Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Zeitgeist Hotel, Stagione 1: Una Stanza Grigia
Zeitgeist Hotel, Stagione 1: Una Stanza Grigia
Zeitgeist Hotel, Stagione 1: Una Stanza Grigia
E-book269 pagine2 ore

Zeitgeist Hotel, Stagione 1: Una Stanza Grigia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Inès e Gustav sono una coppia come tante altre, con i loro pregi e i loro difetti.
Dopo una breve separazione, decidono di recuperare il tempo perduto e prendersi una breve vacanza tra le tranquille campagne di Castelchiasso, dove sono in atto i festeggiamenti della “Fine del Mondo Nuovo”.
Inès vuole la vacanza perfetta per distendere i nervi del suo Gustav e prenota “La Suite degli Innamorati” presso lo Zeitgeist Hotel, così da prendere parte alla festa a tema anni ‘40 del quinto piano.
Tutti i buoni propositi sembrano crollare già dopo poche ore e tra le mura della suite riemergono vecchi rancori che culmineranno con l’arrivo inaspettato di Boris, che li trascinerà nella sua spirale di violenza e follia.
Quando la morte irromperà nella loro quotidianità, l’hotel svelerà la sua vera natura e, in qualche modo, si rivelerà una soluzione per risolvere i vecchi dissapori una volta per tutte.

Primo episodio della saga "Zeitgeist Hotel"
LinguaItaliano
EditoreReda Wahbi
Data di uscita31 mar 2014
ISBN9788869091100
Zeitgeist Hotel, Stagione 1: Una Stanza Grigia

Correlato a Zeitgeist Hotel, Stagione 1

Ebook correlati

Narrativa horror per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Zeitgeist Hotel, Stagione 1

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Zeitgeist Hotel, Stagione 1 - Reda Wahbi

    cosa.

    2

    Proseguirono verso Langhirano. Il grigio e l'ocra delle fabbriche e dei palazzi sparì pian piano, scivolando nella campagna. Chilometro dopo chilometro, le case, i bar e qualunque altro segno di civiltà sparì schizzando velocemente via al loro passaggio, lasciando posto a vasti campi di grano dorati pigramente spinti dal vento caldo e appiccicoso. I cartelli cominciarono ad apparire sempre più consumati e arrugginiti, come dimenticati, lasciati a divorare dal tempo e dalla natura, ignorati dall'uomo.

    Le strade erano vuote, nessuna macchina di passaggio, nemmeno i camion. La cittadinanza di Langhirano, per quel giorno, aveva optato per proteggersi nel fresco delle loro case attrezzate di ventilatori e condizionatori d'aria.

    Quando la strada si strinse in una sola corsia a senso unico, ai solidi cartelli di metallo colorati di blu catarifrangente, si sostituirono grezzi cartelli di legno con gli angoli smangiucchiati su cui era scritto con la vernice rossa, con segno incerto e frettoloso: CASTELCHIASSO.

    «Brrr», fece Gustav fingendo di rabbrividire.

    «Che c'è?», mugolò Inès, ormai immersa nel sonno.

    «Dici che ne usciremo vivi da lì?».

    «Perché?».

    «Le indicazioni sembrano prese da qualche film dell'orrore. Ci mancava solo un corvo che ci si posava sopra».

    Inès fece un sorriso stanco, si rimise comoda con le ginocchia al petto e la testa poggiata al finestrino e, con gli occhi nuovamente puntati persi nella campagna sussurrò: «Scemo...».

    Si passò una mano sulla nuca rasata: Il solletico sui polpastrelli le conciliava il sonno. La sua fece si fece più leggera e si perse nei pensieri. Si chiese se a Gustav piacessero i suoi nuovi capelli, platinati e corti come quelli di un maschietto.

    Quando si era presentata col suo nuovo look, dopo mesi di assenza e silenzio, si era limitato a un semplice wow, dopodiché un bacio e una carezza.

    Ma lui era fatto così, preferiva non scoprirsi troppo, non abbassava mai la guardia. Sosteneva che le emozioni lo plasmassero, trasformandolo in un uomo ridicolo. C'era un solo posto per le emozioni, a detta sua, e quella zona neutrale dove tutto gli era permesso, perfino apparire ridicolo, era la carta.

