenderci dai germanici. Bisogna riunirci per decidere e fare un patto indissolubile.

    Però, siccome tutti avrebbero timore di un tradimento, l’idea del mio signore è quella che tu indica un torneo per riunire qui i feudatari più importanti, quelli a cui tutti gli altri si sottometteranno. Ognuno verrà scortato dai suoi uomini e potrà sentirsi al sicuro. Allora durante i giochi si potrà trattare.

    Icmaro aspetta la tua risposta."

    Gli occhi freddi di Aquilio non si erano staccati dal volto dello scudiero che, ancora con il ginocchio piegato, attendeva un cenno.

    Finalmente, dopo un’attesa opprimente, il duca fece un gesto con la mano.

    Va a rifocillarti nelle cucine e attendi il mio responso.

    Appena solo, il signore di Cherium si alzò dal suo scranno, andò verso la finestra e lasciò che il suo sguardo spaziasse sulle colline circostanti che tanto amava. Cercava di dominarsi, di calmarsi dall’inquietudine che le parole del messaggero inconsapevole avevano suscitato, di attutire il battito accelerato del suo cuore.

    Il suo cruccio non era l’Imperatore, troppo remoto, troppo impegnato a governare gli alemanni vessati alle frontiere orientali e settentrionali dalle orde semibarbare che cercavano terre da razziare. Il nemico l’aveva in casa, nel suo stesso castello: era lui stesso.

    Proprio lui, che guardava il mondo dall’alto in basso, era incapace di procreare. Non solo con Ottilia, sua moglie, ma in tutte le sue scorribande, da quando era ragazzo, mai aveva lasciato dopo l’amore un ventre che, dando vita al suo frutto, si ingrossava.

    Senza figli la sua famiglia sarebbe scomparsa, senza figli era vulnerabile come un bambino. Sarebbe stata sufficiente una caduta da cavallo, una gamba rotta, un semplice malanno e i suoi vicini l’avrebbero azzannato alla gola.

    La sua sterilità rompeva un equilibrio non detto; se non avesse garantito la continuità della stirpe, il suo feudo sarebbe diventato una preda, terra di appetiti altrui e lui, ultimo discendente dei duchi di Cherium, sarebbe stato considerato solamente un ingombro da rimuovere al più presto. Anzi, non sarebbe nemmeno stato necessario un accidente; l’età, gli anni venturi, lo avrebbero reso un bersaglio. I suoi stessi armigeri, se avessero percepito segni di decadenza, lo avrebbero lasciato per passare ai suoi nemici, perché tanto la rovina della sua casa era decretata.

    Un vecchio senza eredi, un castello dove, morto lui, sarebbe finito tutto…

    Lo avrebbero abbandonato anche i servi e più il tempo passava, più sul suo futuro incombevano nubi nere. Per ora, forse nessuno aveva ancora osato nemmeno pensarci, ma non ci sarebbe mancato molto: se un pugnale nella notte avesse spento la sua vita, cosa e chi avrebbe dovuto temere il suo assassino? Chi lo avrebbe vendicato? Le sue terre sarebbero state razziate e con ogni probabilità anche la sua sposa sarebbe morta malamente.

    La soluzione la sapeva. Era orribile, umiliante, crudele, infame, ma non c’era altra via.

    Quando l’aveva sentita ne era rimasto raccapricciato, ma poi con il pensiero vi era tornato sopra più di una volta e in cuor suo sapeva bene che…

    Era andato a consultare la strega Melusina per avere una pozione, un filtro, un patto dannato con il diavolo, visto che le preghiere ai santi di Dio non erano servite a niente, e lei gli aveva riso in faccia. Quella sordida fattucchiera che abitava nel bosco e sembrava un animale, lurida di terra e sporcizia, quando si era presentato al suo cospetto non si era neppure alzata dal trogolo dove si cibava.

    Ce ne hai messo di tempo a venire, duca. l’aveva apostrofato prima ancora che fosse smontato da cavallo È un pezzo che ti stavo aspettando.

    Vecchia megera, non ti sembra di essere irriguardosa con il tuo signore? le aveva risposto rabbioso di collera malcelata.