    Inès provò a misurare il tempo che li aveva separati.

    Tre mesi, forse sei.

    Dopo che l'amore di Gustav si era totalmente esaurito, i giorni di Inès si sciolsero l'uno nell'altro, lasciandola immersa nella solitudine di muri bianchi del suo (loro...) trilocale in centro a Milano. La sua vita si trasformò in un unico, lungo pomeriggio in cui attendeva speranzosa il suo ritorno, sdraiata sul divano del salotto, immersa nelle coperte, a guardare la porta con gli occhi arresi gonfi di lacrime, pronta e sull'attenti ogni volta che sentiva un eco di passi rimbombare nel corridoio.

    Non tornerò, Inès, le aveva scritto uno volta dopo avergli chiesto se facesse bene ad aspettarlo ancora, smettila di aspettare, puoi starci solo male, davvero.

    Gliel'aveva detto perché le voleva bene. Non parlerebbe così se non ci tenesse ancora a lei. Allora perché se n'è andato?

    In quel periodo le tornarono in mente le parole di sua madre: se vuoi che i tuoi desideri si avverino, tesoro, devi imparare a lasciare da parte ogni speranza.

    E aveva ragione, aveva avuto pienamente ragione. Quando decise di alzarsi dal divano e immergersi di nuovo nel lavoro, il suo Gustav era tornato. Non doveva esserci una ragione. Era giusto che tornasse, doveva essere così.

    Il ricordo di quell'attesa la incupì. Scosse la testa, come a volerselo scrollare di dosso e si girò verso Gustav che torturava il volante in lotta contro il caldo e il sudore.

    «Che c'è?», chiese con fare nervoso.

    «Niente», rispose sorridendo, «Volevo solo guardarti».

    Avrebbe voluto dirgli che, a conti fatti, si era sbagliato, si ero sbagliato su tutto. Il suo era un sentimento giusto e lo amava troppo perché lui se ne andasse e basta. Non sarebbe mai potuta finire così.

    Ma lasciò perdere. Preferì ritornare alla realtà: lì, rinchiusi nella Fiat Panda, nella strada verso lo Zeitgeist Hotel, il loro presente stava ricominciando. Il pensiero la fece sorridere. La sua mente adesso erano come quelle spighe di grano che ondeggiavano leggere sotto cielo accecante, privo di nuvole. Lasciò che le sue palpebre si abbassassero lentamente, stanche, e si riaddormentò con un sorriso debole sul viso.

    Una forza invisibile spinse Inès contro il cruscotto della macchina. La cintura di sicurezza scattò in tempo e la rigettò indietro contro lo schienale.

    Si guardò intorno assonata e confusa. Ogni cosa pareva sbiadita, come avvolta nel cellophane, finché Gustav non tuonò una sonora bestemmia, strappandola dal suo torpore.

    «Non bestemmiare...», piagnucolò Inès, stropicciandosi un occhio con una mano e accarezzandosi l'abrasione sul petto provocata dalla cintura con l'altra.

    Gustav la guardò attonito, come se fosse magicamente spuntata fuori dal nulla.

    Si passò una mano tra i capelli e si appoggiò stizzito al schienale.

    «È colpa di 'sti stronzi», ringhiò scattando in avanti all’improvviso e indicando davanti a sé con la mano tesa.

    Una lunga fila di macchine si estendeva davanti a loro lungo la stretta strada sterrata che portava verso l'hotel.

    Gustav prese a pestare il clacson in piena crisi compulsiva, imprecando e bestemmiando con tutto il fiato che aveva in corpo.

    «Smettila di bestemmiare!», strillò Inès tenendo le mani premute contro le orecchie.

    «Ma non si muovono!», urlò Gustav di rimando.

    «Guarda che mica ti sentono!».

    «Cos'è? Ti da fastidio?».

    «Sì, cazzo!», e finalmente calò il silenzio.

    Gustav si slacciò un bottone della camicia e si lasciò cadere di nuovo contro lo schienale.

    «La macchina è piccola e quando urli rimbomba tutto», disse Inès con voce sofferta e assonata, «e anche il clacson è fastidioso».

    «Scusa», disse Gustav a voce bassa, quasi controvoglia.

    «Adesso vedrai che vanno avanti, aspetta un po'».

    «Sì, sì. Va bene».

    Le macchine ripresero la loro marcia, come in una lunga e solenne processione.

    Proseguendo in coda alla fila di macchine, una macchia gialla e verde, leggermente distorta dal calore, spuntò dal fondo della strada.

    «È quello?», chiese Inès stropicciandosi gli occhi,

    «Speriamo», rispose Gustav seccato. Si schiarì la voce e continuò con un tono più cordiale, «Credo di si, comunque».

    La macchia si espanse e si allungò verso l'alto, i contorni si fecero più definiti e davanti ai loro occhi prese forma lo Zeitgeist Hotel.

    La strada terminava in un ampio cortile ghiaiato, abbastanza esteso da fungere da parcheggio.

    La fila si frantumò e ciascuna macchina si separò dalle altre in cerca di uno spazio dove parcheggiarsi.

    La Panda attraversò il cortile e si piazzò nell'ultimo spazio disponibile sulla striscia d'erba che separava l'hotel dai campi.

    L'auto si spense, cigolando e sputacchiando il gas residuo, esausta dopo ore di viaggio in cui era stata spinta al massimo delle sue possibilità. Scesero entrambi con le mani ben premute dietro i fianchi, stiracchiandosi, allungandosi, lanciando mugolii di dolore e sollievo. Si piazzarono davanti la macchina, uno di fianco all'altra, e alzarono le teste in religiosa contemplazione.

    Presentandosi come una macchia gialla che si ergeva in mezzo al nulla dopo ore di viaggio, lo Zeitgeist Hotel appariva come un'oasi felice e accogliente. Mancava totalmente la sensazione di estraneità e alienazione che spesso può trasmette un hotel.

    Davanti i muri giallo ocra avvolti nella fitta rete di edere e rampicanti rigogliosi che brillavano sotto il sole d'agosto, il vostro cuore si sarebbe riempito di una strana famigliarità domestica che ricondurreste alle case estive in montagna dove passavate il tempo ad annoiarvi in beatitudine con i vostri parenti.

    Gli scalini in marmo rosa che portavano alle porte-vetro dell'entrata e la placchetta in marmo scuro con su inciso il nome dell'hotel in caratteri corsivi dorati donavano un tono elegante alla struttura che poteva stridere con l'aspetto rustico e famigliare, ma per i gusti di Gustav e Inès quel tocco donava uno strano equilibrio a tutto, stridente e piacevole allo stesso tempo, quasi kitsch.

    Le altre macchine intorno a loro si spensero contemporaneamente e le portiere cominciarono ad aprirsi e chiudersi intorno a loro.

    I passeggeri scesero. A nessuno di loro si sarebbe potuto dare più di 25 anni, a qualcuno nemmeno 18.

    Davanti a loro si parò una sfilata di facce morbide e lisce che con molta probabilità non avevano mai incontrato una lametta in vita loro. Pochi fortunati sfoggiavano barbe gonfie e incolte lunghe fino al petto.

    Occhiali da sole dalle montature viola, rosse, verde acqua, rosa shocking o trasparenti, camice a scacchi e t-shirt con stampate sopra loghi di videogiochi, di gruppi sconosciuti o con disegni scarabocchiati con il pennarello indelebile.

    Autisti e passeggeri rimasero in piedi e silenziosi di fronte alle rispettive auto, poi si mossero insieme e si riunirono in unico blocco compatto davanti alle scale dell'hotel.

    Gustav li guardò affascinato. Si avvicinò a uno di loro, un ragazzo alto e massiccio dalla pelle nera che indossava una maglietta raffigurante di Albert Ayler.

    «Anche voi qua per la festa?», chiese sorridendo e tendendo la mano.

    Il ragazzo si levò gli occhiali, lo guardò con occhi vuoti e fece per parlare.

    «Youssef», urlò un ragazzo basso e biondo al centro del cerchio, «lascia stare. Andiamo».