    Non sono io che ho da temere. Sei tu che hai bisogno di me.

    Melusina era accovacciata a terra davanti a una capanna di frasche e fango mescolato a sterco animale. La bicocca si appoggiava, utilizzandola come sostegno portante, ad una immensa quercia; un mucchio di paglia marcia tra le sue radici, il cui odore putrido si percepiva fin da fuori, era probabilmente il suo giaciglio notturno.

    Dentro il tugurio si intravedevano orribili oggetti: resti di bestie rinsecchite, ossa, maschere coperte di peli, piccole anfore di liquidi ripugnanti, uno splendido mortaio in bronzo lucido dall’uso frequente.

    La gente diceva che era una maga potente e che poteva parlare con gli spiriti del bosco. Venerava un diavolo che in gioventù era stato suo spasimante il quale, in cambio di empie promesse, le aveva dato il potere.

    Tutti temevano Melusina poiché sapeva lanciare maledizioni terrificanti; persino i preti preferivano ignorarla per paura delle sue doti oscure. Stava nascosta nel bosco e non era facile raggiungerla. Non c’erano sentieri e, per trovarla, bisognava inoltrarsi nel fitto pauroso di alberi secolari, di arbusti impenetrabili ed avere il coraggio di affrontare gli animali feroci della selva da cui miracolosamente lei era protetta.

    Anche Aquilio aveva faticato a spingersi fino al suo antro. Volendo tenere segreta quella visita infamante, non aveva chiesto a nessuno indicazioni su come raggiungere la vecchia, pur sapendo che la spelonca di Melusina era più praticata di quanto si volesse ammettere e non solo dai bifolchi del contado, ma anche dai suoi uomini d’arme, dai nobili che frequentavano il suo castello e persino da stranieri che, per i suoi servigi, la pagavano in oro.

    Partito all’alba da solo, aveva suscitato non poche perplessità da parte di Rutilio, il capitano delle guardie, che, pur non aspettandosi agguati o scorribande di briganti, temeva qualche pericolo ignoto, ma Aquilio era stato perentorio e il maestro d’armi si era limitato ad annuire, nascondendo un sogghigno sardonico come di chi ha colto in fallo il suo signore durante un incontro licenzioso.

    Pensi pure tutto ciò che gli pare si era detto Aquilio e aveva dato di sprone al cavallo raggiungendo presto la brughiera.

    Il tragitto era stato estenuante: un vagare senza meta trascinandosi dietro il cavallo riottoso che non riusciva a passare tra le macchie di rovi sempre più fitte. Ogni tanto qualche umida radura gli concedeva un po’ di respiro ma, fatti pochi passi, la pesantezza cupa di una vegetazione ingorda lo inghiottiva costringendolo a vagare quasi senza meta, non più verso una direzione, ma alla semplice ricerca di un varco da cui emergere.

    Si era perso.

    Mai avrebbe pensato di potersi smarrire sulle sue terre e il malanimo verso quella avventura, che si stava rivelando non solo umiliante ma difficile, ormai lo attanagliava.

    Sopraggiunse la notte e si dovette fermare per forza. Ormai desiderava solo più un rifugio, il capanno di qualche boscaiolo, un tetto qualunque, fosse anche di un uomo selvatico. Incontri che durante il giorno aveva accuratamente evitato per non essere scoperto nel suo poco nobile intento.

    L’immagine che aveva di se stesso si andava rapidamente incrinando. Non era passata una giornata che la sua nobile figura, coltivata per tutta la vita, ora imbrattata di fanghiglia, macchie d’erba, muschio, intirizzita e fradicia, incancrenita dalla sordida speranza di trovare aiuto da un essere inferiore come Melusina, di cui ora provava solo vergogna, si andava deformando ai suoi stessi occhi, prendendo le sembianze, non già di un blasonato cavaliere senza timore di nulla e di nessuno, ma di un uomo qualunque che cerca di uscire dai guai in cui si è cacciato e ciò lo faceva soffrire più della fame, della sete, del freddo, della stanchezza.