    Il ragazzo lo squadrò dalla testa ai piedi con aria disinteressata, si rimise gli occhiali e si unì agli altri che stavano entrando all'interno dell'hotel.

    Qualcosa si spezzò dentro Gustav. Il suo sorriso si sciolse, e solo dopo pensò a quanto doveva essere sembrato ridicolo con quel ghigno storto e affaticato dal caldo disegnato sulla faccia e la mano tesa in avanti, simile a un manichino scartato.

    Inès tornò con una grossa borsa sportiva grigia e un paio di valigie.

    «Fai amicizia?», chiese buttando giù il carico e sbuffando per la fatica.

    «No...», rispose Gustav calando lentamente il braccio. Si accorse del carico che Inès aveva faticosamente trascinato fino a lì ,«potevo darti una mano».

    «Tranquillo, ce la faccio. Allora, ti piace?».

    Gustav volse nuovamente lo sguardo all'hotel.

    «Sì. È carino. Rustico, diciamo».

    «Vedi che entro dopodomani, con la festa che c'è non ti sembrerà più tanto rustico», disse Inès guardandolo complice e tirando fuori la lingua.

    Gustav sorrise, prese il borsone e una valigia, le avvolse il braccio libero intorno alle spalle e, stretti l'uno all'altro, camminarono verso l'hotel.

    Una volta attraversata la porta-vetro, Inès e Gustav vennero accolti nella scintillante hall dell'hotel.

    La soffocante luce d'agosto entrava nell'atrio filtrata dalle tende color crema che coprivano le finestre, tramutata in un morbido e fresco fascio di luce bianca che si rifletteva nel marmo rosa di cui erano ricoperti il pavimento e gli spessi pilastri che sostenevano il soffitto.

    Dalle piccole casse stereo appese in cima a ciascuna colonna si diffondeva, compatta e metallica, il suono di un leggero tappeto d'archi a cui si mescolavano i suoi scintillanti di un metallofono e di un piano forte.

    L'aria era pregna di vaniglia e margherite, diverso dall'odore neutro dei tappeti e della cera tanto odiati da Inès che le facevano girare la testa e sentire ancora più estranea.

    L'unica leggera imperfezione di questa elegante visione era l'impercettibile cigolio del lampadario di cristallo che pendeva sopra le loro teste e, per i gusti di Inès, i divani e le poltroncine in pelle nera che riempivano la sala d'attesa a destra dell'entrata.

    «Sembra l'arredamento di un film porno», sussurrò Inès.

    «Hai una cultura in materia?», chiese Gustav , ridacchiando.

    «Mio fratello aveva dei divani così in camera sua», rispose Inès rabbrividendo.

    Un lungo tappeto rosso portava verso la reception, composto da bancone e pannelli in mogano.

    Scaricarono la borsa e le valigie e cominciarono a guardarsi intorno in cerca di un responsabile.

    «Guarda», disse Inès indicando il campanellino sul bancone, «è come nei film!».

    «Mai visto uno prima?».

    «No!».

    «Ma dai...», Gustav fece per alzare la mano e suonare il campanello ma Inès lo anticipò.

    Fece spallucce, tirò fuori la punta della lingua e con tono infantile disse:

    «Volevo farlo io».

    Dalla porta di fianco il pannello uscì una figura lunga e sottile, avvolta in un rigido abito nero.

    Il vecchio li esaminò con sospetto, poi sorrise, mostrando i denti corti e le gengive inscurite dalle sigarette. Appoggiò le mani lunghe e scheletriche sul bancone e cominciò a picchiettare il legno con le dita macchiate di nicotina.

    «Buongiorno», la sua voce era roca e le sue parole parevano ribollire nel catrame che gli riempiva i polmoni.

    «Buongiorno», risposero i due in coro.

    Dopo un breve silenzio imbarazzato, fu Gustav a rompere il ghiaccio.

    «Sì, siamo Stahl e Fornari. Abbiamo prenotato per le 11».

    Il vecchio fece un cenno con la testa, tirò fuori un pesante registro in cuoio e lo buttò di peso sul

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1