    Passò la notte raggomitolato contro la corteccia di un castagno, attento al suo cavallo che non scappasse perché terrorizzato dagli stridii notturni e da una cacofonia di rumori ostili, preoccupato lui stesso di non finire in pasto a qualche fiera affamata.

    Mille pensieri gli turbavano la mente: immagini lugubri per un incontro nefasto da cui, ormai gli era chiaro, non si aspettava nulla di buono.

    Fame e sete non contribuirono a migliorare il suo umore e, quando venne l’alba, fece fatica a risollevare le membra stanche dalla veglia e rattrappite dalla scomoda durezza del giaciglio. Tuttavia si rimise in cammino e incredibilmente, quasi avesse dovuto superare una prova per essere ammesso al cospetto di Melusina, gli si aprì dinanzi un sentiero abbastanza agevole, seppur tortuoso, da poter essere percorso a cavallo.

    Il sole era ormai alto, ma l’aria era ancora frizzante, quando sentì odore di fumo: Melusina, davanti alla sua tana, lo aspettava.

    Smontò da cavallo, cercando di conservare la sua nobiltà intatta almeno agli occhi della vecchia.

    Siediti e mangia, sei affamato.

    Gli sporse la ciotola di legno con i resti vomitevoli del suo pasto.

    Aquilio di Cherium si avvicinò. Si fermò a un passo dalla fattucchiera. La sovrastava con la sua statura imponente quasi volesse rimarcare alla anziana donna, accoccolata a terra, la sua forza e il suo prestigio.

    Lei, incurante, scrollò le spalle all’implicito rifiuto e riprese ad ingozzarsi finché raccattò gli ultimi resti dalla scodella.

    Il protrarsi delle pause di silenzio che il Signore di Cherium imponeva agli altri, non mancando così di renderli insicuri e titubanti, con Melusina non faceva alcun effetto.

    Lei si ripulì le dita nell’erba, emise un debole rutto, lo guardò dritto negli occhi e, senza preamboli come uno sputo in faccia, gli confessò:

    Io non posso aiutarti. Dovrai fare tutto da solo.

    Che nei sai del motivo che mi ha condotto qui?

    Sei senza figli; la tua vita è in pericolo. Presto sarai vecchio e rimarrai solo. Ti abbandoneranno come avessi preso la lebbra e qualcuno, più avido degli altri, verrà a farti fuori.

    Aquilio la guardò sbigottito.

    Non ci sono rimedi per te. Il tuo non è un male: è la tua natura. Gli dei ridono dei nostri desideri.

    Quali dei, Melusina?

    Il mio è il tuo stesso Padreterno, ma queste rocce, questi alberi sono più vecchi di noi. C’è anche qualcos'altro su questa terra oltre a Gesù nei cieli.

    Aquilio si guardò intorno sempre più irritato. Non era andato fin lì per ascoltare i vaneggiamenti di una befana e, stava per rispondere arrogante, quando Melusina ancora una volta lo precedette.

    Il tuo destino è chiaro: sei un uomo solo. Quello che ti dirò non ti piacerà, ma sei libero di fare ciò che vuoi. Il mio è solo il consiglio di una vecchia che ha visto troppo dolore e non sa più distinguere il bene dal male.

    Avanti! incalzò Aquilio.

    Come vuoi, ma bada…

    Per i Santi, vuoi parlare?

    Non bestemmiare. Ne avrai bisogno di aiuto. Devi rinunciare all’amore di Ottilia, la tua sposa. Ma questo non è il prezzo più alto: tu non ami nessuno. Dovrai rinunciare al tuo onore e tradire…

    Cosa vaneggi, maledetta pazza?

    Sei tu che sei venuto da me, ricordalo! lo rimbeccò imperiosa e per nulla intimidita.

    Continua il tuo delirio.

    Il tuo seme è come la polvere, non produce niente. Fai coprire in segreto Ottilia da un servo finché sarà gravida, poi lo ucciderai perché non parli. Il bastardo ti salverà.

    Aquilio impietrito si sentì vacillare, ma Melusina

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